di Fulvio Cozza
Incantevoli novità
Essendo nato alla fine degli anni Ottanta in una piccola località calabrese di poco più di seicento abitanti, durante gli anni Novanta ho avuto l’opportunità di conoscere una serie di persone nate nei primi decenni del Novecento e che in questo luogo, a prevalente vocazione agropastorale, erano state testimoni di trasformazioni per me impensabili, come l’introduzione del telefono e della corrente elettrica. Al di là dell’affetto che mi lega a queste persone venute a mancare quasi trent’anni fa, qui ho bisogno di usare il filtro dell’antropologia culturale per ricordare tre “fattarelli” – definizione rigorosamente emica – che loro solevano raccontarmi e che trovo particolarmente esaustivi per riflettere sulla questione che sta al centro del nesso Intelligenza Artificiale e tecnologie dell’incanto, che qui vorrei affrontare. A chi legge chiedo dunque la pazienza di seguirmi in questo percorso (spero solo apparentemente contorto), nel quale cercherò di utilizzare dei casi di studio della cultura popolare dell’Alto Crotonese per approdare all’interpretazione del senso comune contemporaneo.
Il primo “fatto” che vorrei ricordare riguarda lo sciagurato smarrimento di un cosiddetto Almanacco Perpetuo, evento che sarebbe avvenuto per mano di un membro particolarmente sbadato della mia famiglia. Scritto nel Seicento da Rutilio Benincasa, astronomo e astrologo (a quel tempo la distinzione non aveva troppo senso), secondo la voce dei miei interlocutori la consultazione “dei numeri” delle tabelle astronomiche contenute nell’Almanacco, non solo avrebbe garantito la previsione delle fasi lunari, il movimento dei pianeti e lo scorrere delle stagioni, ma avrebbe anche garantito la previsione del futuro e il condizionamento magico dell’universo mediante incantesimi e scongiuri realizzabili seguendo i complessi calcoli riportati nel volume. Attraverso una concezione che oggi può forse apparire paradossale, i miei narratori sostenevano che gran parte dell’autorevolezza del libro fosse da attribuirsi al fatto che il suo autore era uno “scienziato”, termine che nel dialetto locale indica una persona estremamente dotta quanto piuttosto stravagante.
Il secondo aneddoto riferitomi riguarda, invece, un uso del telefono davvero originale, compiuto da alcuni compaesani dei miei nonni tra le due guerre mondiali. Attraverso un peculiare collegamento e adoperando una speciale cassapanca, l’apparecchio telefonico era stato impiegato per entrare in comunicazione con i defunti e con dei soldati dei quali non si avevano più notizie. Successivamente alla diffusione della notizia nel paese e alla richiesta di alcuni di poter usufruire di un simile servizio, si cominciò ad applicare una tariffa consistente in una piccola offerta in denaro, dei latticini o del vino. Naturalmente, affinché la chiamata andasse in porto, occorreva la supervisione di un’operatrice rituale la quale – proprio come le centraliniste di quel tempo – si assicurava di fare da mediatrice e interprete tra l’aldiquà e l’aldilà.
Il terzo fatto che mi veniva raccontato – quello che forse riflette la visione più distintiva – riporta l’abitudine dei contadini di levarsi il cappello in segno di riverenza nei confronti dei manichini appena introdotti nei negozi di abbigliamento di lusso.
Ciò che mi sembra caratterizzi questi tre aneddoti appena elencati è il fatto che in essi, in maniera più o meno canzonatoria, viene narrato l’incremento delle potenzialità di una tecnologia attribuendovi anche dei poteri magici o dei caratteri antropomorfici. Si tratta di usi che, per dirla con De Certeau (2001), si potrebbero definire creativi e che fanno emergere un virtuosismo anche dovuto al fatto che all’esame dell’esperienza delle persone delle classi popolari – e non solo – tali dispositivi presentavano una tecnologia “incantatoria” (Gell 2020, 2021), che lasciavano presagire sviluppi straordinari anche in virtù del rango sociale dei più comuni possessori ed utilizzatori di tali oggetti. In altre parole, siccome non era possibile dare per scontato cosa non potesse fare un calendario astronomico, un telefono o un manichino giacché l’innovazione portata da queste trovate, di per sé, faceva piazza pulita della tradizione e consacrava il modo di vita benestante, l’uso creativo si sviluppava assecondando le tendenze, i bisogni e le fantasie dei contesti più disparati, in vista di scopi che andavano bene al di là di quelli preposti dagli eruditi progettisti di questi artefatti (Bausinger 2005; Gallini 2013).
In questo articolo, partendo dall’analisi di alcune tendenze del senso comune riguardanti il tema dell’Intelligenza Artificiale, tenterò di fare emergere quanto il dibattito pubblico italiano metta in luce una tendenza assai simile a quella dai tre casi appena elencati. Voglio dire che al di là delle differenze contestuali, alcune pratiche d’uso e una diffusa percezione del ruolo della tecnologia nella vita quotidiana mettono in luce notevoli similitudini con quelle forme di “incanto” suscitate dall’Almanacco, dal telefono e dal manichino. Per tali ragioni, benché qui proverò a ridimensionare l’attuale potere delle macchine, voglio sin da subito sottolineare che non è mia intenzione sottovalutare la portata delle questioni poste dallo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale (d’ora in avanti ia); al contrario, il lavoro antropologico interpretativo che qui propongo mira proprio a fare emergere i rischi politici, etici, culturali ed economici posti dalle sempre più estese interazioni tra esseri umani e ia, in particolar modo allorquando tali usi vengono condotti seguendo una cornice di senso comune disequilibrata, la quale sopravvalutando o sottovalutando le capacità della tecnologia, danneggia l’esistenza, l’autonomia e le responsabilità degli esseri umani.
Quando nel 1950 Alan Turing si interrogò se le macchine potessero pensare si preoccupò di sottolineare che a suo parere la domanda fosse senza senso, poiché prima di tutto ci si sarebbe dovuti cimentare nella piena comprensione di cosa significasse pensare (Turing 1950). Nel tentativo di superare le gravose questioni ontologiche ed essenzialistiche sottese dal quesito, ricorrendo ad una soluzione suggerita da Cartesio, Turing elaborò il cosiddetto imitation game, diventato poi celebre sotto il nome di Test di Turing e che ancora oggi è considerato il più affidabile banco di prova dell’ia. Il gioco è semplice: c’è una persona che fa le medesime domande ad una macchina e ad un essere umano senza conoscere quali risposte appartengono all’una o all’altro; se dopo cinque minuti di interrogatorio la macchina non è stata ancora smascherata, allora significa che si pongono le condizioni basilari per considerarla intelligente (sebbene sia lo stesso Turing a sottolineare che da sole tali condizioni non siano comunque sufficienti).
Probabilmente il grande scienziato britannico sarebbe rimasto deluso dall’attuale stato dell’arte. Infatti, ad oggi nessuna macchina ha ancora superato il test di Turing ed i partecipanti del Loebner Prize – un evento annuale durante il quale vengono testati i più potenti programmi proprio secondo i criteri stabiliti da Turing – sono ancora molto lontani dallo standard da lui immaginato.
Uno sguardo veloce alle trascrizioni dei passati partecipanti rivela che i programmi presentati sono stati facilmente individuati tramite una serie di domande tutt’altro che complesse. Solo per fare un esempio, riporto qui la traduzione di un’interazione con un computer chiamato Arckon, il quale alla domanda, “cosa è più grande, un gatto o un gattino?”, ha risposto: “un gattino è più grande”. Come spiegato da uno dei programmatori:
«di tutti i 95 fatti sui gatti presenti nel database di conoscenze di Arckon, le dimensioni dei gattini non era uno di essi. Poiché una risposta onesta “non lo so” non avrebbe comunque ottenuto punti, questa risposta di emergenza è un bluff da 50/50 che, per coincidenza, è sbagliato» (artistdetective 2023).
Effettivamente, come ammettono gli stessi esperti di ia, i programmi presentati al Loebner Prize sono progettati col semplice obiettivo di vincere il premio del miglior punteggio dell’anno e in nessun caso ci si attende che questi possano effettivamente superare il Test di Turing.
Se poi si legge la celeberrima Proposta di un Progetto di Ricerca sull’Intelligenza Artificiale presso il Dartmouth College – insieme alle intuizioni di Turing passato alla storia come l’atto fondativo di questo campo di studi – si scopre che persino gli ideatori della fortunata definizione di ia nel 1955 avevano tutt’altro che chiaro cosa dovesse considerarsi intelligente e attraverso quali sistemi superare l’insormontabile ostacolo della creatività umana e della sua replicazione artificiale (McCarthy, Minsky, Rochester e Shannon 2006).
Vista dalla prospettiva di un antropologo, la proposta di Darthmouth – e di conseguenza tutto il campo delle ia – fa emergere tutto l’etnocentrismo implicito nella concezione che l’intelligenza sia espressione di un’entità individualistica, scorporata e stabile e non il risultato di un continuo e intrecciato lavoro tra i sé, gli altri e l’esperienza del mondo (Bateson 1980, Ingold 2000). In fondo, l’idea che un essere umano si riconosca essenzialmente dalla sua razionalità o dall’abilità di rispondere a dei quesiti logici viene immediatamente confutata tutte le volte che non siamo riusciti a risolvere un semplice indovinello. Essenzialmente la creazione di una ia presuppone la costruzione di un programma che ragiona “come se” fosse umano, benché ricorrendo a quei criteri di umanità che meglio soddisfano l’umanità per come viene pensata da dei programmatori – in tal senso trovo significativo che questi ultimi scelgano di reputare intelligente, e dunque umane, solo le entità capaci di risolvere problemi di logica e matematica.
A destare grandi perplessità è poi l’idea che un algoritmo possa descrivere alla perfezione i processi della mente umana e la totalità dell’esperienza del mondo. Un’impresa paradossale, che ricorda il racconto di Borges (1961) sulla realizzazione di una mappa 1 a 1 dell’Impero. Una mappa tanto accurata quanto inutilizzabile e che infatti ha suscitato le ben note riflessioni di Umberto Eco (1992) sui limiti della rappresentazione. A che serve una mappa che riproduce alla perfezione la realtà e soprattutto come la si legge?
Scritto a quattro mani e non destinato alla pubblicazione, la proposta di Darthmouth si presenta come qualcosa a metà strada tra un preventivo di spesa e un’ambiziosa promessa (contenente svariati refusi e cambi di stile). Leggendolo si intuisce quanto gli studiosi fossero alla ricerca di un titolo accattivante per ottenere un finanziamento e quanto potesse essere astuta l’idea di mostrarsi impegnati nell’elaborazione di una perfetta simulazione dell’intelligenza umana. Un’idea azzeccata specialmente per il fatto che questa andava a solleticare il sogno modernista di un essere umano in totale dominio della natura e delle sue forze, senza dimenticare gli enormi interessi strategico-militari impliciti nello sviluppo di tecnologie che potevano fare a meno degli umani.
Oltre a questo, va considerato quanto il successo dell’ia debba anche essere attribuito al già menzionato potere dell’incanto della tecnologia, alla tendenza tutta umana di attribuire agency e intenzionalità agli oggetti e che evidentemente ha funzionato così bene da penetrare poi nell’immaginario fantascientifico, nonché nel marketing delle corporations di prodotti “smart”, i quali infatti spesso hanno voci umane e possono raccontare barzellette (anche se piuttosto scialbe). In questi casi, il ruolo dell’ia configurato dalla stragrande maggioranza delle pratiche d’uso – da ChatGPT agli assistenti domestici come Google o Alexa, passando per i robot aspirapolvere che “sanno” come meglio svolgere la pulizia – fa emergere il fatto che tali dispositivi, più che essere usati per le loro qualità “strumentali” svolgano invece un importante lavoro di riflessione antropologica. Insomma, le macchine buone per pensare l’umanità (Lévi-Strauss 1964) e per apprenderne i significati (Bateson 1980).
Mi riferisco ad esempio all’abitudine di usare ChatGPT per mettere alla prova le capacità creative dei suoi algoritmi e contemporaneamente al fatto che questa può essere utilizzata per potenziare il senso di creatività dei suoi users, o ancora, al fatto che la valutazione dei compiti svolti dall’aspirapolvere “intelligente” si concluda sempre con la constatazione delle sue mancanze o dei suoi successi. In altre parole, tutte le volte che si rivolge una richiesta ad una ia lo si fa con un peculiare senso di attesa nei riguardi del tenore della risposta e della qualità dell’intelligenza dimostrata, comparandola poi – nel bene e nel male – con quello che avrebbe fatto un essere umano. In questo senso è il sistematico fallimento dell’ia a consacrare il primato dell’intelligenza naturale, così come sono le piccole vittorie dell’ia a rendere “più autentico” il fallimento della “modesta” umanità.
Insomma, in virtù dell’enorme incremento della potenza di calcolo, l’ia mostra capacità pressoché infallibili in tutte quelle operazioni che si svolgono all’interno di una cornice governata da regole costitutive, regole “stereotipate” che dunque fondano l’azione circoscrivendone alla perfezione lo spazio di manovra (es. gli scacchi). Ma nel momento in cui si passa in una cornice a regole vincolanti – in altre parole quando occorre un’interpretazione densa (Geertz 1973) – la complessità dell’universo fa impantanare qualsiasi mappatura di dati costringendo l’ia alla noiosa replicazione di stereotipi o a figure miserevoli dal punto di vista di un’entità che vuole definirsi intelligente (Floridi 2020, 2022).
In questo senso, a meno che non ci si voglia cimentare nel paradossale inserimento nel software di input sconfinati come la totalità dello spazio-tempo (una mappa dell’Universo grande quanto l’Universo), se da un lato esiste già una tecnologia capace di riconoscere alla perfezione l’iride di una persona, dall’altro ci sarà sempre una macchina che non saprà distinguere un tic dell’occhio da un’imitazione o da un ammiccamento, un gatto adulto da un cucciolo della medesima specie o che alla sottoposizione dell’indovinello: “il veicolo non entrava nel parcheggio perché era troppo piccolo. Cosa è piccolo?”, la macchina concluderà che ad esser troppo piccolo è il veicolo e non lo spazio del parcheggio.
Se dunque l’attuale intelligenza dell’ia deve intendersi nella sua accezione più meccanica e ottusa, e se l’ia ha goduto di uno straordinario successo dovuto all’azzeccato riferimento all’immaginario culturale della modernità occidentale, nonché alla peculiarità umana di antropomorfizzare gli oggetti, dobbiamo forse smetterla di preoccuparci dell’ia e degli effetti che questa può generare sugli umani e sullo stesso pianeta? Le cose non stanno proprio così, specialmente perché si tratta di fenomeni che presumibilmente incrementeranno la loro influenza nel giro di pochi decenni.
Da un lato, – seguendo la calzante metafora di Luciano Floridi (2022) – l’ estensiva applicazione di tecnologie ia ha già celebrato il divorzio tra lo svolgimento di un compito complesso e la necessità di essere intelligenti per farlo o, se si preferisce, tra agency e intelligenza umana; dall’altro lato, il clamoroso sviluppo dell’industria digitale, con il massiccio ricorso alle apparecchiature “smart”, sta cominciando a ricostruire un ambiente amico dell’ia, cioè un ambiente semplificato e che ridimensiona i limiti delle capacità di interpretazione delle macchine. Invece che adeguare le macchine al mondo si sta procedendo ad adeguare il mondo alle macchine. Tuttavia, tali mutazioni non sono tutte necessariamente negative o positive ma senza dubbio nessuna di queste avrà un impatto neutrale. Le ia possono essere adoperate fruttuosamente e in campi sterminati, per diminuire la fatica così come per incrementare la realizzazione umana, l’uguaglianza, il benessere e la sostenibilità ambientale. Ma se il timone di questa tecnologia sarà lasciato in mano alle macchine o alle aziende che le progettano, il rischio che domani le persone facciano qualcosa “suggerito” dalla macchina perché quello è l’unico modo “conveniente” (se non l’unico possibile), non mette a repentaglio solo i diritti sociali, l’autonomia degli individui, la variabilità culturale o la possibilità di vivere in un ambiente dove la tecnologia non ha la priorità sulla tenuta dell’ecosistema, ma sarà un pericolo anche per i rischi di stereotipizzazione e per la salvaguardia della possibilità di dissentire dall’opinione comune.
È per questa ragione che tali questioni andrebbero inquadrate attraverso una cornice etica che non si limiti a intervenire sugli effetti dello sviluppo tecnologico, ma che invece lo gestisca e lo controlli mettendo al centro le priorità degli esseri umani e del pianeta (Floridi 2020). Per fare ciò occorre che la politica si faccia carico di disegnare una visione del futuro che tenga in conto rischi e potenzialità dello sviluppo delle ia, sapendo trarre frutto dalle preoccupazioni del corpo elettorale pur senza restare acriticamente imprigionata nel senso comune più retrivo.
A tal proposito l’osservazione del contesto italiano e l’analisi delle retoriche più comuni riguardanti il campo dell’ia mette in luce una realtà fortemente caratterizzata dalla sfiducia nella tecnologia alla quale fa eco una peculiare forma di tradizionalismo.
Solo per fare degli esempi che mi paiono assai illustrativi vorrei menzionare due brevissimi casi tratti da Facebook. Il primo è relativo ad una notizia riguardante i telefoni dotati di fotocamere con ia. Tra le varie opinioni manifestanti allarme riguardo l’introduzione di algoritmi che intervengono su luci, esposizione e colore delle immagini catturate, quella di un utente colpisce la mia attenzione sia per la notevole approvazione ricevuta dagli altri users che per il tema dell’argomentazione. Da adesso in poi – recita il commento – l’unico sistema appropriato per scattare delle “foto realistiche” sarà quello che si serve delle vecchie fotocamere dotate di rullino le cui immagini si sviluppano in camera oscura.
Il secondo caso riguarda invece un’apprezzatissima reazione di un utente il quale, commentando la notizia che ChatGPT sia diventata meno intelligente, spiega di non essere stupito che l’ia stia “regredendo come l’umanità” dal momento che le domande poste dalle persone di oggi – tutte alle prese con “Barbara D’Urso e Temptation Island” – di certo non possono brillare per acume culturale.
Come si sarà notato, pur trattando il tema dell’ia da angolazioni diverse e con diversi gradi di ironia, i due esempi che ho appena citato sono accomunati dall’idea implicita che il presente e il futuro siano dimensioni temporali inautentiche, nelle quali le persone si pongono quesiti insulsi e accettano di buon grado di vivere in una realtà alterata da una tecnica “magica” che rende tutto fittizio e senza mordente. Al contrario, il passato con l’autorevolezza della Cultura e l’autentica maestria dell’arte fotografica emerge come la dimensione della verità sulla quale si può fare sicuro affidamento poiché “non ci sono trucchi” (nonostante il fatto che la fotografia tradizionale produca una rappresentazione della realtà esattamente come quella digitale).
Mi sembra che tale sfiducia nel futuro sia un diretto risultato del continuo aggiornamento tecnologico e del potenziamento dei dispositivi, delle ia, dei social e delle App, processi che hanno accelerato l’esperienza dell’obsolescenza rendendola un aspetto quotidiano e che costringe le soggettività ad un continuo lavoro di addomesticamento delle routine e degli artefatti necessari al vivere quotidiano (Appadurai 2013; Biscaldi e Matera 2022; Gandini e Massa 2022).
Specialmente se si è cresciuti in un’epoca nella quale le operazioni necessarie allo svolgimento di una telefonata sono rimaste identiche per almeno mezzo secolo, la continua rottamazione e produzione di nuovi software e hardware nonché la necessità di dover ogni volta imparare a padroneggiare tali dispositivi, non può che rendere il presente e il futuro dimensioni del tempo malsicure e prive di stabili punti di riferimento. È in questo senso, ad esempio, che è possibile leggere la curiosa e assai diffusa nostalgia per i cellulari Nokia e per la loro proverbiale resistenza alle insidie del tempo che scorre.
Conclusioni
Ricongiungendo la discussione alle questioni trattate all’inizio di questo testo, ecco che emergono similitudini e differenze tra l’esperienza della tecnologia fatta da quel mondo popolare calabrese della prima metà del Novecento e l’esperienza del senso comune contemporaneo.
In entrambi i casi, infatti, le persone si trovano a fare i conti con delle innovazioni che attraggono e meravigliano, che incantano e che stregano, ma con la decisiva differenza che nel mondo contemporaneo la quantità dei dispositivi, la loro enorme capacità di calcolo e la velocità degli aggiornamenti rende più difficoltoso il padroneggiamento delle skills richieste dalle tecnologie, nonché l’adozione di un sistema di pratiche efficaci e stabili nel tempo. Ma c’è di più. Se nel primo caso – almeno nella prima fase – il mondo tradizionale tenta di addomesticare le novità secondo i propri princìpi, nel secondo caso la tradizione si mostra “efficiente” in misura direttamente proporzionale alla capacità di distinguersi dalla contaminazione della contemporaneità.
Pur senza voler fare un acritico elogio dello sviluppo tecnologico e dell’Intelligenza Artificiale, sono convinto che quest’ultima tendenza conservativa non sembra destinata a dare molti frutti, specialmente per il fatto che rischia di lasciare campo libero alla progettazione di un ecosistema nel quale la tecnologia è usata per estrarre ricchezza e non per il nobile fine del benessere del pianeta e dei suoi abitanti.
In questo articolo ho cercato di mostrare come, benché l’Intelligenza Artificiale non possa ancora considerarsi una realtà contemporanea, la direzione presa dallo sviluppo tecnologico e le reazioni di senso comune invitino la politica ad attrezzarsi per tempo, cioè prima che l’incantamento della tecnologia sfoci in una completa cristallizzazione dell’azione degli esseri umani e delle loro facoltà di inventare la vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
Riferimenti bibliografici
Appadurai, A., 2013. The future as Cultural Fact. Essays on the Global Condition. New York: Verso.
Bateson, G., 1980, Mind and nature: a necessary unity, London: Fontana.
Bausinger, H., 2005, Cultura popolare e mondo tecnologico, Firenze: Guida.
Biscaldi, A., Matera, V. (a cura di), 2022, «La Costruzione della Soggettività all’epoca dei Social», in Rivista di Antropologia Contemporanea, 1 pagine?
Borges, J.L., 1961, Storia universale dell’infamia, Milano: Il Saggiatore.
De Certeau, M., 2001, L’Invenzione del Quotidiano, Roma: Edizioni del Lavoro.
Eco, U., 1992, Secondo diario minimo, Torino: Bompiani.
Floridi, L., 2020, Il verde e il blu. Idee ingenue per migliorare la politica, Milano: Raffaello Cortina.
Floridi, L., 2022, Etica dell’Intelligenza Artificiale, Milano: Raffaello Cortina.
Gallini, C., 2013, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Roma: L’Asino d’Oro.
Gandini, M., Massa, A., (a cura di), “Antropologia dei futuri passati”, Lares, 88, 2.
Geertz, C., 1973, The Interpretation of Cultures: Selected Essays. New York: Basic Books.
Gell, A., 2020, The Art of Anthropology. Essays and Diagrams, London, New York: Routledge.
Gell, A., 2021, Arte e Agency. Una teoria antropologica, Milano: Raffaello Cortina.
Ingold, T., 2000, The Perception of the Environment. Essays on Livelihood, Dwelling and Skill, London: Routledge.
Lévi-Strauss, C., 1964. Il Totemismo Oggi. Milano: Feltrinelli.
McCarthy, J., Minsky, M. L., Rochester, N. e Shannon, C. E., 2006 (1955), «A Proposal for the Darthmouth Summer Research Project on Artificial Intelligence», in «AI Magazine», 27, 4. https://doi.org/10.1609/aimag.v27i4.1904
Turing, A., 1950, «Computing machinery and intelligence», in Mind, 59, 236: 433-460.
Sitografia
Artistdetective 2023: https://artistdetective.wordpress.com/2014/10/01/loebner-prize-2014/ (14/07/2023)
_____________________________________________________________
Fulvio Cozza, ricercatore indipendente, PhD in Antropologia culturale ed Etnologia presso la Sapienza Università di Roma. I suoi studi riguardano il rapporto tra vita quotidiana, pratiche archeologiche e forme di intimità nello spazio urbano di Roma. Nel 2021 ha pubblicato una monografia frutto della sua ricerca sul campo in alcuni scavi archeologici universitari dal titolo: Fare Archeologia. Etnografia delle Pratiche Ricostruttive, Roma, Cisu.
______________________________________________________________