La globalizzazione religiosa è ormai un fattore strutturale, che con gli immigrati aumenterà anche nel futuro. Prepararsi meglio a questo scenario è fondamentale, combattendo i fanatismi con il dialogo interreligioso da impostare con chiarezza, prudenza, cortesia e fiducia, anche per far dimenticare un passato in cui le religioni sono state spesso motivo di contrapposizione all’interno delle diverse società. In queste riflessioni farò riferimento ai rapporti sulle multireligiosità pubblicati negli ultimi cinque anni dal Dossier Statistico Immigrazione, traendone ispirazione non solo per quanto riguarda gli aspetti statistici della questione.
Secondo L’Ecri (European Commission on Racime and Intolerance, costituito nell’ambito del Consiglio d’Europa) le comunità più esposte a discorsi e atti d’odio sono quelle musulmane ed ebraiche [1]. In seguito alla cosiddetta “primavera araba”, l’esplosione del terrorismo jihadista nelle sue forme più sanguinose ha fortemente incrementato l’avversione nei confronti di questa religione. Anche se non sempre lo si dice espressamente, l’opposizione all’Islam è motivata anche dalla paura che questa comunità diventi maggioritaria in Occidente. Secondo la stima del Dossier Statistico Immigrazione essi sono attualmente circa un terzo dei 5 milioni di residenti stranieri, una presenza consistente ma ben al di sotto delle cifre immaginate. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, inoltre, ha precisato che le restrizioni consentite nei confronti di una confessione religiosa sono solo quelle intese a garantire la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute e della morale pubblica, come anche la protezione dei diritti e della libertà altrui.
In Italia i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose si fondano largamente su accordi bilaterali: la Costituzione recepisce, all’art. 7, i Patti Lateranensi per il regolamento del rapporto tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, mentre il 3° comma dell’art. 8 prevede di regolare le relazioni con le confessioni acattoliche attraverso Intese, vale a dire accordi pattizi da tradurre in leggi statali. Con la comunità islamica non è stato finora possibile attuare un’Intesa. In prospettiva, come obiettivo finora non raggiunto si impone una regolamentazione soddisfacente delle questioni pendenti e a tal fine è stata ipotizzata l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa, motivata dalla convinzione che le società europee possano venire arricchite dalla piena accettazione delle diverse religioni.
La crescente dissociazione dal terrorismo islamico
Si pone attualmente con maggiore urgenza il problema di far conoscere il vero volto dell’Islam, che, già poco conosciuto a livello di opinione pubblica, è andato deteriorandosi dall’inizio del secolo a seguito di un crescendo di atti terroristici, che pretendono basarsi su quella religione. I terroristi, che sono stati gli artefici dei numerosi attentati terroristici in Francia e in altri Paesi europei, sono usualmente persone che bevono alcol, fanno uso di sostanze stupefacenti, non si comportano con le donne secondo i precetti del Corano, non pregano e sono sempre più invisi all’Islam ufficiale e a quello della gente comune. Le loro motivazioni religiose non sono per niente credibili, come denunciato con forza da autorevoli esponenti dell’Islam, perché «Chi sparge il sangue e terrorizza persone pacifiche è maledetto in questo mondo e nell’aldilà. Non vi è altra via che collaborare insieme a tutti i livelli per far fronte a quella ideologia estremista che sta minacciando tutto il mondo» [2].
In Francia, l’imam del posto ha negato la sepoltura islamica all’attentatore di Rouen, di cui nel 2016 è stato vittima un anziano sacerdote che celebrava messa insieme a qualche fedele che vi assisteva. Inoltre, il Consiglio islamico francese ha invitato i musulmani a recarsi a pregare, domenica 31 luglio, nelle parrocchie francesi. Questo appello è stato fatto anche in Italia dalle organizzazioni cui fanno capo le moschee. Il messaggio è stato innovativo e di inaudita portata, perché in pratica fa mancare il fondamento teologico al termine “infedeli” utilizzato tradizionalmente nei confronti dei cristiani [3]. Secondo stime, sono stati 23mila i musulmani recatisi in Italia a pregare nelle chiese e subito dopo la Comunità araba in Italia (Comai) ha lanciato un messaggio ai cristiani a recarsi nelle moschee, nella giornata dell’11 settembre 2016, per pregare con i musulmani, nell’ottica di un riconoscimento reciproco della pari dignità di queste religioni [4].
Molti politologi e opinionisti, come anche vari rappresentanti della cristianità (a partire da Papa Francesco), hanno sottolineato che la pretesa guerra di religione è un non senso e una vera e propria bestemmia perché invoca Dio a sostegno dei misfatti commessi e favorisce la strumentalizzazione delle situazioni di disagio sociale portate avanti dalle organizzazioni terroristiche, interessate a boicottare le prospettive di convivenza.
Se il terrorismo dei musulmani deve essere equiparato a una eresia rispetto all’Islam autentico, questa dissociazione va maggiormente sottolineata da parte dei leader musulmani, creando terra bruciata attorno ai terroristi, sottolineando che la sharî‘a interpretata dai fondamentalisti ha poco da spartire con il vero significato del termine (impegno per un miglioramento). Questo messaggio va proclamato in maniera più corale da parte dei responsabili delle associazioni e dei leader religiosi della comunità musulmana e, in questo modo, si influirà non solo sulla popolazione immigrata ma anche sui Paesi di origine, favorendo posizioni più aperte e un’attuazione più piena del principio della libertà religiosa.
Una faticosa storia protrattasi per secoli e contrassegnata anche dalle “guerre di religione”, fin dall’inizio influenzate anche da fattori politici e culturali, si è conclusa con l’affermazione dello Stato laico, concepito come il “contenitore” più adeguato ad accogliere le diversità religiose. Il modello di una società laica va presentato ai musulmani e ai fedeli delle altre religioni non come l’equivalente del laicismo e spiegato nella sua dimensione positiva di apertura a tutte le fedi, nell’uniformità dei diritti e dei doveri. Nell’ambito di questa “laicità”, lontana dal “laicismo” e dal “clericalismo”, si potranno attuare più compiutamente i princìpi costituzionali in materia di libertà religiosa. Il concetto di laicità, correttamente inteso, ci aiuta a entrar enel merito di qualcune questioni giuridiche.
La poligamia in rapporto al ricongiungimento familiare
I principali punti di divergenza della tradizione islamica con la cultura giuridica europea appaiono connessi, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, all’istituto della poligamia o meglio al matrimonio monandrico poliginico simultaneo [5]. Al riguardo, la direttiva 2003/86 CE dispone all’art.4 comma 4 che: «In caso di matrimonio poligamo, se il soggiornante ha già un coniuge convivente sul territorio di uno Stato membro, il medesimo interessato non autorizza il ricongiungimento familiare di un altro coniuge».
L’Italia ad oggi non ha ancora previsto una specifica disciplina dell’immigrazione di famiglie poligamiche, né si è avvalsa, in occasione dell’attuazione della direttiva sopracitata (decreto legislativo 8 gennaio 2007 n.5), della facoltà di limitare espressamente il ricongiungimento dei figli nati da mogli diverse dalla convivente del soggiornante in Italia. Nonostante la diversa percezione sociale, il fenomeno migratorio di nuclei familiari poligami risulta finora poco presente nelle aule dei tribunali, ma il limitato numero di casi finora occorsi dimostra che in genere viene negato il permesso di soggiorno per le comogli [6].
Un’altra questione giuridica interessante è quella affrontata dalla Corte d’Appello di Milano nel 2003, relativa al ricongiungimento della seconda moglie di un pakistano. Secondo il giudice d’appello, «l’esigenza di consentire il ricongiungimento di coniugi stranieri in Italia non può prescindere dall’accertata sussistenza di un vincolo che, al di là della sua certificazione per via documentale, riveste le connotazioni di un’unione matrimoniale stabile ed in concreto contraddistinta da reciproca solidarietà affettiva e materiale». Quattro anni più tardi, la giurisprudenza di merito [7] in una situazione similare ha annullato il provvedimento con cui l’Ambasciata italiana in Pakistan aveva negato il visto di ingresso in Italia alla donna sposata per telefono da un connazionale residente in Italia. Infatti, essendo validamente celebrato per la legge pakistana (legge nazionale comune dei coniugi quale la legge del luogo di celebrazione), il matrimonio è stato giudicato formalmente valido e dunque titolo per il ricongiungimento familiare.
Problemi incontrati dagli Ufficiali dello Stato Civile
In materia di trascrizione di matrimoni celebrati all’estero secondo il rito islamico da cittadini italiani, o da un/una cittadino/a italiano/a e una/un cittadina/o straniera/o il Ministero dell’interno ha emanato una circolare in cui è prevista la trascrivibilità del «primo matrimonio celebrato secondo il rito islamico tra un cittadino italiano e un cittadino di religione islamica» [8]. Inoltre, nel 2007 [9] ancora una circolare del Ministero dell’interno ha imposto agli Ufficiali dello stato civile di non tener conto della condizione relativa alla fede islamica eventualmente contenuta nel nulla osta al matrimonio (in conformità al dettato costituzionale che prevede la libertà di fede religiosa e non pone alcuna limitazione all’istituto del matrimonio) per la celebrazione del matrimonio.
Il riconoscimento della filiazione naturale
Un problema che il giudice italiano si troverà ad affrontare con una certa frequenza è quello della nascita di figli, fuori dal matrimonio, da genitori uno italiano e l’altro cittadino di uno Stato islamico. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 8 marzo 1999, n.1951, ha deciso in merito all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità avanzata da una donna marocchina nei confronti di un italiano. Ebbene, stante il richiamo alle leggi nazionali riguardanti il padre (legge italiana) e il figlio (legge marocchina), in forza dell’allora vigente art.17 delle Disposizioni procedurali del Codice civile, è il diritto italiano a doversi applicare in via esclusiva in virtù del limite dell’ordine pubblico. Nel caso di specie, la normativa marocchina non può trovare applicazione, poiché non riconosce la filiazione naturale, salvaguardata dal nostro ordinamento e dal diritto internazionale italiano. In definitiva, l’ordinamento riconnette al fatto della procreazione la posizione di figlio e il relativo status a tutela di una fondamentale esigenza della persona, dalla quale deriva il diritto all’affermazione pubblica di tale posizione.
Il riconoscimento della kafalah nell’ordinamento italiano
Nell’ambito del sistema giuridico islamico, il diritto di famiglia costituisce uno dei punti principali della legge di derivazione islamica. La disciplina sciaraitica che regola l’istituto familiare si basa su un nucleo di valori e regole giuridiche comuni che il Corano considera intangibili e immutabili. L’obiettivo è quello di promuovere la posizione dei componenti più deboli della famiglia, come la donna e il bambino, ed equiparare i diritti e i doveri dei coniugi.
Le norme sciaraitiche sono state riformulate e recepite nei codici di diritto di famiglia nei Paesi musulmani, con la denominazione “statuto personale”. I codici di statuto personale dei Paesi del Maghreb sono ambivalenti rispetto all’eguaglianza dei diritti della donna: da un lato, derivano dalla legislazione positiva che introduce cambiamenti che vanno nel senso dell’eguaglianza e, dall’altro, dal diritto religioso islamico, che ribadisce la disuguaglianza della donna. In particolare, negli ordinamenti islamici sussiste il divieto di qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio, di conseguenza i figli naturali e quelli adottati non possono essere considerati “veri figli” (Sura 33, versetto 4) [10] e, tuttavia, vi è il dovere di fratellanza e solidarietà, richiamato dal Corano (vers. 5) [11], che riguarda i minori illegittimi, orfani o comunque abbandonati, attraverso l’unico strumento di tutela e protezione dell’infanzia previsto, definito kafalah.
La kafalah è un istituto a protezione del minore espressamente riconosciuto dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (art. 20 comma 3), equiparato alle misure “occidentali” di protezione dei minori dalla Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996 in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori (art. 3 lett.e). Il Marocco ha firmato il testo lo stesso giorno della sua adozione, ratificandolo successivamente il 22 agosto 2002. Questo istituto prevede che il minore, per il quale non sia possibile attribuire la custodia e assistenza (hadana) nell’ambito della propria famiglia (legittima), può essere accolto da due coniugi o anche da un singolo affidatario (kafil), che si impegnano a mantenerlo, educarlo ed istruirlo come se fosse un figlio proprio fino alla maggiore età, senza però che l’affidato (makful) entri a far parte, giuridicamente, della famiglia che così lo accoglie.
Ogni singolo Paese musulmano ha disciplinato, in maniera più o meno dettagliata, la kafalah che può essere “giudiziaria” o “notarile” (Cassazione, sezione I civile, sentenza n. 7472 del 20 marzo 2008). La prassi vuole che nel caso di minori abbandonati, orfani, figli di genitori ignoti o incapaci, essa sia preferibilmente giudiziaria. Nell’ipotesi di minori non abbandonati e di filiazione nota, invece, sono due notai (adoul) a redigere l’atto ufficiale con il quale i familiari prendono in custodia il figlio di un componente familiare, ovvero una coppia accoglie il figlio di una madre “sola”.
L’assenza della disciplina dell’assistenza legale tramite kafalah o istituti similari nell’ordinamento italiano, che allo stato non conosce forme di affidamento destinate a protrarsi fino al raggiungimento della maggiore età del minore, ha indotto ad adottare norme disciplinanti per consentire alle competenti autorità italiane di approvare il collocamento o l’assistenza (qualora questi vengano prospettati da parte delle autorità di un altro Stato) di un minore in Italia in una famiglia di accoglienza (o in un istituto), ovvero la sua assistenza legale tramite kafalah o istituto analogo [12]. La prassi giurisdizionale al riguardo comincia ad essere ricorrente e attiene nella maggior parte delle ipotesi a provvedimenti del Regno del Marocco [13].
La problematica affrontata dall’organo giurisdizionale riguarda il riconoscimento della kafalah sia come motivo di ricongiungimento familiare, sia come adozione o affidamento preadottivo ad opera di coniugi italiani [14]. In particolare, il giudice di legittimità e quello di merito hanno più volte deciso casi in tema di kafalah, seguendo un orientamento di totale ammissione o negazione dell’istituto. Le principali problematiche nel diritto italiano sono rappresentate:
- dal divieto di adozione nel diritto islamico e dalla proibizione del riconoscimento di effetti legittimanti;
- dalla differenziazione tra una forma giudiziale (ammissibile ex art 64 della legge 218/95, Titolo IV. Efficacia di sentenze ed atti stranieri – Riconoscimento di sentenze straniere, art.730 c.p.) e una forma convenzionale/notarile;
- dalla diversa interpretazione della legge 182/2002, che disciplina il ricongiungimento familiare, perché, secondo un certo orientamento, i minori affidati o sotto tutela sono equiparati ai figli legittimi.
Al riguardo, due pronunce della Corte di Cassazione (7472/2008 e 19734/2008) hanno stabilito che la kafalah crea un vincolo rilevante ai fini del ricongiungimento. Per converso, la Corte di Cassazione, con la sentenza 4868/2010 (di orientamento contrario) ha respinto l’istanza di un cittadino italiano di origini marocchine volta ad ottenere il visto per ricongiungimento familiare a favore di un minore marocchino, che gli era stato affidato dai suoi genitori secondo l’istituto della kafalah sulla base della decisione di un tribunale marocchino. In particolare, secondo il giudice di legittimità non possono ritenersi familiari ai sensi del decreto legislativo 30/2007 i minori stranieri di Paesi terzi semplicemente affidati al di fuori di un procedimento di adozione internazionale, categoria alla quale però possono ritenersi assimilati i minori oggetto dell’istituto di diritto islamico della kafalah, secondo un indirizzo consolidato della stessa Cassazione (sentenze 21395/05, 7472/2008, e 18174/2008).
Secondo tale pronuncia non sussiste un profilo di irragionevole disparità di trattamento nel fatto che un cittadino di Paese terzo può avvalersi del ricongiungimento familiare con un minore affidatogli secondo l’istituto della kafalah, mentre ciò non può aver luogo per il cittadino italiano o comunitario, in quanto nel secondo caso il cittadino italiano può assicurare l’inserimento nella propria famiglia del minore in stato di abbandono mediante il procedimento di adozione internazionale, secondo quanto previsto dalla legge 184/1983 e successive modifiche. La kafalah, dunque, può essere titolo idoneo per il ricongiungimento familiare per i cittadini stranieri ai sensi dell’art. 29 del Testo Unico sull’Immigrazione e non per i cittadini italiani.
Al contrario, il costante orientamento giurisprudenziale osserva che «I bambini in affidamento e i genitori affidatari con custodia temporanea possono godere dei diritti conferiti dalla direttiva Direttiva 2004/38/CE in funzione della solidità del legame instaurato nel caso particolare». Una diversa interpretazione del sopra citato articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 30/2007 contrasterebbe con l’articolo 3 della Costituzione (disparità di trattamento tra minori ed affidatari) e con il principio di prevalenza dell’interesse del minore contenuto nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 (reso esecutivo con legge 27 maggio 1991, n.1766). Tale principio è contenuto anche nell’art.28 del decreto legislativo 286/1998, comma 3, il quale prevede, anche in materia di immigrazione, che nell’applicazione di tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali, finalizzati a dare attuazione all’unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo.
La Corte di Cassazione a Sezioni unite, con la sentenza 21108/2013 depositata il 16 settembre, ha riesaminato quanto enunciato nelle precedenti pronunce (7472/2008, 18174/2008, 19734/2008 e 1908/2010) e ha rilevato che non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore cittadino non comunitario affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito. La Suprema Corte, sulla base dell’interesse superiore del fanciullo contenuto nella Convenzione di New York, ha rilevato la conformità all’ordine pubblico (interno e internazionale) della kafalah e la sua efficacia automatica in Italia in base all’art. 66 della legge 218/1995.
La qualificazione della kafalah (da parte di cittadini marocchini nei confronti di minori in stato di necessità) potrebbe determinare per i giudici un conflitto. In particolare, l’organo giudicante si troverebbe innanzi alla scelta di applicare la normativa sull’adozione (disciplinata dall’art. 38 della legge 218/1995) o quella relativa alla protezione dei minori (disciplinata dall’art. 42 della medesima legge) [15]. Di recente, il giudice amministrativo, in relazione all’istanza per convertire il permesso di soggiorno per minore età in permesso per motivi di lavoro, ha osservato che: «è illegittimo il diniego opposto avverso l’istanza di conversione del permesso di soggiorno, già rilasciato per minore età, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, motivato con riferimento al mancato inserimento del richiedente in un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un Ente pubblico o privato per come richiesto dall’art. 32, comma 1-bis, D.Lgs. n. 286/1998, allorquando lo stesso sia giunto sul territorio nazionale dopo essere stato affidato dai genitori allo zio con uno specifico istituto del diritto islamico, la kafala» [16]. Sul punto il Tribunale di Bergamo con sentenza del 20 gennaio 2017 ha osservato che una lavoratrice affidataria del minore in kafalah ha diritto alle prestazioni previdenziali, di cui all’art. 26 Dlgs 151/01, nel caso di specie congedo di maternità, poiché l’equiparazione tra kafalah e affido di diritto nazionale determina una equiparazione anche nel trattamento previdenziale. La preoccupazione a livello nazionale è che la kafalah possa essere usata quale strumento per aggirare i limiti all’ingresso nel territorio nazionale di minori ormai prossimi alla maggiore età, affidati a un cittadino italiano attraverso procedure sulle quali non esistono sufficienti controlli nel nostro ordinamento nazionale.
Per completezza espositiva si rappresenta che con la legge 8 giugno 2015, n. 10 è stata ratificata la Convenzione dell’Aja del 19 ottobre 1996, per la protezione dei minori stranieri. La normativa entrata in vigore dal 1 gennaio 2016 pone numerose questioni in relazione alla sua applicazione, soprattutto per ciò che concerne l’istituto della kafalah. L’Italia ha ratificato la Convenzione con un ritardo di più di cinque anni oltre il termine stabilito (5 giugno 2010), la decisione del Consiglio dell’Unione Europea n.2008/431/CE, rinviando al testo della stessa per la definizione [17] degli aspetti procedurali.
In particolare, sussistono alcune importanti questioni da affrontare: la prima questione riguarda le consultazioni delle autorità estere con l’autorità italiana per l’inserimento dei minori presenti sul territorio nazionale, all’interno di una famiglia o struttura di accoglienza al fine di garantire un riconoscimento uniforme in tutti gli Stati. L’autorità estera non può emanare, quindi, provvedimenti non riconoscibili nel Paese di nuova desti- nazione del minore, ai sensi dell’art.33 della Convenzione, se non ha avviato le consultazioni con l’autorità italiana. Un’altra importante questione è il mutamento della competenza alle autorità di “nuova residenza abituale” del minore dopo un anno (si vedano in proposito gli articoli 5 [18] e 33 [19] della legge 18 giugno 2015 n.101. Di conseguenza, sarà compito del legislatore risolvere tali problematiche in conformità alla normativa nazionale a protezione dei minori (legge 184/1993), al fine di assicurare il superiore interesse del minore, così come statuito dalla convenzione dei diritti del fanciullo.
Infatti, la kafalah, pur mostrando talune similitudini sia con l’adozione che con l’affidamento e la tutela, non può ovviamente essere identificata con nessuno di questi istituti giuridici, a causa della esclusione (ad essa connaturata) del sorgere di qualsiasi rapporto di filiazione, nonché del carattere (altrettanto immanente) di continuità (ma non di definitività) nella protezione del minore (ossia, fino al raggiungimento della maggiore età).
Il principio richiamato dalla Suprema Corte di Cassazione delinea il percorso da seguire e, nel bilanciamento degli interessi, la «prevalenza del valore di protezione del minore, anche in relazione al minore straniero, rispetto a quelli di difesa del territorio e contenimento dell’immigrazione». In sintesi, ai fini del ricongiungimento familiare non si deve escludere la kafalah (seppure a seguito degli opportuni accertamenti) in quanto tale esclusione «penalizzerebbe tutti i minori di Paesi arabi illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono» per i quali essa è «l’unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici».
Il matrimonio per procura
Se uno dei due nubendi [20] risiede in Italia e l’altro all’estero, in casi particolari è anche consentito sposarsi per procura, vale a dire in assenza di una delle due persone che avrà autorizzato qualcun altro alla celebrazione del matrimonio in proprio nome e per proprio conto. L’istituto del matrimonio per procura è disciplinato dall’art. 144 del codice civile. Più precisamente, il secondo comma del citato articolo prevede che «la celebrazione del matrimonio per procura può anche farsi se uno degli sposi risiede all’estero e concorrono gravi motivi da valutarsi dal tribunale nella cui circoscrizione risiede l’altro sposo. L’autorizzazione è concessa con decreto non impugnabile emesso in Camera di Consiglio, sentito il pubblico ministero». La norma deve essere letta in combinato disposto con l’art. 14, primo e secondo comma, delle legge Consolare (D.P.R. 5.1.1967 n.200), secondo cui «Il capo dell’ufficio consolare celebra il matrimonio per procura quando uno dei due promessi sposi (o nubendi secondo il termine giuridico) risieda fuori dello Stato in cui ha sede l’ufficio consolare».
In particolare, l’art. 111 del codice civile prevede che se uno degli sposi risiede all’estero e concorrono gravi motivi, si può chiedere l’autorizzazione al matrimonio per procura al Tribunale, che valuterà la sussistenza dei gravi motivi. Il termine “gravi motivi” é molto generico per cui l’ottenimento o meno dell’autorizzazione dipende, caso per caso, dalla situazione portata all’attenzione del giudice. La procura dovrà contenere l’indicazione della persona con la quale il matrimonio si deve celebrare, dovrà essere fatta per atto pubblico e avrà una validità massima di 180 giorni dal rilascio.
Ciò posto, la questione che si pone è come può essere celebrato il matrimonio per procura quando il nubendo cittadino straniero, titolare dello status di protezione internazionale, risieda in Italia e la nubenda nel Paese di origine. Il nubendo cittadino straniero, in possesso di status di rifugiato politico, deve adire il Tribunale nella cui circoscrizione risiede il cittadino rifugiato politico, al fine di richiedere l’accertamento dei gravi motivi di cui al secondo comma dell’art. 144 del codice civile. I gravi motivi, ovviamente, sono rappresentati da un pericolo già accertato – poiché trattasi di rifugiato riconosciuto come tale ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 – di persecuzione nel caso di rientro in patria. Successivamente, dopo l’autorizzazione del Tribunale, va seguito l’iter normativo per la celebrazione del matrimonio, mediante procura, in Italia.
La nubenda, invece, deve farsi rilasciare una procura, per atto pubblico, a contrarre matrimonio con una persona precisamente determinata. La procura può essere ricevuta direttamente dalla cancelleria dell’ufficio consolare italiano, che collabora con le autorità italiane anche ai fini degli adempimenti connessi alle pubblicazioni del matrimonio, da effettuarsi anche nella circoscrizione consolare. Inoltre, la futura sposa deve farsi rilasciare dalla autorità nazionale del suo Paese tutti i documenti necessari per la celebrazione del matrimonio: oltre al passaporto, servono due certificati, il nulla-osta al matrimonio (certificato in base al quale le autorità locali competenti attestano che non vi sono impedimenti al matrimonio) e il certificato di nascita, che dovranno poi necessariamente essere legalizzati, così come previsto dall’art. 2, comma 2, Regolamento d’attuazione del Decreto del Presidente della Repubblica 394/99, presso l’ufficio consolare italiano del Paese di residenza della nubenda.
Accordo di separazione o divorzio
Un’altra questione, affrontata di recente, è se sia o non ammessa, ai fini dell’art. 12 del decreto legge 132/2014, la procura speciale per perfezionare, davanti all’ufficiale di Stato Civile, un accordo di separazione o divorzio. Più precisamente l’art. 12 del citato decreto, al comma 2, prevede espressamente che l’Ufficiale dello Stato Civile riceva la dichiarazione di volontà «da ciascuna delle parti personalmente». Il giudice di merito ha osservato recentemente al riguardo che è possibile contrarre matrimonio anche a mezzo di procura speciale, nel caso in cui uno dei nubendi risieda all’estero (art. 111, comma II, codice civile.) e la procedura giurisdizionale di scioglimento del vincolo matrimoniale ammette la rappresentanza (art. 4 legge. 898/1970). A tal proposito il costante orientamento giurisprudenziale osserva che è consentita la comparizione personale nel divorzio mediante la rappresentanza di un procuratore speciale, poiché la norma parla di comparizione personale salvo il caso di gravi e comprovati motivi [21].
Una riflessione conclusiva
Da quanto sopra esposto emergono in tutta evidenza alcune difficoltà di natura giuridica che si pongono per quanto riguarda l’integrazione della comunità islamica in Italia. Il ricorso agli strumenti giuridici «generali», ossia al sistema di diritto internazionale privato (legge 218/1995), si rivela talvolta insufficiente: in particolare la valvola di sicurezza rappresentata dal limite dell’ordine pubblico, limite per sua natura indeterminato, e rimesso alla discrezionalità del singolo operatore giuridico (giudice civile o amministrativo, ufficiale dello stato civile, ecc.) con il rischio di determinare una difesa a oltranza del nostro ordinamento. Di conseguenza, appare opportuno predisporre strumenti giuridici «speciali», cioè norme ad hoc.
Vi è chi ha pensato a leggi speciali sul modello dell’inglese Matrimonial Proceedings Act (Polygamous Marriages) del 1972, per rispondere in maniera esauriente alle disposizioni di raccordo tra sistemi giuridici diversi e alla negoziazione di trattati bilaterali con i Paesi islamici di provenienza degli immigrati in Italia (in primis con il Marocco), sull’esempio della convenzione franco-marocchina del 1981 sullo statuto delle persone e della famiglia, e in materia di cooperazione giudiziaria) [22]. Altri insistono sulla esigenza di salvaguardare il contesto unitario di diritti e doveri.
Infine, sembra necessaria una intesa con la comunità islamica presente sul territorio nazionale, al fine di poter favorire una maggiore integrazione dei musulmani in Italia, superando gli ostacoli giuridici finora incontrati, che troverebbe una più facile composizione, come da diverse parti auspicato, nell’ambito di una legge generale sulla libertà religiosa o, quanto meno, nella stipula di un’intesa con lo Stato italiano alla pari di altre comunità religiose non cattoliche.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] cfr. Le Monde, 6/1/2015.
[2] Sheik Shawki Al Allam, Gran Mufti d’Egitto, Il Messaggero, 27 luglio 2016: 4: http://www.ilmessaggero.it/primpiano/esteri/rouen_terrorismo_imam_cairo_islam-1879976.html.
[3] cfr. le riflessioni del Vice Ministro Maeci, Mario Giro, “La preghiera con i fratelli ‘infedeli’, ”http://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/interviste/2016/08/giro-la-preghiera-con-i-fratelli.html).
[4] “L’invito ai cristiani italiani: in moschea l’11 settembre”, Il Messaggero, 18 agosto 2016: 6; cfr. anche http://www.corrierequotidiano.it/1.51170/sociale/news/appello-al-papa-dalle-co-mai-cristiani-moschea.
[5] «Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo sarà più atto a non farvi deviare» (Corano, Sura IV, 3). Tutte le citazioni del Corano sono tratte dall’edizione curata da A. Bausani e pubblicata nella Biblioeca Universale Rizzoli, 1998.
[6] TAR Emilia Romagna ordinanza del 10 gennaio 1989; cfr. Cristina Campiglio “Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana”, in Rivista di Diritto Internazionale Privato e Processuale, anno XLIV n.1, Gennaio- Marzo 2008, Edizioni Cedam Padova 2008: 54 e ss.
[7] Tribunale di Milano sentenza 2 febbraio 2007, Cristina Campiglio, cit.: 54.
[8] Circolare Ministero dell’Interno 26 marzo 2001.
[9] Circolare Ministero dell’Interno n.46 dell’11settembre 2007.
[10] “La sura delle Fazioni alleate”, rivelata dopo la Sura della Famiglia di ‘ Imrān XXXIII vers. 4, «Dio non ha posto nelle viscere dell’uomo due ‘cuori, né ha fatto delle mogli vostre che voi ripudiate col zihār, delle madri, né dei vostri figli adottivi dei veri figli. Questo lo dite voi con la vostra bocca, ma Dio dice la Verità e guida sulla Via!» in Il Corano, Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1998.
[11] “La sura delle Fazioni alleate”, rivelata dopo la Sura della Famiglia di ‘ Imrān XXXIII «Chiamate i vostri figli adottivi dal nome dei loro veri padri: questo è più equo agli occhi di Dio. E se non conoscete i loro padri, siano essi vostri fratelli nella religione e vostri protetti. E non vi saranno imputati a peccato gli errori che ignari abbiate commesso a questo riguardo, ma solo quel che intenzionalmente avran voluto i vostri cuori. E Dio è indulgente clemente! », in Il Corano cit.
[12] Atti parlamentari – Camera dei Deputati — 1589 XVII Legislatura — Disegni di legge e relazioni.
[13] Loi n°15-01 relative à la prise en charge (la kafalah) des enfants abandonnés. La kafalah è definita in 32 articoli nel Dahir 1-02-172 del 13 giugno 2002 del Regno del Marocco.
[14] Papa M., “Introduzione”, in Aluffi Beck Peccoz R., Persone famiglia diritti. riforme legislative nell’Africa Mediterranea, con appendice legislativa, – Atti del convegno 26 maggio 2006 – Torino, G. Giappichelli, 2006: VIII-268; Rivista di diritto internazionale – Volume XCIV, 2011, fasc. 4, pubblicazione trimestrale Editore Giuffrè :1063 e ss., Papa, M. (2008), Francesco Castro e l’integrazione dei musulmani in Italia, in Roberta Aluffi Beck-Peccoz (a cura di), Identità religiosa e integrazione dei musulmani in Italia e in Europa: omaggio alla memoria di Francesco Castro: 1-9, Torino, Giappichelli.
[15] Cristina Campiglio, Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, in “Rivista di diritto internazionale privato e processuale”, Anno XLIV, n.1, gennaio-marzo 2008, Edizioni Cedam Padova 2008: 43.76; http://www.ca.milano.giustizia.it/ArchivioPubblico/B_144.pdf
[16] T.A.R. Piemonte, Sez. I, 3 marzo 2016, n. 281, http.
[17] http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2015-06-18;101.
[18] Legge 18 giugno 2015, n. 101, Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilita’ genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996 (15G00112), pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.157 del 9 settembre 2015e in vigore 10/07/2015. Articolo 5. 1, della Convezione: «Le autorità, sia giudiziarie che amministrative, dello Stato contraente di residenza abituale del minore sono competenti ad adottare misure tendenti alla protezione della sua persona o dei suoi beni». Articolo 2: «Fatto salvo l’art. 7, in caso di trasferimento della residenza abituale del minore in un altro Stato contraente, sono competenti le autorità dello Stato della nuova residenza».
[19] Legge 18 giugno 2015, n. 101, Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilita’ genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996. (GU n.157 del 9-7-2015 ), in vigore 10/07/2015. Art.33: «Quando l’autorità competente ai sensi degli articoli da 5 a 10 prospetta il collocamento del minore in una famiglia di accoglienza o in un istituto, o la sua assistenza legale tramite kafala o istituto analogo, e quando tale collocamento o assistenza deve avvenire in un altro Stato contraente, essa consulta preliminarmente l’Autorità centrale o un’altra autorità competente di quest’ultimo Stato. A tal fine le comunica un rapporto sul minore e i motivi della sua proposta di collocamento o assistenza. 2. La decisione sul collocamento o l’assistenza può essere presa nello Stato richiedente solo se l’Autorità centrale o un’altra autorità competente dello Stato richiesto ha approvato tale collocamento o assistenza, tenuto conto del superiore interesse del minore».
[20] http://www.meltingpot.org/Matrimonio-per-procura-come-fare.html#.V7SEUluLS1s.
[21] http://www.altalex.com/documents/news/2016/02/29/divorzio-sindaco-procura-speciale.
[22] Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana cit: 75.
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Paolo Iafrate, ha conseguito il dottorato presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata in Sistema Giuridico Romanistico ed Unificazione del Diritto – indirizzo Diritto Musulmano e dei Paesi Islamici. Si occupa delle problematiche di diritto penale e diritto dell’immigrazione, sia come ricercatore che come avvocato. Numerosi sono i suoi contributi sulle denunce presentate contro i cittadini stranieri e sulla metodologia da seguire per pervenire a una loro retta interpretazione. È attivamente impegnato, quale componente del Consiglio Scientifico presso il Centro Ricerche Economiche e Giuridiche (CREG), nonchè in qualità di docente e componente del comitato scientifico all’interno del Master in Economia Diritto e Intercultura delle Migrazioni (MEDIM) presso l’Università di Tor Vergata.
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