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Lingiardi, della distillazione

Foto copertinadi Aldo Gerbino

Quando Vittorio Lingiardi, col suo ‘dire’ immediato e impalpabile, ironico e pensoso, si accosta alla vischiosa densità del nucleo poetico, non fa altro che restituirci, distillandole, quelle quotidiane materie d’anima in apparenza essiccate, ma alle quali sembra esser sufficiente una pur lieve acqua lustrale per farle risorgere in tutta la loro vitalità. Una pensosità ben celata, lealmente dichiarata sin dalla epigrafe leopardiana espunta dallo Zibaldone, la quale sancisce come «da qualunque causa nasca l’ispirazione poetica, essa è certamente malinconica»; medesima malinconia riscontrabile, – quasi a rafforzare quel “suono del senso” esposto da Robert Frost, – nella struggente ed equilibrata partitura della “Serenata melancolica” di Čajkovskij.

Alla ricomposizione della parola ecco allora sprigionarsi, dilatarsi, lo scenario commosso della sua natura, le passioni sopite atte a ridipingere la vita, instaurando un racconto nutrito da un vigile tono colloquiale (laccato da assonanze in quinari e settenari, da dilatabili forme chiuse, da sintetiche prose liriche appena sfiorate dal calore tremulo d’un endecasillabo), quasi nel desiderio di consegnare valore ad un agile rapporto con il mondo: un profondere sentimento, un immaginare l’amore attraverso l’illustrazione delle perdite, animando la poesia anche sul versante della irraggiungibilità dell’obiettivo.

Una ricerca di quel sé oscillante e rivolta ad una più congrua capacità magnetocettiva dell’organismo umano, cioè nella sua attitudine a polarizzarsi su nuovi orientamenti in forma di veicolanti immagini, o precisi suoni disposti nell’unico alveo proteso alla definizione d’un tempo avvertito come riverbero della propria esistenza. Un insistere nel mondo, un persistere nell’accidentato percorso della vita fatta, nel dilavare di questi essenziali versi, di minuti e giorni, di momenti percorsi dal pensiero e toccati da veloci gittate di parole, da tattili rimembranze, e, ancor più, da antiretorici connotati spirituali.

«Nella concava notte ci guardiamo dormire / questo buio d’amore non ci lascia più uscire», dice Lingiardi (già autore della raccolta La confusione è precisa in amore, 2012) nel primo segmento di questo suo lavoro poetico: Alterazioni del ritmo (Nottetempo, Roma 2015; 3a ed. 2016).

Un ‘guardarsi dormire’, dunque, pronto a risvegliare quei malinconici versi secreti da Paul Celan nel lontano 1952 e tratti dall’insinuante quanto criptico testo di “Corona”: «noi ci guardiamo, / noi ci diciamo cose oscure, / noi ci amiamo come papavero e memoria, / noi dormiamo come vino nelle conchiglie,/ come il mare nel raggio sanguigno della luna». Anche in Vittorio si avverte, prepotente, la necessità del ‘guardarsi’ (forse nella prospettiva di un lacaniano ‘sguardo obliquo’) mentre si è abbandonati, avvolti, nel piumaggio del sogno, pronti all’esercizio inenarrabile confezionato dalla macchina del sonno, uomini e donne inerti e destinati anche ad un probabile sacrificio.

Eva Rubinstein, La mani del poeta (New York 1980)

Eva Rubinstein, Le mani del poeta, New York 1980

Il poeta sembra essere ‘vulnus’ destinato al mondo che ci assale: sonno equivalente al sopore, al torpore prodotto, nel gioco metaforico, dal vino della vita, dall’incidere sulla nostra volontà, dal sentimento aperto alla gioia, alla malinconia o al distacco e al suo vestire di spossatezza membra e intelletto. Versi, com’è intuibile, soltanto in apparenza descrittivi, piuttosto profondamente e necessariamente antidescrittivi nei quali, appunto, la narrazione di un evento atto a coinvolgere i personaggi è soltanto epifenomeno di una realtà fonda, vera e propria pròtesi intellettuale in cui, e da cui, si espande il meccanismo di un racconto ora carnale ora spirituale, o la gemmazione di un intimo confliggere. Un porre infine l’orecchio a quelle stesse domande di Magda von Hattingberg che abitano in Rilke e Benvenuta (1949), dove vien chiesto al poeta praghese: «Credi che quelle poesie abbiano dormito in te e si siano poi d’improvviso risvegliate?».

In Lingiardi, mutuando il senso del ‘risveglio’, appare evidente come si costituisca durante il tragitto poetico un centro di condensazione attorno a gesti emozionali, i quali, non fugaci trascinatori del pensiero nella macchineria della riflessione, consentono il risveglio mediato dalla funzione lenitiva della parola. Nessun medicamento da elettuario, dunque; niente di sciropposo né di retorico, ma lo sbucciare evenienze esistenziali sopite dall’algida accumulazione di una certa quotidianità e re-innervarla, così, con rapporti concreti, franchi, tra mente e mente, tra emozione ed emozione, tra tatto e tatto. Appare anche vero che tale risveglio, proprio per la sua carica di doglianza, tenda a porsi, per istinto di sopravvivenza, al «riparo del cuore», estendendo con forza quei motivi rabbrividenti nel modo in cui appaiono serviti dal vassoio della memoria e della storia, nonché attraversati da figure esemplari, come accade per Teresa d’Avila:

«O mia Teresina d’Avila / noi moriremo, / Per una volta in più / ci chineremo / sul tuo rabbrividire. / Passeremo la notte / al riparo del cuore».

Sembra, dunque, che il cuore – se presente – vinca, con il dinamismo del suo esser carne, con la sua stessa asimmetria funzionale; esso, ritmica sostanza la quale, proprio nell’interferenza tra pause, singulti, accelerazioni, arresti, si dispone a segnalare, dialogare, spiegare e rammemorare tutte quelle “cose” pericorporali e calate all’interno dell’umana sembianza – lo diciamo con le parole di Emilio Cecchi poste nello scintillante registro di Corse al trotto e altre cose (Sansoni, 1952) – «che non si capiscono appieno che dentro alla propria carne. E le malattie son fra queste». D’altronde «quello è il dolore e noi lo attraversiamo», suggerisce Lingiardi: solcare il dolore per conquistarne pienezza, per cogliere il significato della propria corporeità (quel corpo contraddittorio per Agostino d’Ippona) e non decrittabile per Lacan (“Il ne parle que du corps”, 1974), inconoscibile come accade per certe ragioni insite nella nostra mente. D’altronde, non è certo casuale l’affermazione quasimodiana, rintracciabile nel discorso Il poeta e il politico pronunciato a Stoccolma (1959) per la cerimonia di conferimento del Nobel, in cui si ribadisce d’una poesia che «è anche la persona fisica del poeta», e, più avanti, come la lingua, carne dello spirito, sia, per il poeta modicano, quella materia per la quale «non saranno mai i filologi a rinnovare la lingua scritta», ma «è un diritto che spetta ai poeti.

Vittorio Lingiardi

Vittorio Lingiardi

Il linguaggio dei poeti è difficile non per ragioni di filologia o di oscurità spirituali, ma in virtù dei contenuti.» Contenuti stratificati in persone e cose. Per altro noi «vogliamo bene alle cose / per la loro pazienza di restare. / Vicino a noi, per anni / senza mai cambiare», aggiunge Vittorio; e vi leggiamo di quelle stesse ‘cose’, così come ribadito da William Carlos Williams, pediatra di valore e poeta lucidissimo, – l’artefice del Modernismo americano, il sodale di Duchamp, di Picabia, di Charles Demuth, di Pound ed Eliot, il maestro di Allen  Ginsberg, –  tenacemente convinto che in poesia «nessuna idea, se non nelle cose» (A sort of a song, 1944). Egli chiariva come le sue apparenti diversità di strutture culturali, – quella di medico e quella di poeta, – fossero assolutamente sinergiche: saperi ed emozioni travasabili, in equilibrio come vasi comunicanti, alimentatori l’un dell’altra, creatori di conoscenze equipotenziali; così intende Lingiardi l’esercizio della psichiatria, della psicoanalisi e della poesia: nella stessa allegoria fisica di Pascal e Stevino. E se Pascal è l’elaboratore di tale fondamentale principio fisico, il portatore di concisione e virtù intellettuali, alcune sue parole, tratte dalle Provinciali, segnano un’altra epigrafe collocata nella raccolta: quella intrisa del catulliano smalto della brevitas, in cui il valore nugatorio viene qui sostituito dall’esercizio ironico. Da tale sfondo emerge il matematico e filosofo francese che annota: «Questa lettera è più lunga delle altre perché non ho avuto tempo di farla più breve», tracciato mirabilmente coincidente col parossismo krausiano di «quando non si sa scrivere, un romanzo riesce più facile di un aforisma».

 Cose, corpo, malattia, anima, parole viaggiano lievemente e indissolubilmente insieme; un levitare chiaro e fedele tra le ragioni del cosmo, senza accigliarsi; un guardare ciò che si eclissa e ciò che continua a vivere dentro con l’accanimento di chi raccoglie «sassi di mare», ossa materne corrose dal bianco, come può leggersi nel testo denso e gentile di “Le tenevo la mano”, in quel tentare di rattenere nelle pupille «la durezza che guarda la vita» al fine di stringere «pochi grammi di madre» in “un corpo appassito”, sempre in considerazione che «lunga è la notte che non trova mai giorno», parole dal Macbeth di Shakespeare opportunamente ricordate da Quasimodo. Lingiardi ci restituisce, nel cavo muschioso della sua umiltà linguistica: figure, lutti, conquiste, mutuando, – in parallelo al suggerimento inserito dalla colloquiale Szymborska in Niektórzy lubia poezje (“Ad alcuni piace la poesia”), – la similitudine offerta dalla poetessa di Kórnik: cioè quella d’una poesia paragonata alla guida legnosa “d’un corrimano”; così, crediamo, per Vittorio, ma con gli occhi incessantemente fissi al bersaglio.

Dialoghi Mediterranei, n. 20, luglio 2016

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Aldo Gerbino, morfologo, ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo, critico, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014); Cammei (Pungitopo, 2015).

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