Mentre in Francia si dibatte sul calendario delle festività nazionali da riorganizzare per includere le giornate in cui ricorrono gli appuntamenti religiosi delle minoranze ebraiche e musulmane, perché nelle scansioni delle vacanze programmate a scuola e negli uffici pubblici non siano discriminati i fedeli non cristiani, mentre in Germania sono state introdotte nelle scuole in modo sistematico fin dalle elementari lezioni di religione e cultura islamica per favorire l’integrazione dei migranti e contrastare il pericolo della crescente diffusione dei movimenti fondamentalisti, in Italia il discorso sulla religione delle comunità immigrate è ancora largamente percepito come ingombrante e imbarazzante. Qualcosa da esorcizzare o da rimuovere. Pesa nel nostro Paese l’egemonia culturale della Chiesa cattolica, la sua pervasiva presenza nello spazio pubblico, la sua penetrante influenza nella vita quotidiana dei cittadini.
Nell’opinione pubblica e nell’immagine mediatica, fortemente omologate e prevalentemente orientate dalle rappresentazioni elaborate dalla politica, l’Islam è la religione dei migranti più problematica, quella probabilmente maggioritaria, oggetto privilegiato di studi ma anche di dispute e polemiche. La questione islamica che si è voluta porre a livello internazionale soprattutto dopo l’11 Settembre ha assunto in Italia accenti e toni a volte esasperati e provocatori. Va detto che la posizione del Vaticano non è sempre stata coerente allo spirito ecumenico e, nei documenti ufficiali e nella prassi consolidata, è sempre stata cauta e sostanzialmente poco attenta al pluralismo religioso se non poco aperta al dialogo interreligioso. A fronte di una diffusa e violenta strategia islamofobica, promossa dagli ambienti più reazionari e xenofobi della politica, che ha tout court assimilato i musulmani a fondamentalisti e a potenziali terroristi, la Chiesa sembra essere rimasta troppo a lungo in silenzio o reticente. In questo contesto l’immigrato maghrebino o mediorientale ha finito col cumulare in sé una duplice colpa: quella di essere straniero unitamente a quella di essere musulmano. Una doppia alterità che nella più generale contrapposizione Islam/Occidente estremizza e reifica il pregiudizio etnico.
Per quanto attiene al rapporto tra le due fedi religiose e tra i rispettivi fedeli, molti sono gli equivoci che si addensano nel loro concreto approccio. Quel che nei discorsi dei cattolici ricorre più frequentemente è la critica alla mancanza di reciprocità in fatto di libertà religiosa da parte dei musulmani. Si rimprovera, per esempio, che alla liberalità dei cristiani di autorizzare la costruzione di moschee in Occidente non corrisponde eguale tolleranza di culto nei Paesi arabi. Si mescolano impropriamente in questo ragionamento livelli di afferenza asimmetrici, logiche politiche che attengono alle responsabilità dei governi da una parte e scelte e diritti dei popoli dall’altra. Così da attribuire ai musulmani, e per di più ai migranti, i torti dei loro regimi, di cui sono, in realtà, due volte vittime.
Altri fraintendimenti ideologici e malintesi culturali fanno velo alla comunicazione e alla comprensione tra cattolici e musulmani o piuttosto tra i rappresentanti delle due religioni. L’idea di un Islam monolitico o quella di un cristianesimo povero di spiritualità e troppo blando nelle sue pratiche, la considerazione dei musulmani refrattari al dialogo e pronti a profittare della carità occidentale e l’immagine dei cattolici come oppressi dall’individualismo e corrotti dal consumismo: sono questi alcuni dei giudizi o pregiudizi speculari che contribuiscono ad accentuare le distanze e a complicare le relazioni. Su questi temi e più ampiamente sui risultati di una ricerca condotta intorno ad un’esperienza locale di dialogo tra cristiani e musulmani si intrattengono Chiara Brambilla e Massimo Rizzi nel volume Migrazioni e religioni. Un’esperienza locale di dialogo tra cristiani e musulmani (Franco Angeli editore, Milano 2011). Nata nell’ambito di un progetto scientifico della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bergamo, in collaborazione con la Diocesi e il Segretariato Migranti, l’indagine ha inteso documentare «le pratiche quotidiane», «i punti critici e di forza» nelle relazioni tra cattolici e musulmani sul territorio bergamasco. Che la dimensione locale sia la più congeniale per conoscere la fenomenologia dei contatti culturali, la loro processualità e la loro traiettoria, è dimostrato dagli studi antropologici impegnati a guardare nei vissuti degli uomini in carne e ossa, nelle dinamiche che attraversano le società e le città contemporanee. L’osservazione etnografica di luoghi, esperienze e vicende di comunità territoriali contribuisce a decostruire certe comode generalizzazioni o a correggere le banali semplificazioni di tesi precostituite.
Da questo obiettivo muove la ricognizione analitica compiuta da Chiara Brambilla, in una provincia largamente connotata da un tessuto sociopolitico in cui grande peso ha la Lega Nord, un partito che sulla manipolazione del concetto di identità etnica e sullo scontro con gli immigrati stranieri ha costruito le sue fortune elettorali. La studiosa, autrice tra l’altro di ricerche di africanistica condotte in Angola e Namibia su questioni di frontiere e identità, ha indagato nel mondo dell’associazionismo civile e religioso, particolarmente attivo e radicato a Bergamo e dintorni. Si contano numerosi Centri di primo ascolto della Caritas, non pochi Patronati, Gruppi missionari e di volontari, sodalizi di emanazione parrocchiale nonché almeno dodici Centri culturali islamici in cui si offrono spazi per il culto e per le attività di alfabetizzazione all’italiano per adulti e di sostegno scolastico per i minori, risorse di mutua assistenza e strumenti per l’organizzazione delle feste e dei raduni collettivi. La pluralità delle funzioni assolte dai Centri islamici lascia intravedere la complessità e l’ambiguità della gestione dei bisogni religiosi nel contesto dell’esperienza migratoria. In assenza di clero e gerarchie, l’Islam quotidiano sul territorio è rappresentato da uomini e donne che vivono la loro fede ispirata sempre più spesso a stili individuali piuttosto che a scelte comunitarie.
Contrariamente allo stereotipo del musulmano rigorosamente obbediente alla tradizione coranica, si fa strada e sta crescendo un processo di de-etnicizzazione dell’Islam, un movimento di giovani figli dei migranti che tendono a separare le consuetudini e i costumi dei loro padri dal rispetto per i principi e i fondamenti religiosi. Resta ancora, in tutta evidenza, più visibile mediaticamente e più immediatamente accessibile all’opinione pubblica l’Islam vissuto e interpretato come rifugio identitario, come difesa strategica di simboli e di valori, come trincea affettiva e sentimentale prima ancora che strettamente spirituale. Tuttavia, la ricerca di Brambilla, come numerose altre, dimostra che alla non prescrittiva né massiccia frequentazione delle moschee si accompagnano una pratica domestica della fede, una interiorizzazione delle forme cultuali, una religiosità avvertita più come riferimento culturale che come insieme di obblighi e tabù. La verità è che in emigrazione l’ambiente e la condotta dei musulmani, pur nella loro indubbia riconoscibilità, offrono un’immagine sostanzialmente laicizzata, condizione ed espressione di un duttile ed empirico pragmatismo. Così che sono legittime – scrive Chiara Brambilla – «parecchie perplessità riguardo alle statistiche sulle appartenenze religiose e allo stesso principio metodologico secondo cui queste appartenenze possono essere tradotte in numeri».
Dai risultati dell’indagine sul dialogo tra cristiani e musulmani nel Bergamasco si desume che ad una conoscenza reciproca ancora approssimativa o distorta per effetto della «strumentalizzazione che la politica fa del pluralismo religioso» corrisponde, per esempio, nella percezione dell’alterità la confusione tra arabo e musulmano, tra quest’ultimo e l’integralista islamico, ovvero la diffidenza verso ipotetici disegni dei cattolici e dei rappresentanti della Chiesa di catechizzare e convertire attraverso l’offerta di spazi e servizi assistenziali. In un gioco di specchi, gli uni finiscono con l’attribuire agli altri «la mancanza di volontà e di propensione alla conoscenza», così che le posizioni mutualmente si tengono e simmetricamente si sostengono in un cortocircuito destinato a innalzare steccati e a scavare fossati, nelle spire di una grottesca maschera politica e mediatica che ha trasformato gli uni e gli altri in tragiche caricature nell’immaginario collettivo o sotto il mantello ideologico del cosiddetto “scontro di civiltà”.
A ben guardare, però, non c’è conflitto né dialogo tra identità o tra culture e religioni se non attraverso gli uomini che le incarnano, le persone che le vivono. Le appartenenze, le credenze e le fedi, infatti, prendono vita e forma nel concreto delle condotte reciproche, nel divenire dei rapporti sociali, nelle feconde tensioni e conflittualità della convivenza. Si può allora comprendere quanta discrasia spesso ci possa essere tra i temi del dibattito pubblico a livello nazionale e la percezione quotidiana dell’immigrazione in ambito urbano, tra le problematiche teoriche e ideologiche che produciamo nei nostri discorsi da un lato, e le azioni, dall’altro, le pratiche, i gesti con i quali ogni giorno sono tessuti i fili invisibili dei vincoli, dei legami, delle relazioni e delle negoziazioni tra immigrati e autoctoni. Accade dunque, a Bergamo ma anche altrove, che l’Islam visto da vicino faccia meno paura di quello raccontato dai media, che gli oratori delle parrocchie possano diventare luoghi d’incontro e di positivo dialogo, che tra i giovani a scuola, perfino nell’ora di religione, sbiadiscano i segni di contrapposizione tra le fedi e, in una partita di calcio giocata insieme, si dimentichino o si obliterino le appartenenze etniche. Se sul piano teologico persistono prudenze, resistenze e diffidenze, nella soluzione dei problemi quotidiani tende a prevalere il buon senso, l’equilibrio, la ricerca di un compromesso. Se la Chiesa nei documenti della Conferenza Episcopale Italiana scoraggia i matrimoni misti, non ritiene opportuno mettere a disposizione i luoghi di culto ad appartenenti a religioni non cristiane, invita le scuole cattoliche a non rinunciare al proprio progetto educativo cristianamente orientato anche in presenza di alunni non cattolici, nell’articolazione dei contesti locali e delle situazioni contingenti le direttive ecclesiastiche assumono un’oggettiva pluralità di posizioni anche contraddittorie.
In prospettiva, nella sua analisi del dialogo tra cristiani e musulmani e, più ampiamente, tra cittadini e immigrati, Chiara Brambilla sottolinea coerentemente l’importanza strategica dell’uso degli spazi pubblici, dal momento che dentro le città e il concreto perimetro del vissuto urbano si giocano le dinamiche dell’inclusione e dell’esclusione ed è possibile cogliervi gli elementi materiali e simbolici che rifunzionalizzano le periferie e i centri storici, con la creazione di nuovi reticoli sociali e l’elaborazione di originali traffici culturali. Nelle pratiche religiose lo spazio è il luogo in cui si rendono visibili le azioni correlate del pregare, del festeggiare, del solennizzare tradizioni e riti comunitari. La grammatica del sacro subisce nell’esperienza migratoria un’evidente rielaborazione della sintassi e della morfologia, dovendo adattarsi alle opportunità offerte dagli spazi e dai tempi delle città d’insediamento. Le moschee si ritagliano all’interno di garage sotterranei, cibi locali sostituiscono o si mescolano a quelli tradizionali della convivialità cerimoniale, prescrizioni e interdizioni del Ramadan o dell’id al-kabir (la festa del sacrificio) sono ridimensionate o rimodellate sul calendario del lavoro e sulle regole municipali.
«Dobbiamo fare due passi per averne uno, perché noi siamo stranieri», afferma un giovane musulmano immigrato nella zona del Basso Sebino che, nel riconoscere le difficoltà di inserimento, dichiara tuttavia l’efficacia progressiva delle buone prassi intraprese sul piano delle interazioni sociali e su quello più propriamente interreligioso. «Piccole prassi di buon vicinato – scrive Massimo Rizzi – fanno molto di più che una serie di incontri e di dibattiti a diversi livelli. La progettualità condivisa costringe a mettere in gioco le proprie capacità, le proprie disponibilità, chiede di interrogarsi e di compiere scelte nei confronti dell’altro». Anche laddove più forte è l’azione politica di discriminazione e di ghettizzazione etnica, a causa dell’egemonia leghista e del distillato pregiudizio razziale, si costruiscono, se pure lentamente e faticosamente, percorsi e luoghi interstiziali nei quali la convivenza non è mera coesistenza e giustapposizione di presenze ma partecipazione e condivisione dei modi plurali dell’abitare e del vivere la stessa città. Da qui l’organizzazione di feste e cene multietniche, di attività ricreative comuni, di momenti di preghiera collettivi, nel rispetto non solo dei culti ma anche e soprattutto delle sensibilità umane e sociali di ciascuno.
Nell’orizzonte di queste esperienze di prossimità e promiscuità etnica e culturale è possibile progettare un futuro di positiva crescita nelle relazioni islamo-cristiane, nel territorio della provincia di Bergamo e non solo, essendo le seconde generazioni impegnate a elaborare risposte diverse alle domande dei loro padri, sulla spinta dei nuovi bisogni maturati all’interno dei processi transnazionali e transculturali del nostro tempo. Sia che abbia la funzione di baricentro dell’identità personale, sia che catalizzi reti di solidarietà comunitarie, la religione è comunque cardine, assieme alla lingua e all’alimentazione, della dimensione etnica dei migranti. In generale, quanto più ampio nel dibattito pubblico sarà lo spazio assegnato al riconoscimento e al rispetto dei diritti delle minoranze, tanto più si affermeranno le ragioni e le occasioni del dialogo e del confronto. Del resto, se è vero che i giovani figli degli immigrati musulmani non vogliono islamizzare l’Europa ma se mai europeizzare l’Islam, anche i cristiani del nuovo millennio sentono la necessità di interrogarsi sulla loro identità e sul loro modo di porsi in rapporto alle cruciali questioni del pluralismo culturale e religioso.