A cosa serve nel 2019 un libro come quello appena uscito dell’islamista Paolo Branca, Il testo sacro dei musulmani. Piccola antologia coranica (Carocci editore, Roma, 2019)? Si tratta di una breve antologia sul Corano e sulle principali consuetudini e princìpi della comunità islamica che trovano fondamento nella Sunna e negli hadith del Profeta Muhammad. Il saggio, di carattere divulgativo pur conservando un linguaggio specifico e appropriato proprio di chi, come Branca, è da anni un riferimento in questo campo, si divide in sintetici capitoli all’interno dei quali lo studioso compie un excursus sui punti fondanti del pensiero e della pratica musulmana, introducendo a ciò che può essere definito genericamente “Islam”.
Come mi dirà lo stesso Branca durante l’intervista svolta in un caffè milanese qualche giorno dopo la pubblicazione del libro, questo «può esser utile a chi non voglia semplicemente rimanere nella propria ignoranza e restare legato a dei pregiudizi»
L’autore apre lo scritto con alcune considerazioni di più ampio respiro, invitando il lettore a ragionare sul fenomeno attuale di ritorno del sacro nello spazio pubblico, tendenza che assume spesso un «valore più simbolico che realmente e genuinamente religioso». Seduti al “Parsifal” di Milano, chiedo al Professore cosa intendesse:
Dopo un certo periodo di “eclissi” dei simboli sacri in Occidente si è tornati a discutere di crocifissi, presepi e cose simili, opponendosi all’ipotesi che fedeli di altre religioni possano avere ad esempio un luogo di culto ufficiale e riconosciuto. È il sintomo di un ritorno non al sacro autentico ma di strumentalizzazione delle identità per ben altri fini.
Cosa vuoi dire quando affermi che tale processo ha rafforzato le identità? chiedo.
Le radici, come si sa, stanno sotto terra e se sono buone lo si dovrebbe vedere dai frutti. Esibirle all’esterno è un rafforzamento formale di presunte identità di cui tanto si parla proprio perché sono fortemente indebolite, ma possono servire da scudo o paravento quando dominano l’incertezza e la paura.
Anche nel libro Branca svolge questa considerazione, facendo emergere il carattere contraddittorio generato da tale fenomeno: se da un lato pare esserci l’inasprimento e l’affermazione di un’identità specifica, dall’altro questa rivendicazione violenta rivela il carattere effimero delle radici sulle quali si ha la pretesa di fondarla. Il concetto di identità è di per sé complesso da definirsi. Si tratta di un processo che compie il soggetto attraverso gli incontri e le relazioni esperiti nel corso della propria esistenza. L’alterità è dunque essenziale per giungere ad una vera definizione di sé. Il rifiuto del confronto è in realtà indice di profonda fragilità, di immaturità e di inconsapevolezza. Come un bambino che batte i piedi ribellandosi al genitore, tentando di affermare le proprie ragioni senza in realtà possederle e senza essere cosciente di ciò che realmente sia utile per la sua crescita. Se manca questo scambio tra l’Io e l’Altro non si può dunque parlare di identità ma piuttosto della sua assenza; ecco perché la necessità di colmare quel vuoto con un grido che non può che portare allo scontro e alla guerra con un’alterità che risulta essere scomoda eco di quella mancanza di radici di cui parla Branca.
Guardando alla nostra società attuale, questo meccanismo è ben visibile attraverso quello che può essere definito come un bisogno di stereotipizzazione riscontrabile in vari ambiti della vita dell’essere umano contemporaneo, a cominciare da una sempre maggiore omologazione e standardizzazione della bellezza, degli usi e dei consumi. L’immagine dell’uomo e della donna che passa all’interno della nostra società è quella di un gioco di ruoli più che di un rapporto, dove l’immagine e la moda sembrano inghiottire anche l’ultimo possibile vagito di anti-conformismo. Il messaggio veicolato, amplificato e agevolmente diffuso in massa dai media, è quello di un appiattimento delle diversità tra i sessi, di un’uniformazione del gusto e di uno stare al passo coi tempi senza sviluppare un proprio giudizio, aderendo agli standard proposti senza porsi troppe domande, reputate inutili e noiose.
Come riassume Branca al mio invito di definire la nostra epoca,
se la tv ha creato la massa e il computer è arrivato a contare le pecore, con i new media si è accelerato un processo di massificazione del gregge per molti aspetti preoccupante.
Infatti, con lo sviluppo sempre più fuori controllo della tecnologia che rende tutto velocissimo, facile e immediato senza necessità di particolari ragionamenti né fatiche, il risultato di un approccio più superficiale è quasi garantito. La rapidità con cui si ha accesso alle informazioni, molto spesso senza filtri né fonti attestate, genera frequentemente una sensazione di svuotamento di senso della realtà, di fluttuazione, di mancanza di punti di riferimento. Questo disorientamento porta a una conseguente perdita di interesse che ben si osserva in un consumismo spinto per cui non si riesce a godere di un oggetto in possesso né del proprio tempo. Anche l’educazione, l’istruzione, i valori sociali risultano antiquati e da buttare senza valutarne il valore, pesarne la consistenza, perdendo progressivamente la coscienza della propria cultura.
Come afferma Branca durante il nostro confronto,
episodi della Bibbia o persino brani di letteratura che non molto tempo fa facevano parte di un bagaglio comune, ora sono divenuti quasi del tutto estranei alle nuove generazioni. Del resto si è abolita di fatto la geografia nelle scuole e anche la storia non gode di troppe attenzioni, per tacere dell’arte e della musica. Viviamo in un periodo di decadenza, di smarrimento e quindi di banalità diffuse a piene mani e a poco prezzo.
Assistiamo a una sorta di tacito accordo tra quelle che potremmo definire figure di riferimento e le nuove generazioni in cui si punta il più possibile ad un abbassamento delle pretese, del profitto e della fatica, in una parola della difficoltà; la stessa che però è necessaria alla crescita e alla maturità. Si verifica anche un fenomeno di sovrapposizione generazionale dove genitori e figli talvolta sembrano confondersi e ciò crea grande disorientamento tra i giovani.
Quello che potremmo definire come un vero e proprio “invito a non pensare” si estende ad ogni ambito della società e si traduce in politica in un semplicismo pericoloso che riduce la ricchezza della dialettica a meri dualismi togliendo complessità alla realtà, vissuta e interpretata in un pressappochismo destinato a rigurgitare slogan spesso senza fondamento né argomentazioni.
A livello macro-sociale dunque questa assenza di confronto, questa estrema semplificazione identitaria si traduce in una presunta difesa de “l’italianità” da quella che viene definita come “invasione di immigrati”. Gli stessi termini che vengono utilizzati nel trattare l’argomento sono disumanizzati e disumanizzanti per cui, ad esempio, parlando di individui si utilizza la dicitura di “quote” (da dividere tra quei pochi Paesi europei che sono disposti ad accettarle) oppure quella “chi è arrivato coi barconi”.
In un mondo in cui la finzione sembra prendere il sopravvento sulla realtà e il virtuale risulta più interessante e determinante dello spazio e del tempo tangibili ed esperibili attraverso veri rapporti, la percezione del mondo è facile che assuma una patina di indifferenza. Allora il contenuto di documenti quali la Dichiarazione Universale dell’essere umano e la Carta dei Diritti internazionali umanitari viene percepito come un insieme di parole lontane, scollate dalla pratica quotidiana, slegate dalla vita di chi, da sempre tutelato da quei diritti e disabituato a porsi domande, pensa che non lo riguardino e che, anzi, quasi percepisce come qualcosa che potrebbe disturbare la propria quiete e generare problemi fastidiosi. Anche il migrante viene annoverato tra questi ed è quindi avvertito come una scocciatura, un numero in più di cui sbarazzarsi al più presto, dimenticando che la sua umanità ha lo stesso identico peso e valore della propria. Molti dei migranti che approdano sulle nostre coste sono di fede musulmana e questo, agli occhi del soggetto omologato, risulta essere un’aggravante, una minaccia alla propria cultura.
Ma è possibile vedere il fenomeno della migrazione come una ricchezza perché, come ribadisce anche Branca durante il nostro incontro,
la ricchezza viene dalla varietà, l’uniformità è stasi, omologazione, in una parola: morte.
Nel saggio emerge questa possibile visione grazie alla apertura e all’invito a conoscere una cultura, quella arabo-islamica, differente dalla propria, poiché il confronto non può che far crescere il pensiero e rendere l’uomo più maturo. Ed anche durante l’intervista Branca mi conferma questo punto di vista:
Tutti noi siamo figli di un uomo e una donna che pur amandoci sono ‘altri’ rispetto a noi e con cui non sempre siamo del tutto allineati. La nostra personalità si è formata grazie a un rapporto dialettico con personalità differenti. Non siamo la fotocopia di nessuno, per fortuna!
Allora avere un’idea del contenuto del Corano, dei princìpi presenti nella Sunna, delle norme e delle consuetudini emergenti negli hadith non sembra fuori tempo ma risulta anzi una condizione necessaria nella nostra epoca attuale. Nonostante la diversità fra le religioni, non ce n’è alcuna con scopi negativi, mi dice Branca nel caffè milanese, così come
nessun genitore educherebbe i propri figli a mentire, rubare, uccidere o banalmente ad essere sporchi e volgari.
Questo libro che è qualcosa di più di un manuale, ove si tratteggiano gli aspetti salienti della fede islamica, è un invito a cominciare a definire meglio ciò che finisce nella grande etichetta di Islam, è un modo per solleticare la curiosità del lettore con spunti sulla la fede, la creazione, l’aldilà, il culto, ma anche le buone maniere, la gentilezza, la misericordia e il perdono che non sono certo assenti nel Corano. L’obiettivo dell’autore non è tanto quello di dare un quadro esauriente della cultura arabo-islamica che certo richiederebbe un altro tipo di saggio e che potrebbe dirigersi solo a una cerchia ristretta di “appassionati”, di addetti e iniziati, bensì di creare una sorta di fessura in cui far passare uno spiraglio di luce per coloro che semplicemente sono mossi dalla curiosità del sapere e attribuiscono un valore alla fatica del confronto.
Forse qualcuno verrà incuriosito da quelle sure in cui sono «abbondanti – scrive Branca – gli spunti per fondare una via islamica alla pace, sempre che si intenda leggere nelle fonti questo valore e lo si voglia custodire e sviluppare». Ecco che nelle parole di Branca che concludono il mio incontro con lui nel caffè al centro di Milano trovo il senso della pubblicazione ai giorni nostri di un libro come Il Testo sacro dei musulmani:
Del Corano tutti si sentono in diritto di parlare, spesso male, in forza di qualche versetto isolato che inneggerebbe alla violenza o favorirebbe il maltrattamento delle donne. Con un approccio simile butteremmo nella spazzatura anche gran parte della Bibbia. Il mio è un gesto di servizio verso coloro che desiderano accostare un libro di non facile lettura e un atto di resistenza nei confronti della banalizzazione di questi grandi Codici dell’umanità.
È proprio “umanità” la parola-chiave da cui ripartire per accorciare quella sensazione di scollamento tra mondo virtuale e realtà, per guardare l’Altro non come una minaccia ma come possibilità. Perché la fatica del confronto è ciò che permette quella complessità che dà senso, spessore e sapore alla vita. Non è da demonizzare il progresso tecnologico che, certo, apporta grandi vantaggi e migliorie nella nostra società, né si tratta di assumere un atteggiamento malinconico nei confronti del passato. L’auspicio è tener allenato il pensiero, saper costruire un giudizio che ci permetta di scegliere e non subire passivamente i cambiamenti propri della nostra epoca e di non perdere di vista il fatto che siamo responsabili di come viviamo e di come agiamo di fronte agli eventi che accadono. Nel nostro mondo globalizzato, questi eventi coinvolgono tutti da vicino. E così il fenomeno della migrazione riguarda tutti e tocca quell’umanità a cui bisognerebbe fare ritorno. Se non costruiamo la cultura su delle basi riumanizzate essa viene sfibrata, sventrata della sua principale funzione in cui la bellezza e il gusto non sono inutili dettagli ma educazione al pensiero e progresso della civiltà.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.
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