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Linee per una futura agenda di riforma delle politiche migratorie nazionali

Openpolis

da Openpolis

di Luca Di Sciullo 

Breve ricognizione degli effetti dell’attuale gestione delle migrazioni in Italia e in Unione europea 

Ripercorrendo a ritroso i 50 anni di storia dell’immigrazione in Italia (è nel 1973 che il numero di immigrati che si sono fermati stabilmente nel Paese ha superato, per la prima volta, quello degli emigrati italiani che nello stesso anno si sono trasferiti all’estero, né la situazione si è mai più rovesciata da allora), colpisce che, a dispetto di ben 9 regolarizzazioni varate in 38 anni [1] di legiferazione in materia, la sacca di non comunitari in condizione di irregolarità giuridica consti di poco meno di mezzo milione di persone: fino al 2021 sono stati, per lungo tempo, oltre 500mila (506 mila ancora nel 2021) e solo nel 2022 sono scesi al numero sopra indicato grazie agli effetti di riassorbimento – piuttosto tenui – della regolarizzazione del 2020 [2], proceduta con stucchevole lentezza e non ancora portata a compimento (delle 207 mila domande presentate da datori di lavoro, a maggio 2023 soltanto 65 mila, il 31%, avevano terminato l’iter con un esito positivo – il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro – mentre un altro 15% ha conosciuto un definitivo rigetto). Se si considera che dopo tre anni dal suo varo i regolarizzati sono stati appunto 65 mila e che nella regolarizzazione del 2002 questi ultimi furono circa 650 mila, si può concludere che, se quest’ultima fosse proceduta con gli stessi ritmi di quella del 2020, avrebbe impiegato 30 anni per giungere a termine; e oggi ne mancherebbero ancora 8. Ad ogni modo, il rapporto tra il numero dei non comunitari irregolarmente presenti e quelli regolarmente soggiornanti resta pressoché invariato a circa 1 ogni 7.

Quanto impedisce strutturalmente il prosciugamento definitivo di questo bacino fisso di irregolari è sia l’inefficacia delle regolarizzazioni di massa una tantum (se non supportate da contratti di medio-lungo periodo e da solide tutele e condizioni di impiego, le emersioni restano labili e di breve durata: i titolari ricadono nel sommerso già alla prima scadenza del nuovo permesso di soggiorno, essendo nel frattempo decaduto il rapporto di lavoro regolarizzato), sia l’estrema volatilità dei permessi di soggiorno “a termine”, legati a uno specifico motivo della presenza e soggetti a periodico rinnovo, a causa dei rigidi requisiti necessari per quest’ultimo (in particolare, nel caso dei soggiornanti per lavoro, l’esibizione – a ogni scadenza del permesso – di un regolare contratto di lavoro in essere, il che presuppone una continuità occupazionale che, dopo le crisi globali del millennio che hanno precarizzato l’occupazione per gli stessi italiani, è una condizione difficile da rinvenire perfino tra questi ultimi).

da Limes

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Ciononostante, proprio i titolari di questi permessi “a termine” sono recentemente aumentati in misura più consistente (+267 mila nel 2022, per un totale di 1.486.000, il 39,9% di tutti i soggiornanti nonUe). Di contro, a fine 2022 i titolari di permessi di soggiorno di “lunga durata” (non soggetti a scadenza né dunque a rinnovo) sono 2.241.000: diminuiti di 101.000 rispetto al 2021, anche a seguito dell’avvenuta acquisizione di cittadinanza italiana nel corso dell’anno (in totale, nel corso il 2022, le naturalizzazioni sono state 214 mila, ma sarebbero oltre 1 milione gli stranieri nati in Italia che potrebbero acquisire la cittadinanza se vigesse lo ius soli e circa 900 mila quelli che, avendo terminato anche un ciclo quinquennale di formazione scolastica, ne avrebbero accesso se vigesse lo ius culturae o scholae).

Tra i soggiornanti “a termine” spicca il notevole aumento annuo, nel 2022, di quelli per protezione (richiesta di asilo, protezione internazionale e “speciale”, protezione temporanea): ben 353 mila (+172 mila rispetto al 2021), pari a un quarto del totale (23,7%), per oltre i due quinti (41,5%) costituiti proprio da titolari della protezione temporanea riservata ai profughi in fuga dalla guerra in Ucraina (circa 146.400).

1-2Benché aumentati di numero, a causa dello straordinario afflusso di profughi provenienti dal Paese invaso dalla Russia, i 353mila richiedenti asilo e titolari di protezione presenti in Italia rappresentano – contro ogni distorta rappresentazione che dipinge il Paese come “il campo profughi dell’Europa” – appena lo 0,7% della popolazione totale in Italia: una percentuale pari a meno della metà di quella media rilevata in Ue, dove i 7,5 milioni di richiedenti asilo e rifugiati incidono per l’1,7% sulla popolazione complessiva, con punte – tra i soli Paesi con almeno 10 milioni di abitanti – del 4,0% in Repubblica Ceca, del 2,8% in Germania e in Svezia e del 2,7% in Polonia.

Del resto le ininterrotte politiche di chiusura, espulsione e respingimento dei migranti, perseguite dall’Ue e dall’Italia anche mediante l’onerosa strategia della “esternalizzazione delle frontiere” (cioè tramite accordi di finanziamento a Paesi terzi di transito affinché blocchino e/o riportino con la forza al proprio interno, in campi di detenzione dalle condizioni di vita disumane, i flussi di migranti diretti verso le frontiere europee), non sono in grado, come tali, di annullare la pressione migratoria verso il Vecchio Continente, sebbene siano state codificate in maniera ufficiale  dal recente varo definitivo del Patto su migrazione e asilo dell’Ue.

22Nonostante i respingimenti illegali attuati, anche con metodi brutali (percosse, denudamenti, bruciature, bastonate, docce gelide, torture ecc.), da diverse polizie nazionali lungo le varie rotte dirette verso l’Unione o interne ad essa (oltre 25mila tra il 2017 e il 2022, secondo il Black book of pushbacks 2022); e a dispetto dei Memorandum d’intesa sottoscritti con Paesi come la Turchia (cui l’Ue, dal 2016, ha elargito 9,5 miliardi di euro), la Libia (che solo dall’Italia ha ricevuto ininterrottamente, dal 2017, almeno 1 miliardo di euro, oltre a mezzi navali, equipaggiamenti e addestramenti diretti, e il cui accordo nel 2022 il Parlamento italiano ha rinnovato per il sesto anno consecutivo, per ulteriori 3 anni), la Tunisia (firmato con l’Ue nel luglio del 2023) e quello similare in preparazione con l’Egitto; e, ancora, nonostante analoghi accordi di contrasto alle migrazioni stipulati con il Niger (sempre Ue e Italia congiuntamente), la Bosnia ecc., nel 2022 sono stati oltre 331.400 gli ingressi irregolari nell’Unione europea (contro i 199.900 del 2021 e i 126.300 del 2020).

In particolare, 105.600 sono avvenuti lungo la rotta del Mediterraneo centrale (erano stati 67.700 nel 2021 e 35.700 nel 2020, mentre nei primi 9 mesi del 2023 si era già a 127mila), ancora la più letale al mondo tra quelle marittime [3]; quindi, 144.100 lungo la rotta dei Balcani occidentali (contro i 61.600 del 2021 e i 26.900 del 2020, ma con 70.500 già nei primi 9 mesi del 2023), dove continuano i violenti respingimenti “a catena” verso sud e i sempre nuovi risalimenti verso nord, in quel surreale “gioco” (“the game”, come lo chiamano i migranti stessi) in cui si è ininterrottamente riportati al punto di partenza e di lì occorre sempre di nuovo rincamminarsi [4]; e circa 81.800 lungo le altre rotte.

L’Italia assorbe la quasi totalità dei flussi della rotta del Mediterraneo centrale (105.100 nel 2022, di cui il 13,4% minori non accompagnati, per un incremento del 55,9% rispetto ai 67.000 del 2021 e contro i 35.200 del 2020 e gli 11.500 del 2019) e una parte consistente di quelli provenienti dalla rotta balcanica (13.000 nel 2022).

A tale incremento degli arrivi (ma ancora contenuto rispetto al picco dei 181 mila del 2016 e, in generale, ai livelli di punta del periodo 2014-2017) ne è corrisposto uno similare sia delle domande di protezione presentate (in Ue 966 mila, +52,7% rispetto al 2021, di cui ben 240.200 riguardanti minori e in particolare 39.500 minori non accompagnati; in Italia 77.200, l’8,7% del totale Ue, a fronte delle 54.000 del 2021), sia dei richiedenti asilo e titolari di protezione ospitati nel sistema nazionale di accoglienza.

7Nel frattempo, i richiedenti asilo sono tornati ad essere relegati, su disposizione del “Decreto Cutro” (D.l. 20/2023 convertito in legge 50/2023), nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), che – a dispetto della denominazione e dell’originaria ipotesi di destinarli a situazioni emergenziali – sono da subito diventati più che “ordinari”, dal momento che ancora a fine 2022 accoglievano i due terzi (66,8%, pari a 71.882 persone) di tutti i migranti ospitati nel sistema nazionale di accoglienza (108 mila). Si tratta di strutture per le quali lo stesso Decreto ha tagliato servizi fondamentali come l’assistenza psicologica, l’orientamento legale, l’insegnamento della lingua italiana L2, facendone delle mere “sale d’attesa” in cui i richiedenti asilo aspettano inerti, spesso anche per molto più di un anno, l’esito delle loro domande, alla mercè di reclutatori di manovalanza in precaria condizione giuridica (e quindi con diritti e tutele limitati) da sfruttare illegalmente, sotto caporalato o per attività illecite.

Nel 2022, delle 53 mila domande di protezione esaminate in Italia dalle relative Commissioni territoriali, ha ricevuto esito positivo in primo grado solo il 48,4% (quota in linea con la media Ue, dove nello stesso anno solo il 49,1% delle 632.400 domande prese in carico è sfociato nel riconoscimento di una forma di protezione). In particolare, in 7.610 casi è stato ottenuto lo status di rifugiato, in 7.200 la protezione sussidiaria (le due tipologie di protezione internazionale) e in quasi 10.900 casi la protezione nazionale denominata “speciale” (sostitutiva, dal 2018 della vecchia “umanitaria”), secondo l’estensione dei criteri di fruizione stabiliti nel 2020 dal Decreto Lamorgese e tuttavia di nuovo drasticamente contratti dal “Decreto Cutro”, per cui si prevede che il tasso di riconoscimento della protezione “speciale” – e, di conseguenza, complessivo – in Italia subirà una sensibile riduzione.

Dal momento che tutti i richiedenti cui non viene riconosciuta una protezione trapassano automaticamente nella cerchia dei migranti irregolari e diventano quindi passibili di espulsione (peraltro aggravata da un divieto di rientrare in Italia per un certo periodo di anni), il che sancisce il fallimento del loro intero percorso migratorio, quel che solitamente accade è che i diniegati, pur di non tornare indietro, si rendono irreperibili, disperdendosi sul territorio.

È significativo che, a fronte di una sacca di irregolari stimata in 458 mila persone (continuamente riprodotta anche da simili meccanismi), nel 2022 quelli intercettati e raggiunti da un provvedimento di espulsione siano stati appena 36.770, di cui solo l’11,7% è stato effettivamente rimpatriato (4.304 immigrati), a fronte del 15,1% nel 2021 e del 13,7% del 2020. D’altra parte dei migranti transitati, lungo il 2022, in uno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sparsi sul territorio nazionale (6.383: +68,7% rispetto ai 4.387 del 2021), ad essere rimpatriati sono stati solo il 49,1%. A tutti gli altri, scaduti i termini di reclusione amministrativa nei Cpr, viene consegnato il cosiddetto “foglio di via” con il quale si intima loro di effettuare, a proprie spese, ciò che, in mesi di arresto forzato, lo Stato non è stato in grado di realizzare (soprattutto a causa di un numero alquanto ridotto di “accordi di riammissione” con i Paesi d’origine): il loro rimpatrio, appunto.

Ma l’esito, anche in questo caso, è che essi tornano a spargersi da “invisibili” per l’Italia, disattendendo (per mancanza di volontà e/o di risorse personali sufficienti) l’intimazione ricevuta. A nulla sono valsi i periodici allungamenti “a fisarmonica” dei tempi di permanenza (passati, a fasi alterne, da un minimo di 30 giorni a un massimo di 18 mesi, come attualmente ristabilito dall’attuale governo): il tasso di rimpatrio è comunque rimasto costante (era ancora del 48,5% nel 2019 e del 50,8% nel 2020, quando la reclusione era di 6 mesi).

8Ebbene, pur a fronte di una simile inefficacia del sistema di espulsione e rimpatrio, il quale alimenta – invece di ridurre – la sacca di irregolarità e rende largamente inutile la pur onerosa detenzione amministrativa nei Cpr (solo tra il 2021 e il 2023 sono stati spesi ben 56 milioni di euro per affidare la gestione di tali strutture, esclusi i costi di polizia e di manutenzione, mentre per il triennio 2023-2025 altri 42,5 milioni sono stati stanziati per ampliarne e rafforzarne la rete); e pur a fronte delle condizioni di vita disumane che i trattenuti sono costretti a subirvi, senza controlli sufficienti e senza presidi legali e sanitari (cibi avariati, condizioni igieniche gravemente compromesse, abusi, violenze ecc.), come da anni attestano i Rapporti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nondimeno le recenti politiche governative perseguono l’intenzione di aumentare il numero dei Cpr, auspicando espressamente di istituirne almeno uno per regione italiana (nel 2016-2017 si era già arrivati a 14, per un totale di 1.400 posti).

E, per rimediare agli effetti strutturalmente disfunzionali di questi Centri (la reimmissione di migranti irregolari sul territorio italiano), lo stesso governo:

- da una parte, ha ideato di costruirne anche alla frontiera, dove trattenere i richiedenti asilo provenienti da Paesi terzi considerati “sicuri” o che abbiano provato a fare ingresso illegalmente in Italia (senza quindi farli entrare nel Paese, a dispetto di quanto prescrive il diritto internazionale), per tutto il tempo necessario a vagliare la loro domanda mediante “procedura accelerata” (una nuova modalità anch’essa introdotta dal “Decreto Cutro”), così che, in caso di probabile diniego, possano essere espulsi senza neanche aver mai fatto ingresso nel Paese (ed è preoccupante che anche una simile misura sia stata ufficialmente promossa a procedura ordinaria nell’Ue dal Patto su migrazione e asilo definitivamente approvato);

- dall’altra parte, ha inaugurato un sistema di vaglio extraterritoriale delle domande di protezione, attraverso la previsione di costruire 2 hotspot e un Cpr in Albania (sulla base di un apposito accordo sottoscritto con il corrispettivo governo), nei quali dirottare i richiedenti asilo, maschi e adulti (eventualmente separati dal resto della famiglia), intercettati in mare dalla Guardia costiera italiana, anche in questo caso per poterli respingere – in caso di diniego – senza che essi abbiano prima mai messo piede in Italia, scongiurandone così la dispersione sul territorio da irregolari.

Problematico, poi, è anche il modello di segregazione occupazionale degli immigrati che, complice un impianto normativo intenzionalmente vessatorio quanto ai meccanismi di ingresso e alle modalità di gestione dei migranti economici, si è venuto consolidando e cronicizzando lungo gli ultimi decenni. 

da Corriere della Sera

da Corriere della Sera

L’assurdo meccanismo della chiamata nominativa dall’estero da effettuare “al buio” (cioè senza aver mai incontrato di persona il lavoratore straniero che pure si deve espressamente attestare di voler assumere, per autorizzarne l’arrivo in Italia ai fini della contrattualizzazione), cui la cosiddetta legge “Bossi-Fini” del 2022 ha aggiunto sia la rigida saldatura del permesso di soggiorno per lavoro alla vigenza di contratto di lavoro, quale conditio sine qua non tanto per il suo rilascio (che può avvenire solo previa sottoscrizione del contratto tra le parti convocate in Prefettura) quanto per il suo rinnovo, sia l’abolizione della possibilità di entrare in Italia qualora vi si intenda cercare un’occupazione direttamente (avendo soppresso il permesso annuale di ingresso per ricerca lavoro “sotto sponsor”, ovvero a fronte di soggetti o enti che per un anno avrebbero coperto i costi di permanenza e di eventuale rimpatrio del titolare), sono tutte misure che da circa un quarto di secolo pongono il lavoratore straniero in una posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro e conferiscono a quest’ultimo un potere di ricatto (giacché dalla sua intenzione di avviare o rinnovare il contratto dipende la permanenza regolare del lavoratore sul territorio e la sua non espellibilità), il che ha favorito abusi, sfruttamento e blocco della mobilità occupazionale e sociale dei migranti.

I quali, non a caso, sono rimasti da decenni schiacciati sui gradini più bassi delle professioni, in quel cosiddetto “mercato secondario” costituito dalle occupazioni più precarie, faticose, sottopagate, dequalificate ed esposte al lavoro nero, in cui i lavoratori italiani hanno costantemente rifiutato di venire impiegati anche in anni di crisi (a dispetto della retorica che vorrebbe italiani e stranieri in competizione nel mercato occupazionale, con questi ultimi che “ruberebbero” il lavoro ai primi). 

121110545_3712242222129036_110639180482852726_o-678x600Proposte per una riforma innovativa delle politiche migratorie nazionali 

Proprio alla luce delle concrete criticità fin qui richiamate e statisticamente documentate, cercheremo di enucleare, sia pure in maniera sintetica, alcune più rilevanti proposte di revisione e riforma delle politiche migratorie nazionali, che dovrebbero auspicabilmente entrare nell’agenda di decisori politici che abbiano eventualmente a cuore il futuro di una Italia già da ora multiculturale.

1) Inteso che lo stato di irregolarità giuridica di un immigrato non solo penalizza gravemente l’interessato, giacché lo rende privo di diritti, di tutele e di potere contrattuale, impiegabile esclusivamente in nero e quindi – in quanto automaticamente passibile di espulsione – ricattabile e sfruttabile da organizzazioni criminali o da datori di lavoro senza scrupoli, ma – a dispetto della retorica politica che giustifica con argomenti securitari le norme restrittive a causa delle quali l’irregolarità si riproduce – aumenta anche l’insicurezza all’interno del Paese (dal momento che il “sommerso” cui l’attuale impianto normativo destina queste persone, congiunto all’inefficacia dei rimpatri, le rende irrintracciabili, irreperibili, sottratte al controllo); e inteso che l’irregolarità del soggiorno danneggia l’economia italiana perché, impedendo strutturalmente l’accesso al lavoro regolare, concorre ad alimentare l’evasione fiscale (e quindi l’economia illegale) da parte sia del lavoratore straniero sia del suo datore di lavoro, il primo pacchetto di riforme risponde all’esigenza di abolire definitivamente lo status di irregolarità degli stranieri non comunitari.

Una misura, questa, che farebbe automaticamente decadere il connesso “reato di clandestinità”, con conseguente abrogazione sia del provvedimento dell’espulsione dall’Italia, nei casi in cui il soggiornante non possa rinnovare il titolo di soggiorno per la perdita dei requisiti necessari, sia dell’istituto della detenzione amministrativa. Ne deriverebbe, a cascata, la definitiva chiusura e abolizione dei Centri di permanenza per il rimpatrio.

Funzionali all’implementazione di questo primo pacchetto di riforme sarebbe:

- l’estensione fino a 5 anni della durata dei permessi di soggiorno per lavoro (subordinato e autonomo) e per famiglia, in quanto motivi che denotano l’intenzione di un radicamento duraturo in Italia. Terminato il periodo quinquennale di vigenza, per quanti intenderanno restare nel Paese sarà possibile o accedere al permesso di soggiorno Ue per lungo-soggiornanti, non più soggetto ad alcuna scadenza, oppure (dopo un eventuale esame sulla conoscenza generale della lingua, della cultura, dell’ordinamento civile e della Costituzione italiani) acquisire per naturalizzazione la cittadinanza italiana.

- Istituire un permesso annuale di (re)inserimento socio-occupazionale, da rilasciare ai soggiornanti per studio, residenza elettiva, ricerca lavoro il cui relativo titolo di soggiorno non si sia potuto rinnovare, alla scadenza, per la perdita dei requisiti necessari, come pure ai richiedenti asilo e ai titolari di protezione accolti nel sistema di accoglienza. Permesso che implicherebbe, per il titolare, il contestuale ingresso in programmi di (re)integrazione sociale e lavorativa mirati, a seconda dei casi, a recuperare i requisiti utili a rinnovare il titolo di soggiorno originario o ad acquisire un permesso di soggiorno per lavoro o famiglia, valorizzando, nell’implementazione di tali programmi, l’apporto del Terzo settore. Il (re)ingresso nel mercato del lavoro di quanti avranno terminato tali programmi avverrebbe attraverso apposite sotto-quote, da inserire nei Decreti flussi annuali.

- Mettere in atto un piano triennale di completo riassorbimento della sacca di immigrati non comunitari in condizione di irregolarità giuridica, sempre mediante rilascio di un permesso annuale di reinserimento socio-occupazionale, ingresso in programmi di reintegrazione sociale e lavorativa, reingresso regolare nel mondo del lavoro attraverso apposite sotto-quote previste nei Decreti flussi annuali.

2) Il secondo ambito di riforme riguarda la revisione dei meccanismi di ingresso e soggiorno in Italia per motivi di lavoro. Il punto di partenza consisterà nel ripristinare in maniera ordinaria e senza soluzione di continuità la programmazione triennale delle quote di ingresso di lavoratori stranieri dall’estero, basandola sull’intera stima del fabbisogno di manodopera aggiuntiva del mercato del lavoro italiano e non su un numero sottodimensionato rispetto al fabbisogno rilevato (come è ancora accaduto nel pur apprezzabile riavvio, dopo circa 20 anni di assenza, della programmazione triennale per il 2023-2025).

elezioni_immigrazione_italiaIn funzione dell’implementazione di questo secondo tema di riforme, gli auspicabili interventi sono:

- ripristinare il permesso di soggiorno di ingresso per ricerca di lavoro sotto sponsor per un anno, sia pure secondo criteri e meccanismi di attuazione riveduti, in grado di impedire gli abusi che, in qualche caso, ne avevano caratterizzato l’avvio. In conseguenza del ripristino di questo permesso, la procedura di chiamata nominativa dall’estero potrebbe venire limitata alle sole aziende (medio-grandi) che abbiano previamente attivato corsi di formazione professionale pre-partenza nei Paesi di origine o di transito degli aspiranti lavoratori non comunitari. Così vincolata a corsi pre-partenza, la chiamata nominativa dismetterebbe la connotazione di “pescaggio al buio” del lavoratore dall’estero e si baserebbe su una previa conoscenza on the field del lavoratore, maturata durante il percorso di formazione previo.

- ripartire, all’interno dei Decreti flussi annuali, le quote di ingresso di lavoratori stranieri in quattro specifiche sotto-quote, sulla base delle ipotesi di riforma illustrate nei punti precedenti e – riguardo alla quarta sotto-quota – che saranno illustrate di seguito: I) una riservata agli ingressi su chiamata nominativa da parte delle imprese medio-grandi; II) una riservata agli ingressi per ricerca di lavoro sotto sponsor da parte delle piccole imprese (che non possono promuovere corsi di formazione pre-partenza all’estero) e delle famiglie; III) una per gli immigrati già presenti che abbiano seguito corsi di reinserimento socio-occupazionale finalizzati al riacquisto dei requisiti di soggiorno; IV) e, infine, una riservata ai richiedenti asilo e ai titolari di protezione inseriti in “terza accoglienza”.

3) Varare una legge-quadro nazionale sull’integrazione che funga da riferimento unitario per le politiche regionali e locali, al fine di renderle coerenti tra loro e rispetto alle opzioni fondamentali e agli obiettivi generali stabiliti, in tale legge-quadro, a livello nazionale. In particolare, in quest’ultima sarebbe auspicabile:

a. nell’ambito dell’inserimento sociale, contrastare i modelli dominanti di subalternità dei migranti, promuovendone la partecipazione attiva alla vita collettiva e rimuovendone le forme di discriminazione istituzionale e burocratica nell’accesso alle misure di sostegno al reddito e ai beni e servizi fondamentali di welfare;

b. nell’ambito dell’inserimento occupazionale, contrastare i modelli dominanti di segregazione dei lavoratori stranieri (es. sbloccare la mobilità occupazionale degli stranieri anche riformando i criteri e le procedure di riconoscimento dei titoli di studio e formazione acquisiti all’estero, per una loro maggiore valorizzazione nel mercato del lavoro);

c. nell’ambito dell’inserimento culturale, istituire e regolamentare un albo nazionale dei mediatori culturali, da impiegare in maniera continuativa negli uffici pubblici, presso gli sportelli dei servizi fondamentali, nelle scuole, ecc.; disegnare le linee di un “modello” di integrazione italiano basato sullo scambio e il dialogo interculturale, a spiccata connotazione territoriale e a strutturale coinvolgimento delle collettività straniere.

206802938_116098934056531_535296443654453103_n4) Riformare la legge sulla cittadinanza. Inteso che la cittadinanza abilita la persona che la possiede ad esercitare quella gamma di diritti e di doveri che rendono possibile e sostanziano la piena partecipazione e corresponsabilità alla vita collettiva del Paese di cui si è cittadini, e quindi la piena integrazione al contesto sociale, civile e politico di tale Paese; e inteso che il processo di integrazione ha l’effettiva possibilità di prendere avvio, svilupparsi e compiersi solo nella misura in cui si è previamente abilitati a esercitare, nel contesto in cui ci si trova a vivere, quel “pacchetto” di diritti e doveri che la cittadinanza dischiude, mentre chiunque abbia preclusa la possibilità di esercitare tali diritti e doveri non potrà mai, per ciò stesso, partecipare pienamente alla vita della collettività, appartenervi effettivamente e quindi risultare ed essere considerato propriamente integrato, ecco che, nel quadro e in funzione dell’integrazione, diventa evidente che la cittadinanza non può essere “concessa” alla fine del processo di integrazione stessa, come fosse un premio finale da conferire dopo un percorso la cui fatica e responsabilità sia stata lasciata, fino a quel momento, esclusivamente sulle spalle dell’immigrato (o, peggio ancora, solo dopo che questi abbia eventualmente compiuto azioni civili “meritevoli”); ma, lungi da una simile ottica premiale, esige di essere piuttosto “riconosciuta” all’inizio di tale processo e percorso, come una necessaria precondizione di possibilità per il suo realizzarsi e compiersi con successo.

Del resto, la validità di una simile considerazione è confermata anche dal fatto che la responsabilità verso il territorio in cui si vive e verso la comunità che lo co-abita viene agita, volenti o nolenti e che se ne sia consapevoli o meno, dal momento stesso in cui si inizia de facto a interagire con essi, partecipando alla vita di entrambi; quindi: inteso che è sufficiente il solo trovarsi calato a vivere in un contesto territoriale e collettivo per rendere l’individuo, con tutto ciò che sceglie di farvi e non farvi, immediatamente corresponsabile di quanto vi accade; e inteso che è esattamente sulla base di questa immediata corresponsabilità de facto, di questa inevitabile coimplicazione alla vita e alle sorti di tale contesto, che ogni persona si trova già da subito calata in una condizione di “cittadinanza” effettiva, quest’ultima esige e merita di essere riconosciuta sin da subito.

È, dunque, alla luce e in coerenza con questi presupposti che la riforma della legge sulla cittadinanza potrebbe realizzarsi – anche in maniera innovativa rispetto alle proposte finora discusse nel dibattitto pubblico e politico – da una parte riconoscendo ai non comunitari maggiorenni il diritto di acquisirla per naturalizzazione dopo 5 anni di soggiorno regolare, previo superamento di un apposito “esame di cittadinanza”, e d’altra parte, ai minorenni, riconoscerla direttamente alla nascita o all’arrivo in Italia, come seconda nazionalità insieme a quella (già ricevuta per trasmissione) dei genitori, con il diritto di scegliere se mantenere la cittadinanza italiana o rinunciarvi quando abbiano compiuto la maggiore età (il che è esattamente l’opposto di quanto accade attualmente per tutti i giovani stranieri nati in Italia, i quali solo quando diventano maggiorenni possono far richiesta di acquisizione della cittadinanza italiana, in aggiunta o in sostituzione di quella dei genitori).

Plastic,Toy,Men,,Barbed,Wire,And,Eu,Flag,,Migrants,Crossing5) revocare unilateralmente sia i Memorandum d’intesa con Libia e Tunisia, sia gli accordi con il Niger per il blocco delle rotte terrestri, sia il protocollo con l’Albania per il confinamento dei profughi diretti in Italia durante l’esame accelerato, con procedura esternalizzata, delle loro domande d’asilo, sia l’accordo con la Slovenia per la “riammissione” dei profughi respinti dall’Italia, sia – in generale – dell’intera strategia di esternalizzazione delle frontiere che è sottesa a tutti questi accordi bilaterali, insieme alla pratica dei respingimenti che vi è strutturalmente connessa.

In sostituzione di tutto ciò, occorrerebbe piuttosto stipulare, con i Paesi terzi di origine e di transito, accordi finalizzati a istituire e avviare, al loro interno, corsi e percorsi di formazione pre-partenza, sostenuti dallo Stato italiano e realizzati – in collaborazione con altre strutture pubbliche e private – da aziende medio-grandi italiane, interessate all’assunzione di lavoratori non comunitari da far rientrare nelle sotto-quote d’ingresso appositamente dedicate nei Decreti flussi annuali.

6) Trasformare l’ormai consolidata buona prassi dei corridoi umanitari in policy ordinaria, da implementare lungo le principali rotte marittime e terrestri dei migranti diretti in Italia, al fine di garantire loro viaggi in sicurezza e combattere in maniera efficace e definitiva le organizzazioni criminali di trafficanti.

Infine, quanto alle politiche sui profughi e i richiedenti asilo:

7) Abrogare la procedura accelerata di domanda di protezione alla frontiera, prevedendo per tutti una procedura unica di presentazione, da effettuarsi – secondo le norme e le garanzie previste dal diritto internazionale – in presenza fisica sul suolo italiano, con diritto di permanervi fino all’esame della domanda e al suo esito definitivo, anche dopo eventuale ricorso.

8) Ripristinare i criteri di riconoscimento della protezione speciale (ex umanitaria), quale forma di protezione nazionale da affiancare, in ottemperanza dell’art. 10 della Costituzione, a quelle internazionali di asilo e di protezione sussidiaria, così come erano stati previsti nel 2020 dal cosiddetto “Decreto Lamorgese”; criteri che tenevano conto, in fase di valutazione della richiesta, di fattori legati alla situazione specifica del richiedente, quali la durata della sua permanenza in Italia, l’effettivo grado di integrazione raggiunta e i suoi legami familiari.

migranti-contributo9) Adottare in maniera ordinaria, per la totalità dei migranti forzati, il sistema di accoglienza implementato per i profughi ucraini a partire dal 2022 (in forza della Direttiva Ue 55/2001), la cui sperimentazione ha dato prova di assai migliore efficacia rispetto al sistema “ordinario”.

In particolare, ai profughi dall’Ucraina è stato immediatamente riconosciuto il diritto di scegliere la città (o il Paese Ue) in cui stabilirsi, cercare un lavoro, affittare un alloggio, iscrivere i figli a scuola, accedere al Sistema sanitario nazionale e ricevere cure e vaccinazioni. Inoltre per la prima volta sia la “accoglienza diffusa” è stata adottata come politica alloggiativa ordinaria per i profughi (articolata in accoglienza in famiglia o “domestica”, in alloggi messi a disposizione da Enti del terzo settore in accordo con i Comuni e, come ultima istanza, in strutture alberghiere), sia è stata data la possibilità ai profughi di reperire da sé, in maniera autonoma, un alloggio, sulla base di un sostegno economico minimo iniziale, facendo leva sulla rete dei connazionali già presenti in Italia.

10) abolire i Centri di accoglienza straordinari (Cas), lasciando, come sistema unico di “seconda accoglienza” per richiedenti asilo e per titolari di protezione (dopo la “prima accoglienza” avvenuta negli hotspot) la rete dei centri Sai. Centri nei quali, perciò, occorre garantire a tutti i corsi e i percorsi di sostegno all’integrazione (ricostruzione dei curricula, formazione professionale e civica, assistenza psicologica, orientamento legale, insegnamento della lingua italiana, ecc.) e, usciti dai quali, prevedere come “terza accoglienza – che prevenga e impedisca la marginalizzazione in ghetti, baraccopoli e insediamenti informali – la stessa politica alloggiativa di accoglienza diffusa sperimentata con i profughi dall’Ucraina, tanto nelle famiglie (da mettere in rete a livello locale e nazionale) quanto nelle abitazioni dismesse rese disponibili dei Comuni in collaborazione con il Terzo settore (adottando in quest’ultimo caso il “modello Riace”, anche in funzione della riqualificazione e il ripopolamento delle aree interne del Paese). 

Sulla base di una simile agenda politica di riforma delle policy e della governance delle migrazioni, la quale contiene anche qualche spunto innovativo rispetto alle varie e pur valide proposte che già circolano nel dibattitto politico, sarebbe auspicabile costruire urgentemente, anche con eventuali migliorativi, un consenso quanto più ampio, al fine di contrastare operativamente l’attuale oscillazione tra immobilismo e coazione a ripetere che tiene impantanate le politiche in materia, in nome di una ideologizzazione tanto sterile quanto dannosa per l’intero sistema Paese.

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024  
Note
[1] Alle note regolarizzazioni che, quasi sempre, hanno accompagnato gli interventi normativi, con una media quasi cronometrica di una ogni 4 anni (1986 in occasione del varo della legge Foschi, la prima sull’immigrazione in Italia; 1990 in occasione della legge Martelli; 1995 in occasione del Decreto Dini, poi bocciato dalla Lega al momento di convertirlo in legge; 1998, in occasione del varo del Testo unico; 2002, in occasione della cosiddetta “legge Bossi-Fini”; 2009, appena successiva al Decreto Maroni (cosiddetto “pacchetto sicurezza”) del 2008; 2013; 2020, stesso anno del varo del Decreto Lamorgese), se ne aggiunge una primissima, nel 2002, promossa dall’Inps per ragioni prettamente amministrative.
[2] Cfr. Fondazione Ismu Ets, XXIX Rapporto sulle migrazioni 2023, Franco Angeli, Milano, 2024.
[3] In tutto il Mediterraneo, tra il 2014 e agosto 2023, i morti e i dispersi accertati sono stati circa 28.000, di cui 2.411 nel solo 2022 – in 3 casi su 5 proprio lungo la rotta centrale – e 2.324 nei primi 8 mesi del 2023.
[4] Uno dei terminali di questa rotta è l’Italia, che nel 2022 ha ripreso a effettuare le “riammissioni” dei profughi in Slovenia, nonostante la pronuncia di illegittimità da parte del Tribunale di Roma (2021) e il fatto che, con ciò, essi subiscano – come recita la stessa sentenza – “trattamenti inumani e degradanti”.

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Luca Di Sciullo, dottorato in filosofia, è attuale presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, dove si è specializzato nell’analisi dei processi di integrazione degli immigrati a livello territoriale. Ha curato, per conto del CNEL, una serie di nove Rapporti sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia, di cui ha ideato, messo a punto e consolidato la metodologia di misurazione. Dal 2009 è docente di filosofia presso l’Istituto Filosofico Teologico “San Pietro” di Viterbo, aggregato al Pontificio Ateneo “S. Anselmo” di Roma.

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