di Giovanni Falcetta
Zai (o Llazar o Lazar) Fundo nacque a Korcia (Albania) il 20 Marzo 1899 da una famiglia di commercianti originaria della città albanese medievale di Voskopoja. Completò la scuola secondaria al liceo francese di Salonicco (Grecia) e gli studi universitari in giurisprudenza a Parigi. In Albania, all’inizio degli anni ’20, egli fu uno dei promotori dell’associazione comunista «Bashkimi» («l’Unità»), creata da Avni Rustemi. Dopo l’assassinio di quest’ultimo, Fundo venne designato, all’unanimità, direttore di questa associazione. Nell’anno 1924 diresse il periodico «Bashkimi».Fu anche uno dei primi fondatori del Partito Comunista Albanese. Nei giorni della Rivoluzione Democratica Borghese, capeggiata dal vescovo greco-ortodosso albanese Fan Noli, venuto appositamente dagli USA (giugno 1924), Fundo fu tra i più stretti collaboratori di quest’ultimo, assieme a Luigi Gurakuqi, Gjergi Fishta, Hasan Prishtina, TajarZavalani, etc. Aveva 25 anni, era uno degli attivisti più noti e godeva di una grande reputazione.
Dopo il crollo del governo Noli, Fundo andò in esilio insieme ad alcuni amici, mandati a studiare in Unione Sovietica con la raccomandazione di Noli e fece parte della sezione comunista albanese del Komintern denominata «Konaré». Nel 1933 fu a Berlino assieme a Gijorghi Dimitrov quando questi subì un processo presso il tribunale di Lipsia con l’accusa di aver ordito l’incendio del Reichstag. Dopo l’assoluzione dell’imputato, Fundo, la sua convivente, Maria Margaretha Stemmer (che aveva cercato di procurare anche uno degli avvocati del collegio di difesa) e l’amico Dimitrov fuggirono, prima a Parigi e, successivamente, in URSS.
In questi lunghi anni d’esilio (1924–1939), Fundo scrisse articoli per il giornale «Clirimi Nacional» (La Liberazione Nazionale) da lui stesso diretto assieme a Fan Noli, Halim Xhelo, etc. Ebbe anche un ruolo importante nell’organizzazione dei volontari albanesi che andarono a combattere contro Franco in difesa della repubblica spagnola e nell’organizzazione politica «Fronti National» creata a Parigi nel 1936. Tra gli anni ’20 e ’30 fu uno dei maggiori collaboratori del periodico «La Federation Balkanique» che veniva pubblicato a Vienna in varie lingue. Ma, ben presto (negli anni 1937-38, il periodo delle grandi Purghe) fu deluso e indignato dalla barbara dittatura di Stalin. Interrogato dalla «Ciska» del Komintern, riuscì a salvarsi grazie alla sua amicizia con Dimitrov e a fuggire in Francia (1937?), Svizzera e in altri Paesi europei.
Nel 1938 Fundo ruppe ogni rapporto con il PCA (Partito Comunista Albanese) e con il Komintern. Dopo l’invasione fascista italiana dell’Albania (1939), Fundo ritornò a Korcia e si dedicò alla propaganda politica antifascista contro gli invasori italiani. Ma presto (1941), fu arrestato dalla polizia della questura italiana di Tirana e deportato al confino di Ventotene come un pericolosissimo oppositore del regime mussoliniano. Dopo il crollo del Fascismo, nonostante le amichevoli e fraterne pressioni di parecchi socialisti italiani (tra i quali Sandro Pertini, che ebbe un ultimo incontro con lui a Roma nell’agosto 1943) che volevano convincerlo a restare in Italia per combattere con loro il fascismo, Fundo decise di ritornare in Albania per battersi assieme ai suoi compatrioti, comunisti compresi, contro il nazifascismo. Ma, catturato dai partigiani di EnverHoxa, mentre si trovava a Kolesian di Kukes vicino Gjakova (Kosovo) assieme ai fratelli Kreziju (anch’essi reduci da Ventotene ed antifascisti, non comunisti) e ad una missione militare inglese, dopo essere stato ferocemente torturato, fu fucilato, come trotskista e «rinnegato», per ordine di Hoxa, a sua volta esecutore di un ordine di Tito e del Komintern moscovita, all’età di 45 anni, nel settembre 1944.
Testimonianze italiane
«La mattina del 26 luglio 1943 stavo passeggiando con l’amico albanese Lazar Fundo lungo i cameroni dei coatti, quando notammo che i militi in camicia nera, invece di sorvegliarci, come facevano di consueto, parlavano concitatamente fra di loro. Apparivano costernati: ‘Ma che sarà accaduto?’ – ci dicemmo. Improvvisamente dai cameroni uscirono a gruppi i confinati. Tutti si diressero verso una piazzetta che era gremita. Erano le otto. Udimmo scandire il segnale orario. Un breve silenzio e, poi, lo speaker diede lettura del famoso comunicato : ‘ Sua maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di stato, presentate da S.E. il cavalier Benito Mussolini…’. Un confinato gridò: ‘Viva l’Italia libera’. Applaudimmo e ritornammo verso i cameroni… Avvicinai Fancello, Scoccimarro, Spinelli, Secchia, Lazar Fundo e altri: bisognava costituire subito un comitato che prendesse nelle sue mani la colonia dei confinati, composta da circa ottocentocinquanta persone. Costituito il comitato ci recammo dal direttore della colonia, commissario Guida… ci limitammo a presentare alcune richieste: 1) la direzione della colonia doveva restare praticamente nelle mani del comitato;2) doveva immediatamente cessare il pedinamento, cui per opera della milizia, erano sottoposti alcuni di noi (Terracini, Bauer, Fancello, Pertini, Scoccimarro); 3) la milizia non doveva più farsi vedere in camicia nera, dato che era stata incorporata nell’esercito; 4) il direttore della colonia, Guida, doveva intervenire presso il Ministero degli Interni, perché al più presto si provvedesse alla liberazione di tutti i confinati. In questo senso il comitato inviò, il 31 luglio, un telegramma al capo del governo (Badoglio, n.d.r.):‘Confinati internati Ventotene chiedono essere informati loro liberazione e domandano immediato ripristino mezzi trasporto. Francesco Fancello, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Alessandro Pertini, Giovanni Domaschi, Altiero Spinelli, Lazar Fundo, Antonio Babich, Antonio Francovich. Ventotene’»[1].
Ed ancora :
«Tra i confinati (a Ventotene, n.d.r.) vi è un albanese, Lazar Fundo, che ha studiato a Parigi, alla Sorbona, e ha girato l’Europa, è stato a Mosca. Staccatosi dal partito comunista, si è accostato a quello socialista. Generoso, aperto, colto, con l’anima di un ragazzo: diventa presto amico di Pertini. / si incontrarono ancora una volta, e fu l’ultima, a Roma, nell’agosto del 1943. Pertini lo prega di restare, ma Fundo vuol tornare in Albania a battersi con la sua gente. Finita la guerra e sorta la repubblica popolare, Fundo venne incarcerato e, poiché rifiutava di abbandonare l’ideologia socialista, barbaramente ucciso/»[2].
Dunque l’albanese Lazar Fundo (o Llazar Fundo o Zai Fundo o Pagani/Pagan, lo pseudonimo con cui si era firmato negli articoli pubblicati sulla stampa albanese negli anni tra il 1919 e il 1930, è stato “amico” del defunto Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini e confinato assieme a lui dal regime fascista nell’isola italiana di Ventotene, tra Roma e Napoli. Molti italiani hanno conosciuto e ricordano Sandro Pertini non solo come una persona profondamente onesta, di salda coerenza politica e morale, ma anche dotata di un carattere non facile, serio e burbero, un uomo che difficilmente definiva “amico” un estraneo. Vogliamo dire, cioè, che, se egli accolse Lazar Fundo tra i suoi amici, ne aveva ben conosciuto le qualità umane, culturali e politiche, lo aveva ritenuto degno della sua stima e della sua amicizia. Il 7 agosto 1943, da Ventotene parte un secondo telegramma per Roma, indirizzato dal comitato dei confinati, al capo del governo:
«Confinati et internati isola Ventotene… reclamano immediata liberazione condannati e relegati politici come automatica conseguenza della soppressione del regime fascista. Francesco Fancello, Alessandro Pertini, Altiero Spinelli, Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro, Lazar Fundo, Ante Babich, Antonio Francovich»[3].
Ma c’è un altro episodio, in relazione a Sandro Pertini, che attesta la generosità d’animo, il profondo senso di umanità di Lazar Fundo:
«Il comitato direttivo dei confinati (Fancello, Scoccimarro, Pertini, Altiero Spinelli, Secchia, Lazar Fundo, [albanese], Ante Babich e Antonio Francovich), richiede sin dal 31 luglio [1943, n.d.r.] la immediata liberazione e il ripristino dei mezzi di trasporto da e per l’isola (di Ventotene, n.d.r.)… il provvedimento invocato giunge soltanto per quelli che non siano comunisti né anarchici; le proteste continuano insistenti. Sandro Pertini, quando giunge l’ordine della sua scarcerazione, si rifiuta di partire sinacché non abbia lasciato Ventotene l’ultimo confinato liberato e soltanto per l’insistenza di Scoccimarro e Fundo parte per adoprarsi a Roma a premere sul governo in tal senso, /cosa che farà recandosi ripetutamente, con Buozzi, da Senise/ (capo della Polizia, n.d.r.)»[4].
Ed ancora un’altra pagina ‘italiana’ su Fundo:
«Tra gli albanesi si distingueva Fundo, un intellettuale che era stato membro della direzione del partito comunista del suo Paese ed era passato, poi, all’opposizione. Viveva completamente isolato, immerso nello studio del Greco, come se cercasse in Omero l’amicizia che non trovava tra i suoi contemporanei. Alla caduta del fascismo, tornò in patria per combattere contro i tedeschi. I suoi ex compagni gli fecero fare una fine orribile, dimostrando ancora una volta che, in fatto di ferocia, nazismo e comunismo non hanno nulla da invidiare…»[5].
L’autore di questo brano, repubblicano e antifascista è stato anch’egli confinato a Ventotene. Sul piano umano, però, crediamo che il ricordo più avvincente e dettagliato di Lazar Fundo ce lo fornisca un altro suo compagno di confino, il socialista Alberto Jacometti:
«Fundo – Un albanese. Bisogna vederlo quando, alla prima ora del mattino, studia all’aperto /è il suo modo normale di studiare/. Capelli /quel che ne resta / scomposti al vento, biondi ma, nelle ciocche più lunghe, così scoloriti da parer bianchi, testa alta / un profilo quasi romano/, passo lungo e braccio che scandisce la frase ‘Achille, Achille piè veloce camminante lungo la riva del mare’. Gran cultore d’Omero e di Platone, del resto. Il suo modo di studio è curiosissimo: trascrive la parola o il periodo che lo interessa su cartigli di cui si riempie le tasche: li rilegge, li ripone, li tira fuori di nuovo, finché il periodo, o la parola, non si sia impresso indelebilmente nel cervello. Così ha imparato a fondo diverse lingue. Ex comunista, ha girato tutta l’Europa. È stato in Russia dove il suo non conformismo lo rese sospetto: si salvò dall’ondata epuratrice che travolse quasi per intero la vecchia guardia leniniana e tornò in Albania giusto in tempo per cadere nelle grinfie degli scagnozzi mussoliniani. È uno dei due albanesi per i quali non ci sono amnistie. Intercala i suoi cari studi greci con gli economisti liberali inglesi, con i quali Rossi lo tenta. Le loro discussioni sono interminabili. Nessuno dei due riesce a smuover l’altro di un pollice. Quando gli argomenti sono esauriti da una parte e dall’altra o essi sono stanchi d’andare in su e in giù, rimandano all’indomani. O ricorrono alla polemica scritta. Questa delle polemiche scritte è una delle malattie del confino e una malattia contagiosa. Di tratto in tratto riaffiora. Come e perché è difficile dire. (Com’è difficile dire perché, ad un tratto, il confino si metta in ebollizione e i gruppi si consultino in una serie di conciliaboli a tre). Fatto sta che, ad un certo punto, una polemica scritta incomincia. Verte, generalmente, su un punto preciso su cui è sorto tra i due interlocutori un contrasto. Uno dei due sente il bisogno di tradurre pacatamente per iscritto il proprio pensiero. Con mille precauzioni lo affida alla carta e con precauzioni ancora più grandi lo passa all’altro. Il quale legge e risponde. D’ora innanzi la polemica diventa un’acqua in movimento su un terreno vergine e pieno d’ostacoli, d’accidentalità, di buche insidiose che imprimono ad essa il corso dei loro capricci.
L’argomento iniziale si scinde, si sgretola, molte volte scompare per lasciare il posto ad altri impensati: la polemica si ramifica e s’infittisce. Ogni contendente – allo scopo di dargli una certa risonanza – comunica il proprio pensiero scritto ad una ristretta e scelta schiera d’amici. Gli amici intervengono con consigli e suggerimenti, a loro volta parteggiano. La polemica di due persone diventa la polemica di due gruppi, vengono fuori risentimenti personali, dissensi. È fatale: in un clima così artificiale la polemica non può che degenerare, le manca il respiro e, in un certo senso, il meccanismo regolatore e moderatore rappresentato, altrove, dal pubblico. È la noia del confino che agisce anche sui nervi più saldi, la vita mutilata d’ogni attività costruttrice. Allora nasce il bisogno di spaccare il capello in quattro e si contende, come fra gli antichi ebrei, per stabilire se gli angioli posseggono due, quattro o sei ali. Niente di tutto questo succede, però, con Rossi e Fundo. La polemica si esaurisce quando, dopo giri e rigiri, entrambi s’accorgono d’essere ancora al punto di prima. Che vale continuare? Alla prossima occasione. Una debolezza di Fundo è quella di nascondere gli anni. Non è il solo, laggiù. Puerilità, si capisce, ma puerilità che ha una sua causa profonda se si pensa agli anni persi, due, cinque, dieci, venti talvolta, persi senza possibilità di riscatto, persi per la vita, per le gioie alle quali si è rinunciato, alle quali si è preferito qualche cos’altro ma che, se vi si pensa, si colorano di fiamma, si colorano d’oro – piccole gioie, piccole cose – e rendono in certe ore del giorno ‘in quell’ora che volge il desio dei naviganti e intenerisce il cuore’ pensosi i più spensierati e indifesi i più duri. Nascondere gli anni è un po’ puntare i piedi, un po’ nascondere gli occhi dietro una mano – per non vedere»[6].
Segnaliamo, ancora, una testimonianza particolarmente importante e significativa, e per il suo autore, e per i riflessi che il rapporto avuto da Lazar Fundo con l’attività di quest’ultimo a Ventotene, può avere sulla realtà politica, sociale e culturale dell’Albania di oggi. Ci riferiamo alle pagine su Fundo tratte dall’autobiografia di Altiero Spinelli, ex comunista, divenuto antistalinista e, a Ventotene, uno dei redattori, assieme ad Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, del celebre Manifesto di Ventotene (uno dei documenti fondanti più importanti dell’Unione Europea) e, nel dopoguerra, europarlamentare socialista. Così scrive Spinelli :
«La composizione politica della colonia di Ventotene era inizialmente simile a quella di Ponza. La prima novità fu costituita dall’arrivo di una cinquantina di albanesi. La maggior parte di loro era costituita dai membri maschi adulti di una loro tribù di pecorari montanari, dal vecchio capo ad un ragazzo di quindici anni… Assieme a questi pastori, fieri come prìncipi e primitivi come selvaggi per i quali il pasto fondamentale era sempre stato pane e formaggio, e la modesta vita di Ventotene appariva quasi sontuosa, c’erano una diecina di intellettuali che avevano studiato nelle più famose Università d’Europa, parlavano tre o quattro lingue oltre le loro due ed erano stati confinati per aver tentato di organizzare una resistenza nazionale. Costoro stabilirono senza alcuna difficoltà buoni rapporti con i prigionieri italiani, sviluppando relazioni politicamente preferenziali, chi con i comunisti, chi con i giellisti, uno, Lazar Fundo, con me. Di Fundo sento il dovere di parlare qui, perché, quantunque anch’egli alla fine si sia staccato del tutto da me, siamo stati amici per un paio di anni, e vorrei perciò aiutarlo acché il ricordo di lui non svanisca del tutto. Era il più autorevole fra tutti gli albanesi, poiché aveva un’esperienza politica lunga e complessa, che mancava non solo ai pastori musulmani, ma anche agli intellettuali, i quali erano stati attratti solo di recente nella politica spinti dalla loro avversione per l’invasore fascista. Fundo era diventato comunista a Parigi durante i suoi studi universitari. Poiché alla sua fede si aggiungevano l’intelligenza e la conoscenza di non poche lingue, il suo impegno politico era andato oltre l’Albania, e quando Dimitrov era stato arrestato dopo l’incendio del Reichstag, Fundo era a Berlino come uno dei suoi collaboratori. Sfuggito all’arresto, era rientrato a Mosca ove lavorava nell’Internazionale. Quando si aprì l’era delle grandi purghe, lui, fedele comunista, ma educato nell’atmosfera culturale libera dei Paesi democratici e intellettualmente curioso, avendo frequentato non pochi degli oppositori di Stalin ed avendo provato una tal quale coperta simpatia per loro, fu sottoposto a lunghi e spossanti interrogatori da parte di una commissione della cistka del Comintern. Sentii ripetere da lui, ma con implicazioni ben più drammatiche, quel che mi aveva già raccontato Nischio a Ponza. Vedeva come misteriosamente sparivano intorno a lui questo e quel compagno, comprese il pericolo che stava correndo e tenacemente negò sempre tutto quel che i suoi inquisitori insistevano a volergli fare ammettere, di aver cioè espresso il tale o tale proposito alla tale o tal’altra persona. ‘In parte – egli mi raccontava – quel che mi attribuivano era inventato di sana pianta, ma in parte era vero: questa o quella cosa l’avevo detta. Io negavo sempre tutto, avendo compreso che non avevano nulla di preciso in mano e che senza la prova delle prove, costituita dalla mia confessione, non avrebbero potuto procedere contro di me. La pressione degli uomini della cistka era tale, il vuoto intorno a me cresceva tanto, che più di una volta fui tentato di confessare tutto quel che mi chiedevano, vero o falso che fosse, e farla finita con la tortura psicologica cui ero sottoposto. Non ho ceduto, solo perché due o tre compagni balcanici che mi erano rimasti nascostamente amici mi esortavano a non mollare. Se avessi ceduto, mi dicevano, non mi avrebbero lasciato in pace, ma sarei stato adoperato per rovinare altri compagni e tutti loro sarebbero a catena caduti’. Poiché seppe continuare a negare, l’inchiesta su di lui fu lasciata cadere. Tornò al lavoro nell’Internazionale, ma non più con gli incarichi che nel passato lo portavano di tanto in tanto all’estero. Per sua fortuna, Dimitrov, divenuto ora Presidente dell’Internazionale, non aveva dimenticato il suo collaboratore di Berlino, gli dette incarichi man mano più importanti per mettere alla prova la sua fedeltà, e un giorno gli disse che ormai egli aveva riottenuto la fiducia del partito e sarebbe stato incaricato di una nuova missione in Europa. Alla prima stazione polacca, Fundo mandò un lungo telegramma a Parigi nel quale spiegava come e perché rompeva ogni suo rapporto con l’Internazionale. Quando le truppe fasciste invasero l’Albania, si precipitò da Parigi a Tirana, con un gruppo di connazionali, ma fu arrestato al momento stesso del suo arrivo in patria. A Ventotene si era avvicinato in modo naturale agli ex-comunisti, ai giellisti ed ai socialisti, con i quali parlava sovente della perversione del regime di Stalin. Oppure passeggiava snello, dritto, bello, con i capelli biondi al vento, mormorando a bassa voce le parole di Platone che stava leggendo in greco, cercando presso i saggi antichi la serenità d’animo che il fallimento della sua esperienza comunista gli aveva tolta, e che non trovava da nessuna parte altrove. Quando l’URSS fu aggredita dai nazisti, lasciò cadere ogni critica passata, ogni maledizione da lui lanciata contro l’antica divinità, e gli sembrò quasi che si stesse manifestando un miracolo purificatore. Dissoltosi dopo l’8 settembre a Pisticci l’ultimo nucleo dei confinati di Ventotene non liberato da Badoglio, Lazar Fundo raggiunse la costa pugliese, passò in Albania, si presentò ai partigiani comunisti dichiarando loro chi era e che veniva a combattere con loro, fu da loro messo al muro e fucilato. Doveva aver sì e no quarant’anni. Voglio sperare che, oltre me, ci sia qualche albanese sparso nel mondo a ricordarlo»[7].
Ed ancora, sempre Spinelli:
«Jacometti, Fundo, gli ex comunisti non ebbero nemmeno l’iniziale inclinazione favorevole di Pertini, ma rifiutarono seccamente di essere coinvolti nella nostra iniziativa. Fu allora che si dissolse l’amicizia di Fundo»[8].
Sempre Altiero Spinelli, poi, ricorda con commozione l’amico Llazar Fundo nella pagina di dedica di un suo libretto (confluito, poi, nella sua autobiografia) con la frase: «Alla memoria di Lazar Fundo, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi»[9].
Per ciò che concerne i rapporti intercorsi, a Ventotene, tra Llazar Fundo ed Ernesto Rossi, segnaliamo un’intervista concessa da quest’ultimo a Luisa Calogero La Malfa, a Roma, il 9 novembre 1966, in cui Rossi afferma:«mi interessava più il movimento federalista in cui eravamo molto uniti Colorni, Spinelli ed io e un gruppetto di una decina di persone». Nella nota 3, in basso, l’intervistatrice, evidentemente col consenso di Rossi, così completa la frase: «Tra gli altri, Lazar Fundo, Giorgio Braccialarghe, Stavro Skendi, Dino Roberto»[10]. Stavro Skendi era l’altro albanese amico di Spinelli e Rossi a Ventotene.
Lo stesso Rossi, poi, in una lettera, inviata, da Roma, il 23 Luglio 1946, a Stavro Skendi che, dal dopoguerra, era andato ad insegnare, lingue e letterature slave in America, alla Columbia University, così ricorda Llazar Fundo:
«Avevo già appreso con grande dolore la morte di Fundo. Era un uomo generoso, intelligente, che avrebbe potuto dare un notevole contributo alla ricostruzione del suo paese se il mondo non andasse alla deriva come sta andando…»[11].
Ecco, infine, la testimonianza entusiastica di Riccardo Bauer, un altro antifascista, anch’egli ex confinato a Ventotene, sull’amico albanese Lazar Fundo:
«Ebbi allora simpatica dimestichezza con un giornalista albanese, Lazar Fundo che, dopo una lunga esperienza nel suo Paese e in Russia, aveva lasciato il Partito Comunista pur senza abdicare alla sua fede ma solo perché avrebbe voluto che il suo sogno di emancipazione proletaria fosse conseguenza di una pratica di libertà e non di una feroce, burocratica, imposizione quale aveva vista attuata in Russia appunto. Dotato di acutissima intelligenza,aveva una visione storica di quanto avveniva nell’Europa orientale e nella Russia asiatica estremamente interessante,corretta da una ferma fede in una progressiva necessaria evoluzione democratica del regime bolscevico, sia pure a lunga scadenza.
E dimostrava quella sua certezza esemplificando il processo col quale la Russia comunista aveva suscitato un fermento innovatore nei paesi dell’Asia centrale di suo dominio, sia pure attraverso una disciplina ferrea ma anche attraverso una singolare ed attivissima organizzazione culturale che in breve aveva portato quei Paesi, sino allora esclusi dalla moderna civiltà, ad un alto grado di vita amministrativa ed industriale. Con la quale andavano acquistando coscienza della propria autonomia, della propria personalità che già si manifestava nei rapporti col governo di Mosca improntati sempre più ad una aperta coscienza della loro individualità, sia pure nel quadro dell’ordinamento comunista. Un processo lento e complesso ma avente uno sbocco storico inevitabile.
Quando lasciai – come dirò – Ventotene, salutai Fundo con la speranza di incontrarmi un giorno ancora con lui perché con lui potevo discorrere di quel fondamentale fattore di storia che è la rivoluzione russa, trovando un interlocutore scevro di fanatici atteggiamenti mentali ed un osservatore critico di sereno giudizio circa la realtà contingente di un evento del quale, nonostante le ovvie ragioni di dissenso, concordemente valutavamo la positiva storica importanza. Vana speranza, perché, come seppi poi, Fundo, liberato dopo la caduta di Mussolini, rientrando in Albania partecipò attivamente ed eroicamente alla liberazione della sua patria dai nazisti,ma, quando la vittoria le arrise, invitato dai comunisti a rientrare nel partito respinse l’invito e fu assassinato nel carcere nel quale era stato rinchiuso»[12].
Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
Note
1 Cfr. Gianni Bisiach, Pertini racconta. Gli anni 1915-1945, Mondadori, Milano 1983, pp. 89-90.
2 Cfr. Vico Faggi (a cura di), Sandro Pertini: sei condanne due evasioni, Mondadori, Milano 1978, p. 331.
3 Ivi, p. 334.
4 Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Einaudi, Torino 1978, pp. 340-341.
5 Cfr. Giorgio Braccialarghe, Nelle spire di Urlavento. Il confino di Ventotene negli anni dell’agonia del fascismo, Club degli autori, Firenze 1970, p. 67.
6 Cfr. Alberto Jacometti, Ventotene, Mondadori, Milano 1946, pp. 66-68.
7 Cfr. Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 264-267.
8 Ivi, p. 313.
9 Altiero Spinelli, Il lungo monologo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1968, p. 4.
10 Luisa Calogero La Malfa, Intervista con Ernesto Rossi, in «Quaderni dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza», 1 (1969), p. 106.
11 Cfr. Ernesto Rossi, Epistolario 1943-1967. Dal Partito d’Azione al centro sinistra, a cura di M. Franzinelli, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 64.
12 Cfr. Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Trant’anni di lotte e di ricordi, a cura di P. Malvezzi e M. Melino, Presentazione di A. Colombo, Cariplo-Laterza, Milano-Bari, 1987, pp. 130-131.
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Giovanni Falcetta, già insegnante di materie letterarie, è stato lettore di Lingua, letteratura e cultura italiana, presso il Dipartimento di Scienze linguistiche dell’Università di Tirana, dal 1999 al 2002, e presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Pula (Croazia), dal 2002 al 2006. Ha svolto alcuni progetti di ricerca, nell’ambito della Storia contemporanea, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e presso l’Università degli Studi di Pavia. Ha tradotto diversi classici della letteratura di viaggio, tra i quali si segnala: Charles Didier, La questione siciliana, Novecento, Palermo 1991.
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