La Regione Emilia Romagna ha presentato a Bologna il 15 dicembre scorso i risultati di una ricerca sui luoghi di culto e le religiosità in un convegno molto apprezzato dai musulmani che, nella discussione di problematiche che li riguardano, in un luogo istituzionale, intravedono un’apertura e un’attenzione anche delle forze politiche e religiose presenti in sala, nei confronti delle loro istanze. Erano presenti fra i relatori, oltre a diversi studiosi, la curia di Bologna nella persona dell’arcivescovo Zuppi e e rappresentanti di alcune comunità islamiche riunite nel CIB, la Comunità Islamica di Bologna.
In regione gli immigrati producono già il 16% del PIL, erano il 13% nel 2013 e secondo alcune proiezioni potrebbe arrivare al 17% nel 2020 con 800mila presenze. Quasi un quarto dei nati in Regione ha entrambi i genitori stranieri. Il multiculturalismo è una realtà costante, mentre si continua a pensare sia emergenziale e non si mettono in atto strategie di integrazione che, oltre ad elementi strutturali come casa, scuole, lavoro e formazione, tengano conto delle variabili culturali e religiose.
I dati numerici forniti sono stati definiti dagli stessi relatori “incerti” per le difficoltà a fare emergere il sommerso sia sulle presenze degli individui che sui luoghi di culto, tuttavia appare molto chiara la realtà regionale. Sono stati censiti i “regolari” cioè i nuovi cittadini, dotati di domicilio, residenza e permesso di soggiorno, facilmente raggiungibili per somministrare loro i questionari. Stessa cosa per i luoghi di culto, alcuni dei quali sconosciuti e realizzati in cantine insane o stanze in appartamenti privati o casolari lontani dai centri urbani. Una mappatura, con dati precisi, non servirebbe molto di più a farci capire il fenomeno che comunque presenta aspetti difficili da gestire, in termini politici.
Infatti riesce ad entrare perfettamente nella contraddizione Stefano Allevi, fra i relatori del convegno, docente di sociologia all’università di Padova , che ha insistito sul fatto che «le cose non sono come ce le raccontano perché mutano in continuazione spingendosi anche verso l’innovazione nonostante i conflitti» e ha aggiunto che «per capire e intervenire correttamente occorre studiare il Mutamento sia della pratica delle religioni, sia della fenomenologia dei migranti. In Europa è presente un Islam di minoranza, che non ha nulla di tradizionale, manifesta soltanto una risposta all’atteggiamento dell’Europa che rifiuta l’Islam. I musulmani sono persone che danno risposte tentando di affermare la loro identità alla quale non sono disposti a rinunciare per un processo di assimilazione». Infatti la stessa velocità con cui si radicalizza il fenomeno ISIS porta alla facile deduzione che non si tratti di un fenomeno religioso ma piuttosto del bisogno individuale e di gruppo di trovare un’appartenenza.
Anche se ritengo il problema più complesso, so che comunque nel nostro Paese l’interlocuzione e il riconoscimento dell’Altro non sono usi ed esperienze normali come si è ancora lontani dal riconoscere un Islam normalizzato, con le sue pratiche e i suoi luoghi di culto. Non ultimo l’accettazione delle modalità della preghiera eseguita dai musulmani, significativa in quanto esercitata in un intimo legame con Dio, momento non formale né folcloristico ma vero. E tale in quanto risponde al bisogno di ogni musulmano di esternare ovvero di ritualizzare la propria religiosità.
È chiaro che nel mutamento possibile e necessario anche le modalità della preghiera dovranno subire una trasformazione. Non è possibile, ad esempio, in fabbrica, interrompere un’assemblea sindacale per la preghiera dei musulmani, penalizzando così la maggioranza alla pausa forzata, come non è ragionevole che in ospedale si preghi con canti ad alta voce in camera in presenza di altri pazienti. Emergono, come è noto, anche fenomeni di non accettazione, nel nostro Paese, di pratiche come l’uccisione del montone per la festa del ringraziamento, restando vincolanti le norme igieniche da osservare in Italia, oltre al rispetto della sensibilità animalista ormai diffusa.
L’uccisione clandestina del montone è vietata come la diffusione e il consumo di carne non sottoposta al controllo dell’ufficio d’igiene.Casi di non osservanza delle norme vengono tuttavia ancora registrati e, lo scorso anno, in Toscana in un condominio, è stata chiamata la polizia perché del sangue di montone ucciso nella vasca da bagno di un appartamento abitato da una famiglia pakistana scorreva giù per le scale e, scambiato per sangue umano, ha fatto pensare subito ad un delitto.
Certo i cambiamenti sono già in atto e altri ne seguiranno come fenomeno interno al processo migratorio ma quello che è certo è che le religioni non tendono a scomparire dalla scena pubblica, come molti pensavano in passato, al contrario mirano a riprendersi lo spazio pubblico, e ciò vale anche per il cattolicesimo visibile nel ruolo molto forte che i suoi rappresentanti ecclesiastici esercitanno in città come Bologna, accanto ad amministrazioni “comuniste”. C’è da augurarsi che il dialogo tra amministratori della città e rappresentanti della Chiesa ufficiale possa contribuire alla risoluzione dei conflitti sociali.
La verità è che le religioni viaggiano assieme alle persone e si trasformano nell’adattamento ai nuovi contesti (fenomeno già studiato in USA ). Si parla oggi di un Islam italiano o europeo, realtà inedite nella tradizione islamica; lo stesso potrebbe dirsi per il cristianesimo ortodosso, il pentecostalismo, il buddhismo, lo sikhismo Vivere fianco a fianco trasforma le mentalità, provoca aggiustamenti e adattamenti nelle abitudini, e induce a pensare come identitaria l’appartenenza religiosa anche in non religiosi, autoctoni e immigrati. Per questi ultimi la religione ha una valenza particolare, è un veicolo di continuità culturale che permette di ricostruire un pezzo di casa lontani da casa, un luogo e un tempo simbolico in cui si parla lo stesso dialetto e si celebrano le stesse feste.
Tutto questo, purtroppo, non significa unità dei musulmani. In anni di lavoro politico e sociale fra i migranti, ho avuto modo di notare differenze notevoli anche nella pratica religiosa, tra arabi marocchini, tunisini, pakistani, albanesi, kossovari, nigeriani o tra uomini e donne. Ciascuno/a si porta dietro la cultura del Paese di provenienza, sicchè si arriva al punto che ogni comunità reclama la sua moschea.
Nella presente fase storica, per motivi diversi, a Bologna e forse nel resto d’Italia, la voce politica più forte è quella marocchina che si esprime a livelli organizzativi omologati a quelli locali. Si manifesta disponibilità a realizzare quanto richiesto dall’amministrazione pubblica, relativamente alla gerarchia nelle moschee, alla trasparenza nella loro gestione e alla visibilità di un interlocutore ufficiale cui fare riferimento, per problemi di regole di convivenza da osservare, di uso del territorio, di garanzia legalitaria, di ordine pubblico, di vigilanza. Tutto in armonia con gli obiettivi enunciati nel programma triennale 2014-2016 dell’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio che riconosce la necessità di spostare l’attenzione dalla politica dei flussi d’ingresso alla qualità dell’integrazione attenta a valorizzare le diversità culturali e a concedere uguali diritti sociali e civili.
Il dibattito sui luoghi di culto, a Bologna, è avviato da anni ma di fatto la situazione, secondo me, è al punto di partenza. Resta sempre insoluto il problema dei finanziamenti e delle rispettive responsabilità. Quale è il compito del Comune e quale quello delle comunità musulmane? Il sindaco di Bologna, stretto dall’assenza di risorse e dall’incalzare dei leghisti in consiglio comunale è stato chiarissimo: «l’amministrazione comunale ha competenze esclusivamente urbanistiche e quelle onorerà». Del resto, considerando l’afflusso del venerdì dei fedeli alle moschee – soltanto alcune centinaia dei 200 mila religiosi in regione nei 180 centri individuati – non sembra un problema prioritario per una maggioranza che vive la propria religiosità nell’intimità della casa, frequentando moschee soltanto saltuariamente. Ne consegue che il problema è culturale-politico, avanzato da una minoranza molto attiva e rumorosa che rivendica in tal modo la presenza dell’Islam sulla scena pubblica, con la richiesta di moschee in luoghi urbani all’interno della cinta muraria della città. Tale questione per i bolognesi, attaccati alla turrita città medievale, diffidenti nei confronti di ogni novità e poco avvezzi ad ogni trasformazione strutturale, sembra destinata all’inasprimento dei conflitti sociali, se non si raggiungerà una ragionevole mediazione.
Sempre stando alla ricerca, anche i dati sull’appartenenza religiosa sono incerti. Si fa riferimento ai numeri forniti da Caritas nel dossier 2011 che parla di 1 milione 400mila musulmani residenti in Italia pari al 2% della popolazione nazionalefra i quali 182.800 in Emilia-Romagna che rappresentano il 13% di quelli abitanti in Italia. La regione è seconda soltanto alla Lombardia per la percentuale di musulmani. Anche tale dato è incerto in quanto non si conoscono i dati dei credenti non praticanti, quanti frequentano i luoghi di culto, elementi conoscitivi che richiedono ricerche approfondite. Dalla ricerca emerge un Islam plurale, frastagliato e articolato secondo le scuole giuridiche islamiche e la provenienza geografica dei musulmani. Marocchini e albanesi a Bologna da oltre un decennio si sono stabilizzati, sono le presenze più rilevanti, mentre quelle del Pakistan e Bangladesh sono quasi triplicate. Altri insediamenti significativi sono quelli provenienti da Tunisia, Egitto, Senegal e Turchia. Il panorama islamico è quindi in evoluzione e pone nuove sfide: Alcuni come i senegalesi sono sottorappresentati nello spazio pubblico rispetto alla componente maghrebina e come le comunità religiose asiatiche, sia per la lontananza geografica, sia per la più recente storia di migrazione, sia anche per certe chiusure di tipo etnico.
Questo aspetto è abbastanza visibile nelle comunità che frequentano il centro interculturale Zonarelli a Bologna, sia per le non-relazioni che stabiliscono con altre associazioni sia per lo studio della lingua madre per i loro figli. Prosperano i corsi di arabo per bambini/e gestiti dalle stesse associazioni, con docenti di madre lingua spesso inviati dal governo marocchino o tunisino, con l’obiettivo di non far perdere il contatto con il Paese dei proprie genitori e soprattutto di favorire l’accesso alla lettura del Corano in arabo. E accade che siano gli stessi genitori a richiedere una metodologia didattica da scuola coranica, un’esperienza che forse dà loro maggiore sicurezza. Altra cosa per i senegalesi che, sempre per riuscire a leggere il Corano in arabo, devono cominciare dalla traduzione nella loro lingua madre che è il wolof. Molti di loro cercano con la scuola di arabo di fare da contrappunto alla scuola pubblica italiana, dove pensano che si insegnino valori contrari all’Islam e temono che i loro figli possano essere contaminati dalla cultura occidentale .
Mi è capitato di incontrare alcuni di tali docenti che potrei definire integralisti, chiusi nella loro famiglia-comunità. Li capisco e temo che soffrano molto anche perché, come mi diceva un’amica da Casablanca, «i nostri figli sono contaminati dalla cultura moderna del consumismo, del facile guadagno dei miti dell’Occidente, prima ancora di venire in Italia… Tutto questo arriva con la tv e la rete». Personalmente penso che molti rischiano la vita per arrivare in Italia soprattutto perché per anni è stato fatto credere loro che nel nostro Paese tutto era facile e possibile e, nonostante l’onda lunga della crisi economica, ritengono sia meglio vivere in Europa. L’Italia per molti, nella fase attuale, è soltanto un luogo di passaggio per altre frontiere. Ecco perché sono in tanti a non farsi identificare e a non volere soggiornare nei luoghi di prima accoglienza e, se possono sfuggire ai controlli, molti hanno indirizzi di amici o luoghi sicuri da raggiungere a Bologna. Oltre la disponibilità di comunità religiose e l’accoglienza del Comune ci sono parenti compiacenti.
La solidarietà fra di loro in tal senso è commovente. Del resto la famiglia è la loro comunità, dove si riconoscono e dove costruiscono la loro identità. Ecco perché i dati raccolti non sono certissimi. C’è una bella confusione comunque, che viene alimentata anche dai fatti di cronaca sul terrorismo islamico e da manovre politiche come fabbriche scientifiche della paura e dell’odio fra i popoli.
In Regione sono stati individuati 176 luoghi di culto di cui 119 in provincia e 56 nelle città: Bologna 14, Ferrara 6, Forlì 4, Modena 5, Parma 5, Piacena 6, Ravenna 4, Reggio E. 6, Rimini 7. A Ravenna esiste l’unica vera moschea inaugurata nel 2015 e costruita con finanziamenti raccolti – secondo i promotori – all’interno della comunità islamica e all’estero. La quasi totalità appartiene alla corrente sunnita maggioritaria dell’Islam, anche se esistono altre correnti come quella di ispirazione sufi a Piacenza chem nata nel 2000 intorno alla figura di Abd al Walid Pallavicini, svolge intensa attività interculturale e interreligiosa. È frequentata da circa 300 persone fra cui molti italiani. A Carpi c’è un’altra comunità sufi e l’unica realtà sciita censita in regione. A Bologna e Ferrara esistono centri Subud, corrente nata in Indonesia, una sorta di misticismo religioso con influenza induiste e buddiste. A San Pietro in Casal è attivo un centro Ahmasiyyat, movimento che venera il fondatore Miza Ghulam Ahmad morto nel 1908, perseguitato in Pakistan e Arabia Saudita. A Parma esiste dal 1986 una sede della religione Baha’i di derivazione islamica ma di fatto autonoma: sembra essere frequentata da circa 400 fedeli, soprattutto italiani. È stata realizzata tra scissioni e polemiche, è ubicata in una zona industriale fuori dal centro urbano vicino alle fabbriche. Tensioni e scissioni sono state anche interne ai fedeli musulmani e non sono mancate le polemiche con le istituzioni e i nativi, i quali, per esempio, non vedono bene minareto e moschea su territorio ravennate, dimenticando, come rinfacciano i musulmani, che Ravenna è di origine bizantina. Ma nel fondo, chi erroneamente è chiamato razzista ha soltanto paura. Non avrebbe la stessa reazione per un luogo frequentato da cinesi o indiani. La diffidenza scatta nei confronti degli arabi-musulmani, dal momento che giovani musulmani sono stati reclutati dall’ISIS proprio in quella zona e si + assistito all’ingerenza di Paesi “sospetti” tra i finanziatori dei luoghi culto.
Comunque la stampa ha svelato: «L’uomo che finanzia le moschee è un principe sceicco del Qatar». Nelle interviste mostra modi impeccabili e sguardo magnetico. Sua Altezza Reale Hamad Bin Nasser Bin Jassim Al Thani, potentissimo e ricchissimo, è al vertice di Qatar Charity, organizzazione no profit che fa opere di bene in tutto il mondo ma è anche «impegnata attivamente nel preservare la cultura islamica attraverso la costruzione di moschee e l’insegnamento del Corano». In Emilia Romagna la onlus qatarina è stata molto generosa, ha donato allo scopo milioni di euro. Ravenna, Mirandola, Piacenza, Ferrara, Argenta: queste sono le tappe conosciute delle elargizioni. Il collettore dei finanziamenti di solito è l’Ucoii, associazione vicina storicamente ai Fratelli musulmani. Tra gli aiuti più impegnativi quello arrivato a Ravenna, 800mila euro in due tranche per realizzare l’unica vera moschea della regione, la seconda d’Italia per grandezza dopo Roma.
Stessi sospetti sulla moschea di Bologna, anche se si parla di volontà dei sauditi e anche qua polemiche che si trascinano da anni e che non sembrano arrivare a conclusione almeno per il momento. I musulmani o almeno il portavoce attivissimo e onnipresente di alcune comunità marocchine reclama una vera moschea e non un luogo di culto adiacente al Centro di cultura islamica, piuttosto isolato rispetto alla città. Il sindaco di Bologna prende tempo, non esclude si possa costruire ma per il momento ci sono altre priorità. La cosa positiva è che con fervente presenza della Chiesta cattolica si è aperto un dialogo fra le parti.
È risaputo che la moschea non è soltanto un luogo di culto, che le sue funzioni sono molteplici mentre è prevalente la funzione politica per la comunità. Non c’è scelta collettiva che non venga decisa in moschea, mentre possono coesistere interventi culturali e sociali assieme alle funzioni ai riti delle festività musulmane. Può essere anche un luogo in cui il musulmano possa riposarsi e stare con se stesso. A Setatt vicino Casablanca ho visto un mio amico andare a fare la doccia in moschea perché l’acqua corrente a casa sua non funzionava. Se una moschea è molto frequentata ed è molto attiva nelle sue funzioni viene sorvegliata da forze di polizia. Ne ho viste tante in Egitto come alla moschea di Bologna, soprattutto nel giorno della preghiera o nelle festività o in momenti di maggiore attività terroristica.
In verità, a Bologna, in moschea ho vissuto situazioni molto tranquille e con uno spiccato senso comunitario. Ho visto partecipare donne musulmane, magari per ricordare qualche sorella venuta a mancare prematuramente, o per vivere momenti conviviali, per festeggiare nascite o matrimoni. Le moschee hanno anche tali funzioni. I luoghi di raccolta per le preghiere vedono l’affluenza soprattutto maschile. Nei Paesi arabi il venerdì gli esercizi commerciali non rimangono chiusi nonostante il giorno sia festivo, ma vengono abbassate le saracinesche soltanto per il tempo della preghiera.
A Bologna, come in tante altre città europee, la costruzione delle moschee viene posta con forza soltanto dai marocchini, che non sono neppure la maggioranza dei musulmani ma hanno più lontane relazioni con il nostro Paese e maggiore consapevolezza politica per imporsi come minoranza. Sono protetti anche sul versante dei finanziamenti, in gran parte sostenuti da lobby di musulmani sia in Italia che all’estero. Chiaramente chi finanzia non ha del tutto un movente religioso, come è stato più volte smascherato impone il suo “imam” di fiducia, che di certo non favorisce l’integrazione dei migranti, ma piuttosto sorveglia e riafferma il valore della tradizione e scoraggia ogni apertura alla cultura occidentale per evitare contaminazioni ideologiche e comportamentali.
Mentre la moschea nuova stenta a venire, prosperano i “luoghi di culto” autoctoni, sfuggono al censimento le decine e decine di allestimenti improvvisati in cantine, garage, condomini o in case private. È questa una pratica seguita dalle donne per diversi motivi legati all’uso dello spazio domestico e alle difficoltà a frequentare i luoghi pubblici, ma in qualunque condominio a mezzogiorno gli uomini si riuniscono anche in una cantina o sotto il porticato per pregare assieme. Vicino casa mia, un quartiere a Bologna con alta percentuale di musulmani marocchini tunisini e pakistani, in un quadrilatero di quattro chilometri circa, sono presenti quattro luoghi di culto, più almeno altri due in condominii e uno in costruzione all’interno di un appartamento comprato dai musulmani che ha scatenato ire, proteste e paure di tutti i condomini. Si è fatto persino ricorso ad una denuncia penale.
Oltre all’auspicio di un più intenso dialogo interculturale, di un avanzamento di un meticciato che pure è visibile, di un augurio ad obiettivi comuni per convivenze pacifiche e culturalmente arricchenti, mi piace concludere con una citazione ricavata da un vecchio numero di Civiltà cattolica del 17 marzo 2001. L’autore è Khalil Samir, un gesuita arabo, nato in Egitto, fondatore e direttore del Centro di documentazione e ricerche arabe cristiane dell’università Saint Joseph di Beirut, dove insegna all’Istituto islamo-cristiano.
«La moschea non è una “chiesa” musulmana, ma un luogo che ha nell’Islàm la sua funzione e le sue norme. Perciò si deve guardare all’Islàm per capire che cosa essa è (…). La moschea (giâmi’) è il luogo dove la comunità si raduna, per esaminare tutto ciò che la riguarda: questioni sociali, culturali, politiche, come anche per pregare; tutte le decisioni della comunità si prendono nella moschea. Voler limitare la moschea a “un luogo di preghiera” è fare violenza alla tradizione musulmana.
Il venerdì (yawm al-giumu’ah) è il giorno in cui la comunità si raduna (come indica il nome giumu’ah). (…).
Nella storia musulmana, quasi tutte le rivoluzioni e i sollevamenti popolari sono partiti dalle moschee. Lo jihâd, cioè “la guerra sul cammino di Dio” (fî sabîl Allâh) che obbliga ogni musulmano a difendere la comunità, è proclamata sempre nella moschea, alla khutbah del venerdì. In alcuni Paesi musulmani, il testo della khutbah dev’essere presentato prima alle autorità civili, visto che gli imâm (che presiedono le riunioni della comunità) sono funzionari statali. La moschea non è dunque solo luogo di culto. È il luogo della politica. (…). Scorretto parlare di libertà religiosa (…), visto che non è semplicemente un luogo religioso, ma una realtà multivalente (religiosa, culturale, sociale, politica ecc.). Non si deve poi dimenticare che il luogo dedicato alla preghiera del venerdì è considerato dai musulmani spazio sacro e rimane per sempre appannaggio della comunità, la quale decide chi ha facoltà di esservi ammesso e chi invece lo profanerebbe. Per questo motivo non si può prestare un terreno per 50 anni, per esempio, per edificarvi una moschea; questo terreno non potrà mai più essere reso. (…) Chi le finanzia? (…) È risaputo che gran parte delle moschee e dei centri islamici in Europa sono finanziati da Governi musulmani, in particolare da quello dell’Arabia Saudita, che perciò ha il diritto di imporre i suoi imâm. Ora, è ben noto che nel mondo islamico sunnita l’Arabia Saudita rappresenta la tendenza più rigida, detta wahhabita (da ‘Abd al-Wahhâb, 1703-92). Non sono quindi questi imâm che potranno aiutare gli emigrati a inserirsi nella società occidentale, né ad assimilare la modernità, condizioni necessarie per una convivenza serena con gli autoctoni.
(…). Non è possibile né giusto impedire ai musulmani di avere luoghi di preghiera in Occidente. Sarebbe probabilmente più adatto al contesto sociologico degli emigrati (che rappresentano la stragrande maggioranza dei musulmani in Italia) avere musallâ, ossia “cappelle”, dove potrebbero ritrovarsi più comodamente per pregare. (…)
La moschea, in quanto centro socio-politico-culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei “luoghi di culto”, non essendo esclusivamente un luogo di preghiera. Alla pubblica amministrazione spetta studiare come esercitare un certo controllo su tali centri, vista la loro funzione politica tradizionale. (…) Tenendo conto della tradizione musulmana multisecolare di non distinguere religione, tradizioni, cultura, vita sociale e politica, sembra importante che i responsabili si informino bene per operare queste distinzioni e siano molto attenti a non incoraggiare la politicizzazione (sotto qualunque forma) dei gruppi di emigrati (musulmani e non musulmani). (…) Nell’autorizzare la costruzione di una moschea è ragionevole tener conto dei cittadini musulmani della zona in questione, per decidere della sua dimensione. Non sembra invece ragionevole tener conto dei non residenti, cioè di chi non ha fatto l’opzione di vivere in questo Paese e di impegnarsi ad assumere tutti gli obblighi che ne derivano, poiché lo scopo ultimo è creare una comunità solidale tra gli italiani e chi è emigrato in Italia».
A volte mi viene da pensare che le osservazioni avanzate da questo esperto islamologo siano onestamente più prudenti e politicamente più ragionevoli di quelle di certi rappresentanti della curia bolognese. Anche alla luce di quanto la cronaca di queste ultime settimane si incarica di ricordarci.
Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim.
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