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L’ironia nella sperimentazione linguistica di Luigi Meneghello

9788817664592-usdi Rabeb Ben Abdennebi 

Tutto ciò che genera allegria è di rilevante fascino per Luigi Meneghello, un uomo onesto e corretto, ma con un vivo senso dell’ironia e del comico. Domenico Starnone scrive: «Meneghello è uno scrittore che dà gioia. Chi legge i suoi libri diventa lieto, ha l’impressione che il tempo non sia mai fuori squadra, che i giorni scorrano molto bene, che non ci sia esperienza che non abbia la luce giusta, che stare al mondo sia proprio una gran bella cosa» [1].   

Chi si accosta al «romanzo» di Meneghello e chi ha l’opportunità di frequentarlo capisce immediatamente lo spirito ironico e autoironico che rende brillante il suo discorso. La serena ironia della presentazione nasconde un contenuto e una realtà molti seri. Infatti esiste un forte rapporto fra lo sforzo di focalizzare certe verità e l’ironia pungente di certi passaggi, la comicità di alcune indimenticabili pagine.

Dopo anni di scrittura privata Meneghello esordisce nel 1963 con Libera nos a malo, uno dei racconti più innovativi e singolari del secondo Novecento. In questo capolavoro, scritto con una incomparabile vivezza, l’autore offre un ritratto puntuale, stupefacente e intelligente della vita a Malo, un paesino della provincia di Vicenza. Meneghello riesce a scrivere un libro con un andamento narrativo coinvolgente di straordinario divertimento grazie ad un’attitudine inarrestabile e mai abbandonata all’ironia e al comico come modo di riflessione ricreativo e impertinente.

Il testo è attraversato dai sentimenti di tristezza e malinconia poiché l’emergere del nuovo porta alla fine tragica di tutto ciò che è antico [2]. Nonostante quest’atmosfera commovente, il lettore si stupisce di sorridere e di ridere, e alla fine si trova ad aver finito il suo viaggio e ad aver vissuto un’esperienza piacevole e indimenticabile.

315ngfnlgzl-_ac_uf10001000_ql80_Vittorio Spinazzola offre una calzante definizione secondo cui lo stile dell’autore è «uno stile comico, nell’accezione più classica del termine, ma anche in quella moderna, se pensiamo alla profusione di umorismo che impronta questa festosa commemorazione di un mondo estinto» [3].

In Libera nos a malo la componente ironica, il gioco con le parole e le contaminazioni linguistiche sono già evidenti dall’ambivalenza del titolo, «scherzoso e perfettamente serio» [4]. Esso coincide con l’invocazione iniziale del Padrenostro «”liberarci dal male”, ma in cui la maiuscola indica che la traduzione corretta è “liberarci da Malo”» [5]. Il titolo unisce acutamente e finemente due simultanei sentimenti opposti, uno di nostalgia affettuosa e altro di distacco ironico, che legano Meneghello alla sua terra di origine.

«Mi sono accorto, con mia sorpresa e piacere, fin da principio, dal giorno in cui mi è venuto in mente il titolo del primo libro – era nell’inverno del ‘62… Un titolo che è per sua natura ironico. Non si capisce se sto dicendo che mi voglio liberare dal mio paese o no, e tutte e due le cose sarebbero vere. Non voglio liberarmi dal mio paese, anzi, ma anche un pochino sì, voglio starne fuori. Se poi si tratta di umorismo non lo so» [6].

La forma che distingue l’umorismo meneghelliano è inoltre l’arguzia. Nell’opera il riso scoppia dal contrasto che nasce dall’uso di due registri completamente diversi. Cesare Segre afferma giustamente:

«Secondo molti studiosi, l’arguzia consiste nella sorpresa per il passaggio inatteso da un sistema di riferimento logico o linguistico a un altro. Ora Meneghello salta spessissimo [...] dalla logica discorsiva del dialetto a quella della lingua, o viceversa. [...] E si diverte ad accentuare il contrasto [...] che ha come prodotto immediato lo humour [...] quando il salto è attuato, rimangono gli effetti contrastivi: significati e valori che il dialetto da una parte, la lingua (o le lingue) dall’altra traggono dall’inatteso accostamento» [7].

Si cita come esempio il passo seguente:

«Le cose andavano così: c’era il mondo della lingua, delle convenzioni, degli Arditi, delle Creole, di Perbenito Mosulini, dei Vibralani; e c’era il mondo del dialetto, quello della realtà pratica, dei bisogni fisiologici, delle cose grossolane. Nel primo sventolavano le bandiere [...]. L’altro mondo era certo, e bastava contrapporli questi due mondi, perché scoppiasse il riso. Ridevamo recitando con le donne di servizio: Bianco rosso e verde / color delle tre merde / color dei panezèi / la caca dei putèi» [8].

Secondo Ernestina Pellegrini, Roland Barthes e altri ancora, l’avventura linguistica di Meneghello si riflette nella «favola autoironica del linguaggio». Le vibrazioni umoristiche nascono in questo caso «dal cortocircuito che si sprigiona al semplice contatto di sfere spesso contrapposte e inconciliabili» [9]: la lingua letteraria per parlare del mondo degli adulti e delle convenzioni e la lingua popolare per rievocare il mondo dell’infanzia.

Ma forse il modello più fruttuoso è quello che porta all’alterazione, ovvero alle contraffatte volgarizzazioni,

«di canti fascisti, di canzonette popolari, di conte, di filastrocche, secondo una pratica di risemantizzazione del dettato originario, tale da comportare una sua risillabazione e quasi una nuova riscrittura grafica, e quindi un’inedita interpretazione concettuale in ragione di una percezione svisata e infantile che sembra come traudire ciò che sente, ma anche penetra, a modo suo, intuitivamente, il mondo circostante» [10].

Meneghello fa «emergere il rapporto fisico che nella civiltà contadina i parlanti istituivano con il loro dialetto». Si parla degli usi più diversi della parola dialettale.

«Seguendo tutte le associazioni permesse dal dialetto, specialmente nel suo uso infantile, i molteplici conflitti e scambi che esso ha con la lingua nazionale (appresa a scuola), Meneghello riesce a ricreare, senza nessun indugio sentimentale, tutta la particolarità di quel mondo contadino, tutta la sua estraneità rispetto alla nuova realtà linguistica e industriale che si sta affermando in Italia» [11].

md31990670351I ragazzi, soggetti quasi sempre principali, hanno un rapporto sostanziale con il dialetto. Sono loro che ne assicurano la realtà e ne comunicano con essenzialità tutte le facoltà. È particolarmente in loro che si coglie il legame tra dialetto e verità, la sua natura morale: «in un certo senso era impossibile dire cose false, se non di proposito» [12].

Lo scrittore individua il carattere eversivo e critico della lingua infantile, il suo primato, la sua capacità di stringere parentele tra parola e cosa, significato e significante, il suo funzionare «in una sfera pre-logica dove le associazioni sono libere e fondamentalmente folli. Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia» [13]. Perciò le memorie più forti e sensuali sono rievocate mediante il dialetto.

Il libro è denso di tanti tipi di testi in versi: canti popolari e inni guerreschi che rievocano l’epoca fascista tra gli anni Venti e Trenta, «nursery rhymes», conte e filastrocche infantili indimenticabili scritte con splendida abilità verbale. Queste formule tradizionali straordinarie rimangono incise nella mente del lettore e rendono prezioso il volume anche dal punto di vista documentario. Le conte e le filastrocche sono espressioni tipiche della cultura paesana. I bambini sono gli scrittori di tali componimenti. In essi prevale l’italiano popolare parlato che è la lingua tipica del mondo infantile, un mondo piccolo e chiuso che ha una cultura diversa da quella dei maturi. «Il carattere preminente di questa lingua infantile è la capacità (magica) di evocare oggetti fuori da schemi logici prefissati, con una attenzione acutissima al materiale fonico» [14].

Meneghello mostra il suo acuto interesse per tutte quelle espressioni dialettali come la conta e la filastrocca infantili che costituiscono uno dei componenti più rilevanti della sua prosa che è il ritmo. Egli non pubblica mai poesie vere e proprie ma nei momenti di maggior vigore fantastico e di evidenza comica si affida sempre al dialetto e al suo ritmo. Si ricavano alcuni passi in cui i bambini sono eroi della lingua e degli avvenimenti. Mediante il vernacolo impiegato nelle filastrocche, è possibile parlare agli animali, come in questo esempio con «delle api che dardeggiavano sopra l’orto, dentro e fuori dal tempo» [15] ; «Ava aveta, do lo ghètu ‘l basavéjo? / Ava: sa te me bèchi te lo incatéjo» [16]. Il «non sense» del linguaggio infantile appare anche nel frammento successivo: «Aliolèche tamozèche / taprofìta lusinghè / tulilàn blen blu / tulilàn blen blu. Avventura turchina. Luoghi sconosciuti in una luce pallida, estenuata, bottoni d’oro, malinconica a mezza mattina» [17].

Nel racconto si incontra una filastrocca associata a un gioco infantile : «Su e zó quarantanóve / case vècie, case nóve – da fitare. / Dèghe la papa al vècio, / dèghela col guciàro, / se no ‘l se stràngola» [18]. Questo gioco «consisteva nel girare tenendosi per mano e cantando la filastrocca sempre più forte, finché un anello della catena si spezzava»: infatti «Se il cerchio si spezza, escono dal gioco i due fra i quali è avvenuta la frattura e si riforma il cerchio, via via sempre più piccolo in cui rimangono i più forti» [19].

Lo scarto linguistico mette a frutto pure il prosimetro, «con inserti ritmici, frammenti di canzoni o filastrocche di pure catene foniche, seguiti da una divertita esegesi o da un innalzamento lirico di tono» [20]:

«All’asilo ci facevano cantare canzoni piene di sentimento; altre ci arrivavano dal mondo esterno.
Ramona
Co na palanca se va in mona.
Mi pareva una bella canzone, un po’ triste, con quel richiamo alla rovina economica che càpita fatalmente a chi non possiede altro che dieci centesimi: una cosa ovvia in fondo, ma molto ben detta. Pensavo che sarebbe piaciuta alla mamma, ma invece non le piacque affatto» [21].

2567902001897_0_0_536_0_75In dialetto sono rappresentate inoltre versioni comicamente alterate di inni liturgici, politici e militari fascisti, di suppliche… Sono casuali e accidentali deformazioni dell’italiano letterario compiute dai bambini. Il romanzo comprende alcuni esempi di questa libera traduzione che rivela la singolarità e la felicità stilistica meneghelliana. Si menziona il celebre equivoco messo all’inizio dell’opera; quel balzano «Vibralani! Mane al petto! / Si defonda di vertù. / Freni Italia al gagliardetto / e nei freni ti sei tu», con cui il ragazzo interpreta il roboante e fascistico «vibra l’anima nel petto» [22]. L’inno è seguito dalla spiritosa esegesi:

«La forma poetica ti sei tu per ci sei tu non bastava a confonderci, né l’arcaismo di mane per mani. L’ordine era di portarle al petto, orizzontalmente, in una forma sconosciuta ma austera di saluto: come un segno di riconoscimento in uso fra i vibralani a cui sentivamo in qualche modo, cantando, di appartenere ad honorem anche noi» [23].

I «Vibralani» sono l’equivoco di «Vibra l’anima», una parola con cui si apre la strofa dell’Inno del Balilla, destinata al «ragazzo di Portoria» [24]. Nelle note si chiarisce l’enigma. Il bellissimo inno suona così: «”Vibra l’anima nel petto / sitibonda di virtù: / freme, o Italia, il gagliardetto / e nei fremiti sei tu”» [25].

Divertente e piacevole è la formazione (fraintendimento) infantile di un vero e proprio verso: «E la pace del mondo, o gelatina!» [26], tratto dall’Inno a Roma che suona invece: «… e la pace del mondo oggi è latina» [27]. Si vede pure il «Marsón! Marsón!» dell’inno francese (A lòn zanfàn!) che è impiegato per un «bellissimo insulto gettato in viso al nemico» in quanto «i marsóni, che si pescano nell’Astico con le mani o con la forchetta, sono goffi e sgraziati» [28]. O ancora si può riferire alla deformazione infantile della canzone Creola: «Creola / dalla bruna rèola» [29].

Il riso travolge persino le frasi rituali di preghiera alterate dai fanciulli. Si cita il ritratto della famiglia Meneghello nel momento della declamazione del Terzetto dei Morti:

«I grandi si mettevano in cerchio, le luci erano basse, la pignatta delle castagne cotte fumava sul focolare. Noi piccoli inginocchiati sulle sedie impagliate [...] approfittavamo delle strambe finali in èsse che le donne pronunziavano quasi come zeta alla maniera dei seminaristi, per creare imitandole effetti fonici surreali: Ora pronò-biz, Ora pronò-bizz!, finché le donne s’accorgevano e tiravano scappellottini [30].

«Libera nos amaluàmen» e altre suppliche, utilizzate in circostanze speciali, sono deformate dagli abitanti incolti. «[...] il contesto sportivo conferisce un colore inconsueto alla preghiera e pure il Cielo si fa complice della tifoseria maladense» [31]:

«Pareggiare non serve niente, all’ultima partita del campionato, [...] bisogna vincere. [...] C’era il consueto tumulto di fine partita, ma d’un tratto si sentì un tumulto nel tumulto, tipico di una ‘azione’ seria.
Ora! Nunc etinòra morti nostre! Sì, anche allora, ma intanto adesso, adesso! E infatti la crisi esplose nel modo inconfondibile che significa gol. La Madonna ci aveva vinto il girone un’altra volta» [32].

Alla fine del libro, Meneghello scrive:

«I bambini sono esposti come tutti alle influenze delle comunicazioni di massa, ma ci sono segni che queste vengono ancora tradotte. «Guarda guarda!» disse Enrico la prima volta che lo portarono al cinema coi grandi. ‘Si bèccano!’ Infatti l’attore s’era messo a baciare ardentemente l’attrice» [33].

kea4119Ancora una volta incontriamo un creativo fraintendimento che afferra una realtà e aggiusta ciò che è «svisto». Enrico non soltanto riconosce «nei baci di celluloide un’involontaria parodia del beccarsi delle galline», ma anche ricostruisce «la natura profonda delle cose svisate sullo schermo, riassociando il bacio umano al resto delle cose che bèccano, l’anda e l’ortica, e il morso oscuro della tarantola» [34].

Assai notevole è questa attitudine di Enrico a interpretare termini, ritratti, principi, modi di vita, riflessioni derivati dalla metropoli nel proprio dialetto. Il personaggio riesce a volgarizzare le notizie e le novità dei media adoperandole nel proprio universo, accostandole alle proprie esperienze, alterandole, «travisandole» creativamente [35].

Il mondo della fanciullezza non è ingenuo «contrappunto» a quello degli adulti, alla scarsa vivacità e alla «contraddittorietà» delle loro consuetudini. C’è una spontanea adiacenza tra l’età infantile e l’autonomia espressiva: «quel tanto di impertinenza e vivacità che sorprende il lettore, lo espone a una vivificante polifonia che rende armoniche le voci del professore di Reading e del bambino di Malo [...]» [36].

Con tutti gli esempi sopra ricordati, Meneghello si riferisce all’ambiente e alle misure mentali dei personaggi narrati. L’autore tenta di «esprimere la materia di Malo con i mezzi della mente, della lingua, della fantasia che erano propri di un intero paese, non solo di un individuo» [37].

Un principale mezzo di comicità è quindi la rievocazione di una logica infantile o primitiva mediante un ragionamento maturo o persino pedante. Qualche volta Meneghello riporta i versi con le ridicole deformazioni compiute da parlanti che poco conoscono la lingua letteraria italiana. Lo scrittore mette in risalto la supermazia vigorosa di questo universo prescolastico, dialettale e parlato: «A me pare ovvio che nessuna altra nostra funzione intellettuale ha la brillantezza, la potenza creativa, delle attività linguistiche dei nostri anni prescolastici» [38].

Su tali deformazioni immature si basano moltissime storielle, fondate frequentemente «su azzardate espressioni, che mentre vanno alla scoperta del meccanismo della lingua anche ritardano o appannano la conoscenza» [39]: ad esempio «per tralasciare tutto il resto, gli ormai famosi apoftegmi» [40], l’inesprimibile «La trà la frìtola» [41] e l’assurdo e insieme reale «Guzzava col ciccio» [42].

Tullio De Mauro afferma che «il dialetto è lo strumento espressivo dell’affettività e dello scherzo, la lingua lo è del rispetto» [43]. L’idioma opera come «pietra di paragone»[44] per intuire la falsità della lingua.

«‘Ama i compagni di scuola’: questa non era una massima seria, nessuno cercava sul serio di farci credere, nella nostra propria lingua, che ‘bisogna amare i compagni di scuola’. Quando si baruffava con questi compagni, a volte ci rimproveravano, altre volte prendevano le nostre parti. In astratto i compagni di scuola non bisognava né amarli né disamarli: l’ingiunzione dell’amore non è concepibile in dialetto [...]» [45].

defaultIl dialetto è valutato «come l’epifenomeno di una cultura, di un modo di vita poco chiacchierone, duro, che non può permettersi il lusso di girare intorno ai fatti, alle cose, alla vita» [46].  «La spiegazione o illustrazione dei termini dialettali è presa a pretesto per tracciare vicende di parole, ma in certe occasioni il procedimento diventa stimolo quasi di una superfetazione poetica e motivo esso stesso primario di racconto» [47]. Si riporta una successione di esempi, appoggiandosi alla limpidezza che proviene dalla loro affinità.

I due primi esempi rappresentano un’interpretazione in dialetto di parole italiane, «sempre con ammiccamenti impliciti»; in tal contesto «si gioca sugli opposti: una ricerca semantica comparativa da cui si evince, con effetto di riso, una sfasatura etica, non solo concettuale»:

«La parola dovere in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione bisogna, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la dòna, per el me òmo, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare [48].
Onesto si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di onesto non è disonesto, ma uno che tende i so intaressi. L’equivalente paesano del disonesto della lingua sarebbe un poco de bòn, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità» [49].

Il complesso della definizione può creare spassose deviazioni, a motivo del fatto che a fianco dell’interpretazione «tecnica» della parola usata

«si viene a raggruppare tutta una sfilza di addentellati metavocabolaristici, anzi di mera invenzione, cosicché, oltre alla esatta denotazione del lemma, si esplicita tutta una serie di valenze connotative ulteriori, alcune incluse nel termine, altre completamente spurie e platealmente relate alle coloriture soggettive dello scrittore» [50].

Come esempi, citiamo i seguenti:

«Le venivano le caldanelle [...]. Che cos’erano le caldanelle? Un dibattersi comico ma non finto, un fluttuare delle immagini del mondo, ma infrarosso e microscopico, un calore interno che non fa salire i termometri, un’insopportazione incipiente ma potenzialmente assoluta [51].
La parola “nuda” era potentemente calamitata (era una parola in lingua, in dialetto si usa nudo-nfante che vuol dire sprovvisto di vestiti, e quindi esposto a prendere un malanno; l’equivalente pratico del nudo cittadino sarebbe cavà-zò, che però non ha alcuna carica sessuale, oppure in camisa, che trovo poetico ma non eccitante) [...]» [52].

Nella scrittura multiforme di Meneghello, «alcune ricerche di effetti fonosimbolici si incrociano spesso con altre di carattere semantico, non di rado a sfondo paretimologico, dando luogo a notevoli sequenze di prosa allitterante e in pari tempo evocativa, una sorta di libero sfogo di associazioni mentali e di suoni, di giochi paronomastici» [53]: «Ava: una giuggiola che si muove, una strega striata, minuscola [...]» [54]; «[...] io rimuginavo tra me il nome cupo come la notte: Còpano» [55]: «Onta vuol dire insomma untidy [...]»[56]; «Volete capirla che generalmente nel cotto non c’è che il còto del coito?» [57]; «Il seduttore lo sapeva. Seduttore seduto. Seduto al caffè di Felice [...]» [58].

A Malo si predilige esprimersi in modo sintetico. Nei modi di fare, di dire e di pensare degli abitanti del paese, il letterato riesce a individuare esempi di ampia attualità anticonformista diversi da quelli enfatici specifici di un certo tripudio progressista. Ecco di questi esempi: «È un lavoratore è un’espressione di alta lode per mio padre [...]. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: È bravo, è un bravo operaio,  e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia opere [...]» [59].  Dunque nella terra maladense non è necessario usare molte parole per elogiare intensamente «la virtù somma» di qualcuno, è sufficiente dire che «è bravo» [60].

Sempre con tale disposizione essenziale, l’autore si diverte anche a opporre l’understatement dei maladensi alla ridondanza di una certa cultura retorica. Notevole in questa direzione è un passo che ricorda il personaggio don Culatta, il quale a quanto appare,

«diceva messa prima, e faceva una predica assai semplice, sempre quella. Taceva a lungo presso la balaustra, fissando l’uditorio di rozzi ammazzatori di pidocchi, poi proferiva in tre brusche emissioni il suo messaggio:
Bisogna – èssare – bòni.
Questa era la predica. [...] Mi pare che quel nostro prete, [...], predicasse in modo esauriente: che altro c’è da dire?» [61].

5000089543327_0_0_536_0_75Il modo di predicare del prete provoca il riso dei lettori, e in questo caso è legittimo richiamare «l’assunto freudiano» secondo il quale «la comicità nasce quando l’altro risparmia un dispendio che io considero indispensabile», perciò «non si può negare che il nostro riso è [...] l’espressione della superiorità – cui va congiunto con un senso di piacere – che ci attribuiamo rispetto all’altro» [62]: è impossibile che una predica contiene soltanto tre parole!

Ma come chiarisce ancora Freud, una persona può «tentare di spiare dietro» una «facciata comica» e riconoscere che il personaggio comico, in questo caso don Culatta, ha ragione. Lui non è costretto a spendere tante chiacchiere inefficaci su moralità, valori e doveri.

Meneghello si allea con convinzione con il prete. Lo scrittore ascolta tante volte retori, maestri e preti che sprecano superbe frasi morali, pedagogiche, politiche nei loro discorsi. Ciascuno cerca di «èssare bon» o «bravo» nel proprio ambito. Tutto sommato, Wittgenstein afferma: «Su ciò di cui non si può parlare occorre tacere» [63]. Il sorriso si alterna, continuamente, con riflessioni più aspre sulla angustia di alcune convinzioni religiose e sui loro effetti, come lo «strabismo» sessuale di Giacometto, che «Non farebbe mai una cosa che il prete definisca peccato, ma è troppo serio per non capire che non deve neanche fare troppi figli» [64].

I travisamenti fantastici in fatto di religione sono in grado di comporre la base forte delle fedi assodate, in quanto ad esse viene associato quel procedimento di precisazione che porta alla persuasione religiosa, «così è anche il processo, secondo gli stadî evolutivi della psiche, che coinvolge l’apprendimento del dialetto, la sua definitiva sedimentazione, secondo una pari evoluzione che si può forse così sintetizzare: travisamento, radicamento, cristallizzazione»[65].

«Queste assurdità puerili non erano però senza importanza: alcune svanivano naturalmente da sé con la vis immaginativa della puerizia; altre serpeggiavano in modo sotterraneo anche nei pensieri e nelle credenze dell’adolescenza e dell’età adulta; alcune infine si cristallizzavano per sempre» [66].

Sembra che il modo di vita a Malo sia intriso di una «attitudine sperimentale-giocosa» [67]. Da citare la vicenda dei grandi bestemmiatori, «avventurosi, empi, indomabili» [68]. Con le loro bestemmie, mostrano una grande confidenza con Dio. 

«Cicàna sapeva un numero infinito di bestemmie; altre ne inventava. Una volta scommise di dirne trecentocinquanta tutte diverse una dietro l’altra, e vinse senza impegnarsi a fondo.
[...] La stramba litania ci faceva sfilare davanti agli occhi animali esotici e piccoli mammiferi nostrani, uccelli, pesci e rettili, la fauna dei letamai intenta ai suoi traffici, e la gaia flora dei marciapiedi, i grandi sputi gialli dei tabacconi, scarlatti dei tisici [69].

Poi il personaggio «alle cento bestemmie» abbandona «il regno animale» e passa «alle piante», «sulle duecento» si immette «nel mondo brutto della materia inanimata», «alle trecento» inizia «a toccare la sfera delle arti e dei mestieri» e riflette alla fine sui «visceri attraenti insieme e repulsivi» dell’Uomo, per concludere «con una bestemmia breve e solenne, raddoppiando il Nome di Dio» [70]. In questo caso e in tanti altri ancora, l’attenzione dello scrittore è orientata a mettere in risalto non le prove tangibili di un «pensiero selvaggio», ma quelle di una tendenza autonoma e curiosa, ricca di un «vivo sentimento della natura», di «un attento spirito di osservazione» [71], acuto e aperto all’universo. Si parla «di un senso panteistico della divinità», ma anche in questa situazione funziona il meccanismo della «traduzione»: «si tratta infatti letteralmente di tradurre Dio nel mondo» [72], di «’tirar giù’ il soprannaturale» [73].

Possiamo richiamare in questo caso il modello di Freud concernante il motto di spirito. Questi brani da una parte ci sembrano ingenui e illogici perché trattano argomenti intoccabili in questo modo, avvicinano «entità tanto incommensurabili» e insomma racchiudono «un difetto di spesa psichica, intellettuale, per dirla ancora con Freud» [74],  d’altra parte provocano il riso del lettore. 

9788817009652_0_0_536_0_75Tuttavia dietro l’apparente «facciata comica» del testo, c’è un altro significato più profondo: «quale stupenda attitudine spontaneamente illuministica, spontaneamente laica ispira questi pensieri!». I cittadini di Malo trattano con Dio con stupefacente atteggiamento e con comodità senza farsi  spaventare. Loro danno dimostrazione di una disposizione volontaria «al pensiero profano e sperimentale». Si parla di una libertà non soltanto «anti-religiosa» ma perlopiù «anti-dogmatica». Questo popolo che sa trattare con maggior autonomia i concetti religiosi, è abile a altrettanta autonomia pure «con altri concetti, discorsi, mode, ideologie» imposti da fuori.  

Un nuovo livello di significato in gioco esiste in queste rivelazioni di autonomo pensiero popolare. In esse si manifesta una spontanea vocazione ricreativa e sovversiva: «fare la punta con Dio!». Sia in questo caso che in altri la tesi insolente si tramuta in capriccio, in autentica «capriola» o «schinca»[75] di riflessione.

Secondo Freud il motto di spirito può essere ingiusto quando per esempio critica istituzioni, abitudini e credenze, ma anche ingenuo quando si limita a divertirsi con «la lingua e la logica», per il desiderio di arruffarle, di svincolarsi dalla loro tirannide. In tal senso «la ribellione contro la costrizione del pensiero logico e della realtà viene dal profondo ed è incessante».

Lo stesso Baudelaire tratta in qualche modo la questione. Lui diversifica tra un «comico significativo» o «utile» che condanna i malcostumi diffusi, e un «comico assoluto»[76] che coincide con una schietta rivelazione di vivacità «gratuita». Infatti se molte rivelazioni linguistiche e esistenziali rappresentate da Meneghello sono «tendenziose», ovvero furbe e insolenti nei confronti dei «pregiudizi, dogmi, frasi fatte», altre svelano tale capacità creativa «fondamentalmente folle, gratuita, fine a se stessa». Appunto per ciò «Il dialetto è dunque per certi versi realtà e per altri versi follia» [77]. La materia dialettale, nel giudizio di Meneghello, riconsegna «accesso immediato»[78] non solo alla quotidianità ma pure «alla contro-realtà, all’illogica» [79].

Una società eccessivamente assoggettata al concetto di realtà è una società immobile e isolata. L’attitudine alle «associazioni libere» non riguarda solo il dialetto vero e proprio, ma anche il «dialetto degli occhi e degli altri organi del senso» e in un solo termine il modo di ragionare collettivo: «So bene che non solo nel dialetto c’è questo, anzi ancor più in quell’altro dialetto degli occhi e degli altri organi del senso, quando il caso o certe disposizioni emotive determinano uno sfasamento tra il mondo delle parole e quello delle cose» [80].

Nella sua opera, l’autore rappresenta la parlata come il simbolo rappresentativo di un modo di vivere, sentire e pensare in maniera completamente diversa, di un modo di vivere e pensare più autonomo e produttivo nei confronti dei modelli «funzionali e “razionali”» che si sono affermati dovunque, persino a Malo [81]. Gli esempi fin’adesso ricordati rafforzano il discorso: la libertà e la capacità sperimentale e ricreativa che distinguono la terra di Meneghello si sviluppano anche mediante tali esercizi di creatività e di riflessione.  

Tanti sono i passaggi che consolidano la «tesi della teoria del soggiacente» e il riconoscimento di «primitivo» con «illogico» [82]. Qualche componimento individuale e poche battute sono citati e commentati nel racconto per la loro carica di crudezza popolaresca. Nel passo seguente, l’oscillazione tra lingua e dialetto riguarda non soltanto il lato linguistico ma anche quello  culturale.

»Anche tra gli sposi che vanno d’accordo ci sono dei piccoli screzi.
«Troia!» diceva il marito alla moglie. Di tanto in tanto anche la moglie esprimeva il suo punto di vista: «Non toccarmi, sai? Se mi tocchi ti mollo una pedata nei coglioni».
«Troia! Roia! Luia! Vac-ca! Brutta puttana!» diceva il marito [...].
È una buona famiglia, rispettata da tutti, piuttosto devota; ma conversano ad alta voce.
La minaccia della padata al marito è un antico istituto trasmesso dalla vecchia generazione» [83].

Dopo la lettura del brano appena citato, alcuni parlano di incoerenza tra le parole affiancate, di «eufemismi» ironicamente incongruenti. Secondo loro, lo scrittore vicentino rappresenta tramite parole raffinate e eleganti comportamenti alquanto sconvenienti. Qui il sorriso nasce da un certo «avvertimento del contrario» per dirla con Pirandello. Ma Freud ha un’altra opinione. Nella sua analisi dei motti di spirito, lui evidenzia che dietro la contraddittorietà esteriore si può riconoscere la convenienza celata, dietro una logica scorretta una realtà nascosta: «Non ci allontaneremo molto dal vero supponendo che tutte le storielle con una facciata logica intendano veramente dire, sia pure con argomenti a bella posta erronei, ciò che affermano» [84]

Luigi Meneghello

Luigi Meneghello

In definitiva le offese e gli avvertimenti di quei consorti di Malo non fanno altro che mostrare chiaramente la prepotenza che si nasconde dietro i garbatissimi scambi di «punti di vista» che capitano tra gli sposi [85]. In questo come in tanti altri esempi, ci sono due piani di lettura. L’ironia di Meneghello ha due scopi: ride alquanto dei maladensi, ma anche deride gli altri, deride i dogmi di una cultura progredita che si sta pericolosamente separando dall’impulsività, una cultura dove gli sposi in alcuni momenti desidererebbero indirizzarsi affettuosamente a quel paese nativo e sono invece forzati a darsi a vicenda (ostili) «punti di vista». Probabilmente «l’antico istituto» è più adatto dei «nuovi istituti del matrimonio borghese…» [86].

La qualità comica della scrittura di Meneghello è specialissima. Egli è chiamato dalla critica «professore ironico e moralmente severissimo» [87].  È tra il 1941 e il 1947 «che probabilmente si gettano le basi del Meneghello sempre verbalmente sottodimensionato, ironico e autoironico, nemico del nulla difficile, fustigatore dell’eccesso parolaio, maestro dell’arguzia che buca tutto ciò che appare troppo gonfiato» [88]. Meneghello vive molte esperienze che lo portano a conservare l’aspetto ironico nei suoi libri. Questa morale deriva

«dall’orgoglio artigiano di una famiglia del nord pre-industriale, dalla consuetudine con la morte del periodo partigiano, dal rigore dell’insegnamento in terra straniera, dal confronto con costumi consolidatissimi al limite del tradizionalismo e oltre, ma per lui nuovi, come quelli cui si dovette adeguare, e dai quali dovette imparare, nell’Inghilterra del dopoguerra [...]» [89].

Il tono ironico è anche una parte fondamentale dello stile di questi letterati delle periferie che se ne sono andati, si sono liberati dai loro piccoli paesi natali e li osservano ‘di lontano’. Ma non si può dire che questa lontananza ironica elimina l’indulgenza affezionata [90]. La formazione inglese vale considerevolmente a rafforzare l’umorismo nativo di Meneghello fino a diventare una parte importante del suo progetto linguistico organizzato accuratamente e attentamente nei suoi resoconti. L’autore fa della sua vita trascorsa tra due universi assai diversi il fulcro essenziale di uno sguardo sempre attento, volutamente ironico e comunque impegnato sulle cose. Infatti la conoscenza di un’altra realtà porta lo scrittore ad osservare la sua società con l’occhio ironico di chi se ne è allontanato. Segre ha già notato:

«Ma c’è anche da dire che l’onnipresenza dell’autore è condita di uno humour nativo, poi rafforzato dallo humour britannico: esso ci rivela sempre il lato comico delle cose serie, ci suggerisce di smitizzare e sdrammatizzare. Insomma, Meneghello ci dice: non prendetemi troppo sul serio» [91] .

L’ironia e il comico sono quindi costituenti basilari della produzione artistica meneghelliana ma non invadono qualsiasi situazione: c’è un concentrato equilibrio, uno schema «che segue le linee di tensione emotiva e riflessiva, di valutazione storica» [92]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Domenico Starnone, Il nocciolo solare dell’esperienza, in LUIGI MENEGHELLO, Opere scelte, Progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, A cura di Francesca Caputo con uno scritto di Domenico Starnone, Quarta edizione, («I Meridiani»), Verona, Mondadori, 2010, cit.: XXVIII.
[2] Luigi Meneghello è un testimone più vivo e precoce dei mutamenti antropologici radicali che si sono verificati in Europa e nella società italiana nell’ultimo trentennio. Il letterato ricostruisce la storia del suo Veneto tra gli anni Venti e gli anni Sessanta, un mondo artigiano annientato via in un primo momento dalla guerra e successivamente dalla profonda trasformazione socio-economica.
[3] CARLACHIARA PERRONE, «Ceramica linguistica»: La scrittura di Luigi Meneghello, Volume 35, Volume pubblicato con il contributo dell’Università di Salento, Dipartimento di Filologia, Linguistica e Letteratura, («Galatina»), S.l, Congedo, 2008, cit.: 52.
[4] SERENA SENESI, Luigi Meneghello, L’arte di apprendere come disvelamento del reale, («Orme saggistica e manuali»), S.l, Drawup, 2014, cit.: 9.
[5] STEFANO RE – LUCA SIMONI, L’invenzione letteraria, 3**, Epoche Autori Testi della letteratura italiana ed europea, Tomo 2, Dagli anni Venti alle tendenze contemporanee, Castello, Signorelli, 1997, cit.: 1551-552.
[6] ERNESTINA PELLEGRINI, Luigi Meneghello, («Scritture in corso, 7»), Collana diretta da Giuseppe Nicoletti, Firenze (Fiesole), Cadmo, 2002, cit.: 15.
[7] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», La ricerca di Luigi Meneghello, Atti del convegno internazionale di studi Malo, Museo Casabianca 26-28 giugno 2008, a cura di Francesca Caputo, Premessa di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo, («Biblioteca di “Autografo”, 12»), fondata da Maria Corti, Novara, Interlinea, 2013, cit.: 67-8.
[8] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, Ottava edizione, («i grandi romanzi BUR»), Bergamo, Rizzoli, 2007, cit.: 30.
[9] ERNESTINA PELLEGRINI, Luigi Meneghello, cit.: 30.
[10] S. GUGLIELMINO – H. GROSSER, Il sistema letterario, Guida alla storia letteraria e all’analisi testuale, Novecento (2), Prima edizione, («Edizione verde»), Milano, Principato, 1996, cit.: 581.
[11] Ibidem, cit.
[12] LUCIANO ZAMPESE, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, («Strumenti di Letteratura Italiana, 43»), Collana diretta da Franco Musarra, Firenze, Franco Cesati, 2014, cit.: 88.
[13] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 37.
[14] LUCIANO ZAMPESE, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, cit.: 90.
[15] LUIGI MENEGHELLO, «Vorrei far splendere quella sgrammaticata grammatica», in Il tremaio, Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie, con interventi di Cesare Segre, Ernestina Pellegrini e Giulio Lepschy, («Biblioteca di Lingue e Culture Locali, 2»), Collana diretta da Gabrio Vitali e Giulio Orazio Bravi, Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1986, cit.: 30.
[16] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 36.
[17] Ivi, cit.: 43.
[18] Ivi, cit.: 273.
[19] Luciano Zampese, Ritmi del parlato e voci dialettali nei Piccoli maestri, in Maestria e apprendistato, Per i cinquant’anni dei Piccoli maestri di Luigi Meneghello, Atti del convegno di studi, Università degli Studi di Milano (8 maggio 2014), Università degli Studi di Milano Biocacca (9 maggio 2014), Comune di Malo (28 giugno 2014), a cura di Francesca Caputo, Introduzione di Bruno Falcetto, («Biblioteca di “Autografo”, 14»), fondata da Maria Corti, Novara, Interlinea, 2017, cit.: 177-78.
[20] LUCIANO ZAMPESE, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, cit.: 191.
[21] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 26-7.
[22] Ivi, cit.: 6-7.
[23] Ivi, cit.: 7.
[24] LUCIANO ZAMPESE, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, cit.:  90.
[25] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 255.
[26] Ivi, cit.: 126.
[27] Ivi, cit.: 274.
[28] Ivi, cit.: 265.
[29] Ivi, cit.: 27.
[30] Ivi, cit.: 191.
[31] CARLACHIARA PERRONE, «Ceramica linguistica»: La scrittura di Luigi Meneghello: 62.
[32] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 78.
[33] Ivi, cit.: 247.
[34] Ibidem, cit.
[35] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome»: 98-9.
[36] LUCIANO ZAMPESE, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, cit.: 188.
[37] ANTONIO DANIELE, Dal centro al cerchio, L’esperienza narrativa di Luigi Meneghello, Prima edizione, («Romantica Patavina, 7»), Padova, Cleup, 2016, cit.: 48.
[38] LUIGI MENEGHELLO, L’acqua di Malo, Jura, in Opere scelte, cit.: 1165.
[39] Antonio Daniele, La grammatica narrativa di Luigi Meneghello, in Per Libera nos a malo, A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del convegno internazionale di studi “In un semplice ghiribizzo” (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo, Cornuda (Treviso), Terra Ferma, 2005, cit.: 99.
[40] Ivi, cit.: 99-100.
[41] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 121.
[42] Ivi, cit.: 32.
[43] Ernestina Pellegrini, «Il piano inferiore del mondo ha un orlo di monti celesti ed è colmo di paesi», in LUIGI MENEGHELLO, Il tremaio, cit.: 70.
[44] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 75.
[45] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 98.
[46] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 75.
[47] Antonio Daniele, La grammatica narrativa di Luigi Meneghello, in Per Libera nos a malo, cit.: 100.
[48] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 99.
[49] Ivi, cit.: 105.
[50] Antonio Daniele, La grammatica narrativa di Luigi Meneghello, in Per Libera nos a malo, cit.: 100.
[51] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 119.
[52] Ivi, cit.: 164.
[53] Antonio Daniele, La grammatica narrativa di Luigi Meneghello, in Per Libera nos a malo, cit.: 101.
[54] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 36.
[55] Ivi, cit.: 52.
[56] Ivi, cit.: 104.
[57] Ivi, cit.: 154.
[58] Ivi, cit.: 173.
[59] Ivi, cit.: 102.
[60] Ibidem.
[61] Ivi, cit.: 181.
[62] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 77.
[63] Ibidem, cit.
[64] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 168.
[65] Antonio Daniele, La grammatica narrativa di Luigi Meneghello, in Per Libera nos a malo, cit.: 100.
[66] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 196.
[67] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 83.
[68] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 64.
[69] Ivi, cit.: 65.
[70] Ibidem.
[71] Ibidem.
[72] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 84.
[73] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 96.
[74] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 86.
[75] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 42.
[76] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 86.
[77] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 37.
[78] Ivi, cit.: 30.
[79] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 87.
[80] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 37.
[81] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 87.
[82] Ernestina Pellegrini, “Il piano inferiore del mondo ha un orlo di monti celesti ed è colmo di paesi”, in LUIGI MENEGHELLO, Il tremaio, cit.: 65.
[83] LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: 162.
[84] Stefano Brugnolo, Malo come forma di vita tra passato e futuro, in Tra le parole della «virtù senza nome», cit.: 72.
[85] Ibidem.
[86] Ivi, cit.: 73.
[87] Arturo Tosi, Luigi nel paese delle meraviglie o il diario inglese di Meneghello, in Per Libera nos a malo, cit.: 197.
[88] Domenico Starnone, Il nocciolo solare dell’esperienza, in LUIGI MENEGHELLO, Opere scelte, cit.: XXVI.
[89] Lino Pertile, Da Malo a Menarèo, in Volta la carta la ze finia, Luigi Meneghello, Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi, Prima edizione, («Visioni»), Pavia, Effigie, 2008, cit.: 185.
[90] Nel 1946 avviene uno degli eventi più importanti della sua vita: a metà settembre del 1947, grazie ad una borsa di studio del Britisch Council, Luigi Meneghello parte per l’Inghilterra. La visita avrebbe dovuto durare un solo anno accademico ma la borsa si trasforma in un incarico che prosegue per trentatré anni: durante l’anno accademico 1947-1948 Donald Gordon presenta l’idea di affidare a Meneghello un corso d’insegnamento dell’influenza della letteratura italiana sullo sviluppo della letteratura, dell’arte e della filosofia inglese all’interno del Dipartimento di Inglese all’Università di Reading.
[91] Cesare Segre, L’ora del dialetto, in LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo, con un saggio di Cesare Segre, cit.: VII.
[92] LUCIANO ZAMPESE, La forma dei pensieri, Per leggere Luigi Meneghello, cit.: 134.

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Rabeb Ben Abdennebi, nata in Tunisia, dottoressa in letteratura italiana contemporanea ha ottenuto il master nel 2015 e il dottorato nel 2021 presso la Facoltà delle Lettere e delle Umanistiche della Manouba. All’inizio ha insegnato presso l’Istituto delle Lingua Applicate di Moknine dell’Università di Monastir. Attualmente è docente presso la Manouba.

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