di Francesca Traìna
In «Se sia verosimile che Omero sapesse scrivere», un capitolo del Saggio sull’origine delle lingue, Jean Jacques Rousseau si cimenta nel difficile compito di dimostrare l’esistenza di una lingua delle passioni e degli istinti sociali che l’uomo avrebbe realizzato ben prima dell’alfabeto. Questa primordiale forma di comunicazione, fondata su una grammatica delle consuetudini e dei sentimenti, trova il suo codice espressivo in ciò che i grandi precursori della ricerca semiotico-antropologica battezzano col nome di “oralità primaria”.
Non è casuale che tra il 1962 e il 1963 siano comparsi tre saggi destinati a cambiare la riflessione sul ruolo che l’istinto comunicativo svolge nella storia delle società: Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss, La galassia Gutenberg di Marshall McLuhan e Cultura orale e civiltà della scrittura di Eric Havelock. Nella loro apparente diversità, i tre lavori anticipavano l’urgenza di riconsiderare i primordi di una sapienza antica che, in ultima istanza, trovava nell’alfabetizzazione un suo vocabolario etico e civile. In tal senso riconoscere, come fa Havelock, la spiccata componente di oralità sottostante alla stesura dei poemi omerici significava constatare l’ineludibile apporto dei costumi popolari nella “tradizione” che i popoli coltivano e dalla quale vengono coltivati.
Stando così le cose, nel celebre asserto «il mezzo è il messaggio» possiamo rinvenire l’afflato nostalgico di McLuhan verso quelle informazioni genuine e onnicomprensive che, ben prima di essere determinate dalla mitologia, hanno poi subìto il condizionamento dei media.
Se l’etimo della parola “comunicazione” include l’aggettivo “comune”, ne conviene che la tanto abusata espressione di «villaggio globale» si estenda pericolosamente fino ad includere, soffocandole, le vicende delle prime forme di convivenza umana.
Non volendo banalizzare la relazione tra i nuovi-media e le “culture dell’oralità primaria” per esaurirla con generici passatismi, occorre considerare che l’apporto del Web ha reso ancora più impellente la riflessione sul problema già riscontrabile, all’alba della nostra civiltà, nel passaggio capitale dalla cultura orale alla tradizione in lingua scritta.
È indubbio che la comunicazione, quanto più rapida e accurata, costituisca la spina dorsale dei sistemi economici e amministrativi e che il Web sia il suo veicolo principale. Tuttavia garantire l’inscindibilità del binomio Web–cultura significa esasperare il processo di trasformazione che interviene nella naturale e progressiva continuità della Storia.
Da Walter Benjamin in poi, il Novecento ha riflettuto profondamente sul modo con cui il medium modifica non solo lo statuto dell’arte, ma anche quella cultura non scritta che, germinata dall’oralità, richiede dei tempi e delle forme di rielaborazione diverse da quanto impone la “time-line elettronica”.
Di contro, si potrebbe obiettare che ad una realtà mutevole come quella del XXI secolo dovrebbe corrispondere una registrazione del sapere altrettanto aperta e permeabile ad ogni nuovo cambiamento. Tuttavia tale considerazione, per quanto mossa a garanzia dell’ipertesto multimediale, finisce per trascurare l’aspetto filogenetico.
La storia impone di fare i conti con il progresso della società e, così, la cultura trasmessa on-line resta deficitaria nei confronti delle stratificazioni temporali necessarie al mantenimento della tradizione orale: un mezzo di divulgazione diffonde e archivia, ma non spiega l’origine di un costume o di una consuetudine, siano esse di natura folklorica oppure qualificative di un contesto sociale. Un messaggio mediatico è inderogabilmente viziato da un’arbitraria selezione dei contenuti e quest’ultima esclude il destinatario dall’indagine sulla natura del messaggio stesso.
Anche solo limitandoci alla relazione tra nuovi-media e saperi tradizionali, la questione assume i connotati di un’indagine ontologica. Del resto non è l’ontologia lo studio di cose e fatti di cui possiamo “far parlare” i nostri linguaggi formali? Pertanto, dall’equivalenza del mezzo con il messaggio resta fuori l’insieme dei caratteri che servono a inverare i contenuti dell’informazione.
A riscontro di ciò pensiamo ad alcune manifestazioni della tradizione popolare colta siciliana. Già in un saggio, pubblicato sulla rivista «Strumenti Res» del febbraio 2012, Elisa Bonacini ha messo in evidenza i difetti della comunicazione culturale siciliana affidata al Web.
La visibilità e la readeable del patrimonio siciliano disponibile on-line rispondono certamente a una ragione importante: valorizzare le risorse di un tesoro della storia della civiltà attraverso un mezzo di divulgazione. Nonostante ciò si pensi, ad esempio, alla complessa distribuzione del celebre Stabat mater nella tradizione orale siciliana. Come può il Web rendere conto della varietà delle esecuzioni di un componimento musicale il cui carattere discontinuo è principalmente dovuto alle diverse tradizioni orali insistenti nelle comunità che lo reinterpretano durante le feste pasquali? In che modo la comunicazione on-line permette di riscoprire le fonti che gli hanno conferito un carattere monodico nell’area palermitana e polivocale nella Sicilia centro-orientale?
Attraverso il Web è certamente possibile sia recuperare sia registrare tutte le manifestazioni con cui quest’importante specimen etno-musicale si realizza, ma l’indagine sulle sue radici storiche e soprattutto sulla sua lenta e progressiva trasformazione nel tempo richiede ben altro. È su questa emergenza che si consuma un paradosso importante.
Attualmente, grazie al World Wide Web, interpretiamo un testo e un fenomeno disintegrandoli nelle loro molteplici rappresentazioni, senza tener conto della loro lunga gestazione. Ridotti a uno stadio granulare, essi appaiono refrattari a ogni nuova indagine sull’humus che li ha organizzati nelle loro svariate forme. I media non restituiscono l’antefatto della tradizione orale. Quest’ultima viene esclusivamente archiviata secondo un nuovo codice retorico, figlio della procedura multimediale.
Pertanto nulla toglie che potremmo declinare la discrasia insistente tra la fonte del processo culturale e la sua sterile registrazione on-line con la medesima disillusione che Ippolito, nell’omonima tragedia euripidea, prova di fronte alle accuse del padre. La maledizione di Teseo ha origine dalla tavoletta su cui Fedra ha registrato la falsa accusa da imputare al figliastro. Le parole di discolpa dell’onesto Ippolito sono vane.
La scrittura, registrata dal supporto meccanico, condanna l’eroe, incapace di comprendere quanto un’irreprensibile condotta di vita possa essere vanificata da un medium che è, e ancora resta, incapace di assumersi tutto l’onere etico e storico delle parole riferite dagli uomini.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Francesca Traìna, vive a Palermo dove fino al 2015 ha diretto uno dei più antichi istituti scolastici della città. Studiosa di letteratura e poesia italiana e straniera con particolare riferimento alle figure femminili, ha vinto il “Premio Internazionale di Poesia Eugenio Montale” e ha ottenuto altri numerosi riconoscimenti. È autrice di saggi sulla poesia contemporanea e critica letteraria pubblicati su volumi collettanei, antologie, periodici e riviste. Ha fatto parte della redazione della rivista “Issimo. I Segni della Poesia” e “Mezzocielo”, bimestrale di politica, cultura e ambiente pensato e realizzato da donne. Ha pubblicato numerose sillogi poetiche: Luce obliqua, Il Vertice Palermo; Il Poeta muore, Vanni Scheiwiller, Milano; Dentro gli anni, Salvatore Sciascia CL/Roma; Neve di Marzo, CD con musiche originali dell’armonicista Giuseppe Milici, Istituto Gramsci Siciliano Palermo, nella ricorrenza delle stragi di Capaci e via D’Amelio; Linee di ritorno, racconti e poesie, Manni, Lecce; Trame del mondo Diecirighe; Cronaca poetica e iconografica dalla rivista Mezzocielo con fotografie di Letizia Battaglia e Shobha, Navarra Sicilia.
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