Raccontare le parole che identificano un’epoca è il modo più convincente (e, perché no, avvincente) per tracciare la storia di un Paese: questo l’assunto da cui muove il Sillabario dei malintesi del catanese Francesco Merlo, editorialista di Repubblica, un condensato di termini ed espressioni chiave per comprendere l’Italia e la sua parabola storica dal secondo dopoguerra ad oggi. Catalogare e decifrare le parole che raccontano un’epoca è, tuttavia, operazione complessa, che sottende la capacità di analizzare il particolare e comporlo nel generale: Merlo, che è giornalista di spessore, sa assestare «colpi di penna» come fossero «colpi di spada», proprio come il conterraneo Sciascia (più volte richiamato nel volume), con rigore e leggiadria allo stesso tempo, scrutando nei dettagli, istituendo connessioni ardite, facendo entrare in frizione le tessere offerte dalla storia e dalla cronaca (prima che diventi storia, cioè racconto ufficiale) fino a creare un mosaico profondamente diverso (e necessariamente divergente) rispetto alle solite, stucchevoli ricostruzioni.
Settantanove lemmi appena, ma notevoli: la Storia sentimentale d’Italia in poche parole – questo il sottotitolo del libro, edito nel maggio scorso da Marsilio – è, a tutti gli effetti, una contro-narrazione; che, nella sua asistematicità e inevitabile incompletezza, suggerisce un metodo d’indagine, cosa non da poco nel caos-mondo della contemporaneità liquida, offrendo in ultimo una preziosa chiave di lettura a chi voglia provare a capire la mentalità italiana. Il «codice linguistico» e il «codice dell’anima» sono fatti della medesima «sostanza» – questa l’intuizione di Merlo, che si ispira alla lezione di Montanelli e Scalfari, «la mano destra e la mano sinistra del giornalismo italiano» – e, nelle pieghe della storia repubblicana del nostro Paese, assai spesso concorrono a disegnare traiettorie ambivalenti, a dipingere ossimori, a generare distorsioni: l’uno spiega l’altro e, al tempo stesso, lo nasconde, fungendo la lingua da ingegnoso travestimento sotto cui il carattere nazionale può comodamente adombrarsi.
Se le parole hanno il potere di rivelare la natura di un popolo, è indispensabile interrogarle caparbiamente, indagarne la ambiguità semantica, ascoltare persino i non detti che – a mo’ di squarci fontaniani – tradiscono probabili verità. Una lezione di metodo con cui il lettore è invitato a confrontarsi sin dalle soglie del testo: «la cosa è quella che tu vedi, tocchi, annusi, ricordi, inventi», mentre «la verità non si può nemmeno inventare» e «forse è tutto ciò che non sappiamo». Sono parole di Concetto Marchesi, catanese come Merlo, insigne latinista, prosatore raffinato, figura di primo piano della Resistenza e della Costituente, comunista (il «più pessimista e solitario di tutti i comunisti», disse di lui Calvino). Tratte dal Libro di Tersite (opera da cui traspare – come ha rilevato Canfora – «la parte più gelosamente privata» della vicenda umana dell’autore), queste parole di Marchesi, che verranno ancora riproposte in chiusura della voce comunismo, rammentano, non secondariamente, a chi si appresta ad intraprendere la lettura del Sillabario, il peso che ogni storia personale o familiare ha nell’economia della macrostoria e come i due piani non solo si intreccino, ma reciprocamente si determinino.
Storia di malintesi, quella italiana nella ricostruzione di Merlo, di ambiguità, di sottintesi; sequenza senza soluzione di continuità, già a partire dal referendum istituzionale con cui si decise la forma di governo da dare al Paese all’indomani del secondo conflitto mondiale: «Papà, che era di destra, il 2 giugno 1946 votò per la repubblica. Mamma, che era di sinistra, votò per la monarchia». Non è semplice aneddotica di famiglia quella con cui s’apre il libro; è piuttosto la constatazione, d’ironia velata, che la contraddizione è presente sin dal momento costitutivo (e forse anche da prima, a voler leggere in filigrana la storia del nonno gentiluomo, monarchico e socialista, che aveva il fallimento nel sangue). Parafrasando Gaber, a suggello della voce Marxengels, Merlo – non senza ironia – intona una filastrocca: «qualcuno era monarchico perché era liberale», qualcun altro «perché era fascista e aveva paura del comunismo», qualcuno ancora «perché la letteratura lo esigeva, la storia lo esigeva, la pittura lo esigeva, perché lo esigevano Marconi, Verdi e Manzoni».
Ebbene l’ironia, che al più alto grado altro non è se non dissimulazione del pensiero, viene assunta come arma letale per smascherare il malinteso. Per nulla casuale, allora, già sotto il primo dei termini discussi (monarchia), il richiamo a Manzoni, maestro d’ironia narrativa, che – ironia della sorte! – «nel giugno 1805 arrivò libertino nella città più libertina del mondo, e ne ripartì devoto e persino bigotto nel giugno 1810». Asserisce Merlo che la conversione è archetipo manzoniano: quella religiosa che investì la sfera personale portando l’uomo ad abbracciare il cristianesimo, quella di alcuni personaggi altissimi usciti dalla sua penna (Fra’ Cristoforo, l’Innominato). E – aggiungiamo noi – finanche quella linguistico-espressiva, che lo portò a rimaneggiare insistentemente il romanzo, ambendo alla restituzione sulla pagina letteraria d’una lingua che fosse «viva e vera».
Se per Manzoni, nella stagione del Risorgimento, la lingua esprimeva un’unità di sentimenti e tradizioni culturali su cui far leva in vista del raggiungimento dell’agognata unità politica, per Merlo, acuto osservatore della contemporaneità, la lingua esprime doppiezza, vista come essenza del carattere italiano e causa di disarmonia politica. E se per D’Azeglio, «fatta l’Italia» occorreva «fare gli Italiani», cioè formarli come popolo, e per il Principe di Metternich essa non era che «un’espressione geografica», l’Italia del secondo Novecento e del Nuovo Millennio è, nella visione di Merlo, il luogo (geografico e semantico) dei tradimenti, dei controsensi, dei doppi sensi.
Tornando al momento zero, al referendum in cui si chiese agli italiani di scegliere tra monarchia e repubblica, scrive Merlo che «votarono repubblica quelli che con Benedetto Croce erano convinti che l’istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana», mentre «molti clericali e molti cattolici moderati votarono monarchia per paura del comunismo»: sicché, il 2 giugno del ’46, la parola referendum si svuotò completamente di significato. Da allora il referendum continua ad essere indetto con regolare periodicità sulle materie più disparate (recando tecnicismi e sottigliezze di tutt’altro che immediata comprensibilità o, come in occasione di quello costituzionale del dicembre 2016, pastrocchi linguistici inenarrabili), ma – paradosso dei paradossi – anziché «unire un Paese diviso, finisce per dividere un Paese unito». Contro l’arte tutta italiana della «mediazione che confeziona pasticci», lo strumento referendario è dunque espediente che permette «riforme che altrimenti sarebbero impossibili»: riforme – manco a dirlo – promosse in nome del popolo, per il popolo, quando non determinate dal popolo con un sì o con un no.
Procedendo nel suo viaggio linguistico, Merlo si addentra così nella sfera di numerose altre parole ed espressioni degne di nota: tra queste, occupano un posto di rilievo, popolo e sì ma anche no. La prima è parola abusata, che «non nomina» più alcunché, unendo nell’insignificanza una massa indistinta di persone vocianti, al punto da qualificarsi come «non-luogo semantico della politica», o peggio come «primo (o ultimo) rutto della demagogia». Complice l’«usura del tempo», popolo è divenuta parola vuota, nulla più che un «marchingegno retorico» buono a giustificare «qualsiasi politica». Così la lingua tradisce se stessa: nell’Ottocento era sinonimo di patria, di nazione, di unità pervicacemente voluta al prezzo del sangue dei fratelli, mentre oggi nelle piazze, fisiche e virtuali, nelle quali il popolo, frastornato e inebetito, si aduna, si assiste tristemente «al lento sfaldarsi del nostro ordine civile».
Pessimismo? Catastrofismo? Sì, ma anche no, giacché in un mondo caratterizzato dalla cretinocrazia, la cui marca distintiva è l’«ostilità al sapere depositato, ai libri dei competenti e all’esperienza dei tecnici», è lecito attendersi il peggio. I «nuovi ignoranti al potere» – osserva Merlo – «hanno un rapporto spavaldo e disinvolto anche con i libri», non li leggono, ma sono autori prolifici, spiegatori entusiasti del vuoto e del vacuo, pronti – of course – ad edulcorare d’inglese le loro non-conoscenze. Sono cretini-intelligenti, come già aveva intuito Sciascia («è ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino», aveva scritto in Nero su nero, lamentando e a un tempo sancendo la scomparsa dei «bei cretini di una volta»): e, per questo, sono temibili e perniciosi.
In regime di cretinocrazia, nell’Italia che è sempre più «il Paese del no», hanno rischiato di prendere il sopravvento persino i no-vax, mentre il sì, che rimanda «al matrimonio e all’obbedienza», attestando la volontà di sottomissione, sembrerebbe attraversare una prolungata stagione di crisi. Sovrastato dal proliferare di movimenti di protesta (no-tav, no-global, no-inceneritori, no-nucleare) e di campagne che richiamano l’attenzione sulla necessità di adottare stili alimentari più sani (no-ogm, no-glutine, no agli zuccheri, no all’olio di palma); accerchiato dai no ai compromessi, no alla casta, no alla politica persino, con rabbia gridati dai guru del vaffa; estromesso dai titoli delle canzoni italiane, che palesemente preferiscono il no (da Dio mio no di Battisti, passando per No di Bella, fino a Ma la notte no di Arbore): ecco delineato il triste destino del sì, che anche laddove resiste non gode di buona salute. Si pensi alla frequenza di separazioni e divorzi, certo dovuta a molteplici ragioni, ma evidentemente imputabile alla debolezza dell’assenso che produce il vincolo; un assenso che ricorda da vicino quello più volte espresso, senza convinzione, dal personaggio letterario che in un certo senso rappresenta il «prototipo» di ogni sì italiano, la manzoniana Gertrude, la quale a se stessa inutilmente ripeteva: «Non si tratta che di non dire un altro sì»; e «ad ogni sì che pronunziava […] faceva tristemente il conto delle occasioni che ancora le rimanevano di dire no», fino a che, ripetendo un’ultima volta «un sì tante volte detto», si condannò ad essere «monaca per sempre».
A proposito di sì e no, come non dire della loro (presunta) interscambiabilità nelle com- petizioni elettorali. Già, perché la storia italiana è anche storia di brogli, imbrogli e complotti. Da quello letterario che coinvolse Ciccio Tumeo, il quale – da «galantuomo» qual era – aveva giurato all’ultimo dei Gattopardi, don Fabrizio, di aver votato no all’Unità d’Italia (dichiarazione destinata a gettare più di un’ombra sul risultato finale della competizione, essendosi registrata a Donnafugata una corrispondenza perfetta tra il numero dei votanti e il numero dei sì), a quello mai provato che avrebbe permesso la vittoria dei repubblicani nel ’46, ai 24 mila voti di distanza tra Prodi e Berlusconi nel 2006 (con riconteggio delle schede, interminabili strali polemici nel dibattito pubblico e cafonerie senatoriali: si pensi agli insulti all’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi o al Nobel per la Medicina Rita Levi Montalcini, giudicati rei, con la loro partecipazione al voto, da senatori a vita, di contribuire a tenere in piedi il governo di centrosinistra) e oltre ancora, fino ai nostri giorni, la parola broglio – arguisce Merlo – si configura come autentico «tic linguistico degli sconfitti», finalizzato alla contestazione e delegittimazione della vittoria: un tic che da «alibi per il fallimento» si trasforma visibilmente in veleno per la democrazia.
Storia di convergenze parallele, di governi di unità nazionale, di larghe intese, di compromessi storici, quella italiana; storia di trasformismi, diffusi e accettati in un Paese nel quale quasi sempre vincono la spregiudicatezza e l’infedeltà sull’integrità morale e la coerenza ideologica: dove in politica a determinare gli equilibri assai spesso sono i voltagabbana, esercitando la deplorevole pratica del riciclarsi. Del resto, com’è noto, «il potere logora chi non ce l’ha» e, dunque, tutto è lecito per centrare il risultato: questo il più grande lascito verbale di Andreotti, con il quale «la lingua del potere divenne la lingua dell’ammiccamento divertente», esprimendo perennemente «ambiguità, complicità e complessità, evidenti ma imprevedibili».
Storia di mistificazioni, quella del Bel Paese, espressione che rimonta addirittura a Dante, che pure aveva levato un grido per la «serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province ma bordello», quasi sapesse che sette e passa secoli più tardi la classe politica di quella terra proprio in scottanti vicende di prostituzione sarebbe rimasta impantanata. Tra verità di parte e contro-verità costruite dalla fazione opposta, di quelle vicende si è parlato per mesi, canalizzando lì l’attenzione mediatica. Manifesto della mistificazione è, per eccellenza, il rotocalco, mezzo che inganna e appassiona: è il libro di tante favole, non meno di quanto lo sia stata la monarchia (che, nelle parole del padre dell’autore, era «il libro di tutte le favole»). Artifizio capace di confinare nell’angolo più remoto della ragione le più audaci teorie filosofiche sul sé, sull’altro, sul doppio. «Pirandello, che ci ha perso la ragione, non poteva immaginare che un giorno […] sarebbe bastato ritoccare le foto per diventare un altro»: un clic ben assestato e il gioco è fatto. Roba da uscir matti senza che fischi alcun treno: a far tabula rasa, in un sol colpo, dei vari Belluca, Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda, ci ha pensato l’autentico mattatore degli anni della Seconda Repubblica, quel Silvio Berlusconi che «da solo è stato un trattato sull’immagine» e che, grazie all’uso spregiudicato di emittenti televisive e riviste, da lui direttamente o indirettamente controllate, ha trasformato la sua biografia «in un romanzo nazionalpopolare» (oltre ad aver trasformato un’ala della sua residenza di Arcore nel famigerato “Bunga Bunga”, come da aneddoto contenuto in Quo vado?). Perché nell’era dei media (parola latina che, incomprensibilmente e come molte altre, si insiste a travestire d’inglese), un’immagine vale più di cento parole, capace com’è di veicolare sensi plurimi, alcuni palesi, altri subliminari, e il popolo – per effetto del degenerare dei servizi di informazione – è messo a parte del «catalogo dei vizi nazionali», trasformato in «orecchie del pettegolezzo».
Vicenda costruita sugli ossimori, quella dello Stivale; al punto che, traslato in politica, l’ossimoro – che è tra le più nobili figure retoriche di significato, figura particolarmente cara a don Gesualdo («il poeta triste del secondo Novecento italiano, l’intellettuale settecentesco, il perfezionista della lingua, l’inventore di aforismi», che certo è modello per Merlo) – può ben considerarsi il «piatto forte della nostra storia», «la vera doppiezza che cambia sia il gioco che i giocatori». In questa carrellata sentimentale dei malintesi, proprio un ossimoro di Bufalino, da Calende greche, possiede la forza di squarciare il velo del trito e ritrito, del detto e ripetuto fino allo sfinimento, del già visto, del già letto: «I vincitori non sanno quello che perdono».
Concludendo: accuratamente ricomposte a trarre un ordine dal caos, le parole collazionate, con scrupolo filologico, da Merlo hanno il potere di inchiodarci, da cittadini sempre meno consapevoli, a considerare le nostre responsabilità, agendo da sprone affinché ci si ridesti, e in fretta, da un troppo prolungato sonno della ragione. Nelle pagine finali (quelle dedicate alle parole patria e matria), l’autore, con una scrittura che si fa più tesa e a tratti commossa, come antidoto alla perdita del senso di appartenenza, prova a richiamare l’attenzione sui valori più nobili ed autentici, quelli della madrepatria (ancora un ossimoro, audace e dolcissimo), la terra che dà la vita e per cui si dà la vita, che – nella sua accezione più intima – si fa matria. Quest’ultima è «il sangue», è «Penelope assediata per più di dieci anni e mai conquistata», è «il porto sicuro» dove ci si rigenera, è «la canzone di Sergio Endrigo Io che amo solo te»: è l’Italia, luogo di contraddizioni e d’incanto, con il suo Tricolore, vessillo nazionale della Repubblica, da custodire, rispettare e amare d’amore filiale.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
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Rosario Atria, dopo la laurea magistrale in Letteratura all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Palermo: dal 2014 è, presso lo stesso ateneo, cultore di Letteratura italiana. Autore di studi sulla poesia del Due-Trecento, sulla narrativa storico-popolare dell’Ottocento, sulla lirica leopardiana (con particolare riferimento al nucleo dei pisano-recanatesi), sulla narrativa del secondo Novecento, si interessa anche di storia e letteratura archeologica della Sicilia.
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