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Lo scrittore come sociologo implicito: Pirandello e “la vittoria di un fallimento sociale”

1-luigi-pirandello-vittoria-delle-formichedi Claudio Gnoffo 

 La novella: Vittoria delle formiche 

Pubblicata originariamente sul mensile La lettura del 1° febbraio 1936, Vittoria delle formiche è poi inserita nella raccolta postuma di novelle Una giornata del maggio 1937. Il contesto della storia è indefinito, ma sembra quello della nobiltà terriera siciliana in un’epoca coeva all’autore.

I protagonisti sono essenzialmente due. Il primo è un uomo caduto in rovina, da Pirandello sempre indicato con “egli”, “lui” o “signore” e mai con un nome proprio né un titolo: non sappiamo con certezza se fosse un nobile, ma sappiamo che è un ex proprietario terriero, un “signore” che, da agiato com’era, si è ridotto in povertà. Il secondo è nientemeno che la natura, che appare ostile a quest’uomo attraverso un’alleanza assolutamente impensabile: quella tra insetti e vento.

Il paragrafo iniziale della novella parte dall’azione sconsiderata che l’uomo compie per debellare le formiche, le quali, alleate del vento che fin lì le ha portate, gli hanno invaso casa: decide di appiccare il fuoco al formicaio accanto la porta, ma, avendo messo un covone di paglia davanti la porta e altri dentro la catapecchia, le conseguenze sono prevedibilmente tragiche.

Pirandello, prima di proseguire col racconto della bizzarra impresa di questa sorta di non-eroe, introduce una lunga analessi per farci comprendere come costui si sia ridotto fino a questo punto. Il protagonista, nato agiato grazie alle fortune ereditate dal padre, ha trascorso la vita nei vizi senza rendersi conto che stava gestendo male queste ricchezze che non si era conquistato da solo, finché non ha perso quasi tutto, finendo anche abbandonato dalla moglie e dai figli, che non erano più disposti a sopportare non solo la sua sconsideratezza nella gestione dei beni, ma pure i suoi atteggiamenti prepotenti e ingiusti.

2-luigi-pirandello-ultime-novelleL’alleanza di un mondo ostile 

Vittoria delle formiche è un racconto breve, narrato da una voce extradiegetica estranea alle vicende e con focalizzazione prevalentemente interna, perché va a incentrarsi sui pensieri e sentimenti del protagonista, e al contempo, guardandolo da fuori, ce ne spiega errori e autoinganni. Questo narratore extradiegetico, essendo onnisciente, è profondo conoscitore dello storyworld (Giovannetti: 2021, 45) che sta raccontando, dei fatti in corso e delle ragioni dietro a essi. Per questo, può focalizzarsi sull’intimo del protagonista, sulla causa del suo fallimento e su ciò che il pover’uomo nega a sé stesso: l’autore ce lo mostra per com’è e non per come lui vuole vedersi; del resto, la distanza tra l’io del protagonista e il modo in cui egli è visto dagli altri personaggi o dal narratore stesso è ricorrente in Pirandello, che è abile a muoversi in un «va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss, 1988: 214) lungo questa distanza da lui intessuta. La scrittura pirandelliana si conferma immaginifica, perché vuole dare per immagini il senso delle cose, anche con un certo respiro filosofico, sebbene l’autore non si sentisse né “cerebrale” né “filosofico”, epiteti a lui attribuiti ma che subiva con disappunto (Grignani, 2008: 87).

Da subito il narratore usa esplicitamente termini come “folle” e “sconsideratezza” per non lasciare dubbi al narratario: non c’è alcuna reale giustificazione per la pazzia che il poveraccio sta per commettere pur di eliminare le invadenti formiche, pazzia che, unita alla sfortuna, ottiene l’effetto di dare alle fiamme casa sua. 

«Ma prima di venire a questo punto decisivo sarà bene ricordarsi di molte cose precedenti che possono spiegare in qualche modo sia come le formiche avevano potuto invadere fino a tanto la casa e sia come poté nascere a lui il pensiero stravagante di quest’alleanza tra le formiche e il vento» (Pirandello, 2011: 21). 

Avviene l’analessi: con un lungo flashback, il narratore rievoca il passato del poveraccio lungo il tormento dei suoi pensieri e azioni. La sua rovina non è avvenuta in modo improvviso, ma a poco a poco: nel tempo si era andato vendendo, via via, piccole porzioni delle terre ereditate per pagarsi i vizi (donne, vino, gioco) e, al contempo, mantenere lo stesso tenore di vita affinché nessuno sospettasse nulla, in transazioni fatte all’insaputa della moglie: quindi lui era consapevole che fossero vendite ingiustificabili. Vendere proprietà all’insaputa del coniuge, in segreto da tutti, poteva durare fino a un certo punto: quando l’eredità era ormai quasi del tutto perduta, la moglie lo scoprì e dunque lo lasciò. Così tremendo è stato il suo declino, che adesso l’uomo vive in estrema povertà in un tugurio di tre stanze su un piccolo appezzamento di terra che è solo una frazione piccolissima della sua passata ricchezza, quell’eredità paterna così scioccamente sperperata. Prima possedeva case e poderi, adesso sta in 

«un piccolo palmo di terra bonificata, sotto il paese, sul ciglio della vallata, con una catapecchia d’appena tre stanze, dove prima abitava il contadino che aveva in affitto la terra» (Pirandello, 2011: 21). 

Il narratore ci dice come costui vede sé stesso, ovviamente in modo diverso da come lo vedono i familiari, «lui che al contrario si credeva loro vittima per troppa remissione e non corrisposto mai da nessuno di loro nei suoi gusti pacifici e nelle sue vedute giudiziose» (Pirandello, 2011: 21). Insomma, il protagonista si sente abbandonato ingiustamente, e ritiene che sia il mondo a essergli nemico. Tutto ciò aumenta l’effetto umoristico, con questa distanza tra quello che l’uomo crede di sé e quello che il narratore racconta, tipico della narrativa pirandelliana: ogni certezza va scardinata, soprattutto con personaggi così inaffidabili.

Tale “sentimento del contrario” (che Pirandello illustra nel suo saggio L’umorismo del 1908 e poi nell’edizione del 1920) fra l’idea che il signore decaduto ha di sé e quella che ne hanno i familiari, aumenta da un lato la vicinanza tra il lettore e il pover’uomo, come una lente di ingrandimento sulle sue fragilità, ma dall’altro lato anche la distanza: è difficile immedesimarsi in un tale inetto che sa di essere stato causa dei propri mali ma non lo accetta.

4-franco-zangrilli-il-bestiario-di-pirandelloL’anonimo poveraccio sente ostile tutto il suo mondo: ostile la moglie, ostili i figli. Ostile infine anche quella natura che egli vorrebbe idealizzare ma che alla fine, nella sua mente alterata dall’alienazione, gli si rivolterà contro. Un altro effetto umoristico generato dal “senso del contrario”, è il suo abbigliamento: egli veste ancora con un abito da signore che però, ormai, è strappato e unto, pieno di rattoppi, a causa del suo graduale impoverimento: su di lui, quest’abito dà un’idea di miseria e abbrutimento persino maggiori che se addosso a un mendicante che lo avesse ricevuto in elemosina: su un mendicante, sarebbe chiaramente un dono; invece, su di lui, è chiaramente la testimonianza della rovina che si è cagionato nel tempo e della sua difficoltà ad accettare tale mutamento di sorte. Ed ecco che le formiche, nella loro fragilità ed esilità, incarnano i pensieri che dal di dentro lo invadono, così come esse invadono la sua casa. Sono incaricate «di svolgere nella trama una funzione drammatica», non per niente infatti già dal titolo hanno il ruolo dell’altro «protagonista, in chiave di apologo», fornendo «una immagine emblematica che instaura una specifica analogia con la corrispondente situazione» (Nardi, 1981: 63) che il pover’uomo sta vivendo fuori e dentro sé.

Poiché «a Pirandello piace mettere faccia a faccia i lati opposti delle cose» (Zangrilli, 2001: 36), il narratore ci descrive le formiche dapprima come creature precarie, così effimere che sono facili da spazzar via, infatti la loro sopravvivenza sta solo nel grande numero: 

«Erano formiche piccolissime e della più lieve esilità, fievoli e rosee, che un soffio ne poteva portar via più di cento; ma subito cento altre ne sopravvenivano da tutte le parti» (Pirandello, 2011: 24). 

E però d’altro canto il narratore ci dice anche che non vanno sottovalutate: «e il da fare che si davano; l’ordine nella fretta; queste squadre qua, quest’altre là; viavai senza requie; s’intoppavano, deviavano per un tratto, ma poi ritrovavano la strada, e certo s’intendevano e consultavano tra loro» (Pirandello, 2011, 24). Subito dopo ne descrive l’incredibile pervasività: 

«Non gli era parso ancora, però, forse per quella loro esilità e piccolezza, che potessero essere temibili, che volessero proprio impadronirsi della casa e di lui stesso e non lasciarlo più vivere. Pur le aveva trovate da per tutto, in tutti i cassetti; le aveva vedute venir fuori donde meno se le sarebbe aspettate; se l’era trovate anche in bocca talvolta, mangiando qualche pezzo di pane lasciato per un momento sulla tavola o altrove» (Pirandello, 2011: 24). 

E il vento, loro alleato, ricorda il corso imprevedibile degli eventi, che nessuno, al di là delle proprie responsabilità, controlla: «il vento soffia dove vuole» (Gv 3,8). Dunque, tale è l’ostilità che l’uomo sente in sé contro di sé, da rivederla in tutto ciò che lo circonda, anche nelle formiche e nel vento. Non è novità, in Pirandello, che siano proprio degli insetti a farsi ambasciatori di un destino funesto. Se si è detto che le formiche sono allegoria delle forze autodistruttive dentro il protagonista, è più in generale vero che nella sua scrittura vi sono 

«animali “simbolici” che si inseriscono quasi gratuitamente e, si direbbe, per forza proprio nella trama, insinuandovi un elemento inquietante che il lettore stenta (o non può) ricondurre ad una precisa intenzione razionale e cosciente. Questi animali, appartenenti in gran parte alla categoria degli insetti, resi mostruosi dalla precisione macrografica con cui sono descritti, si trasformano, come avveniva già sintomaticamente in certe poesie, in profetici portatori di punizione e di morte» (Nardi, 1981:64). 

È quello che avviene al protagonista: le formiche si fanno strumento di un destino fatale, che è il protagonista, così aizzato, provocato, a procurarsi da sé, con le proprie mani. E infatti, se il pover’uomo è un folle a credere che sia stato il vento a portare le formiche a invadere casa sua, è altrettanto incredibile però, se non inquietante, che sia proprio una folata di vento improvvisa, nell’aria ferma, a portare le scintille dalle fascette infuocate che teneva in mano al covone davanti la porta e a tutti i covoni in casa. È l’elemento più surreale di tutto il racconto: che egli sia matto, il narratore non vuole che ne dubitiamo, ma che il vento abbia davvero voluto incendiare casa sua, a questo punto, in fin dei conti, non appare così impossibile. E questo conduce, come già il narratore ci aveva fatto presagire all’inizio, a un tema che è il convitato di pietra del racconto, uno dei più presenti nell’ultima produzione pirandelliana: la morte.

Pirandello chiarisce in continuazione che questo non-eroe è un personaggio irredimibile, perché, anche se vive di dubbi angosciosi su come è caduto in rovina e su come avrebbe potuto evitarlo, non si ravvede, e alla fine il voler dar fuoco alle formiche alleate del vento è il culmine di una vita tesa tutta al voler vedere il nemico nell’altro, e questo conduce all’autodistruzione, fino, appunto, alla morte. Prima di arrivare alla fine, il poveretto cerca di trovare consolazione nel rapporto con la natura. Del resto, diversi sono i personaggi pirandelliani che, quando si sentono isolati e alienati, cercano sollievo in un mondo altro, quale può essere la natura, o anche solo l’amicizia e la comunicazione con delle bestie. Spesso questi personaggi solitari sono brutalizzati da un mondo provinciale-primitivo che li porta all’alienazione, un mondo che Pirandello associa al regno animale per mostrare che gli uomini sono peggio di lupi e porci e che allora non ci deve stupire se gli alienati trovano sollievo fra le bestie, che sono superiori agli esseri umani (Zangrilli, 2001: 23). Non si tratta solo di un maggior contatto con la natura e le sue creature, ma di un bisogno di maggior semplicità, di ritorno all’essenza delle cose, che può avere connotazioni radicali: in Uno, nessuno e centomila del 1926 (dieci anni prima di questo racconto), Vitangelo Moscarda arriva a scelte estreme pur di trovare l’autenticità spirituale dell’esistenza e affrancarsi da tutte le fonti di rabbia nel mondo.

Anche lo stolto innominato di Vittoria delle formiche si ritrova, nel suo caso controvoglia, a vivere una vita potenzialmente più semplice e libera dopo aver perso lo status signorile, e in parte la apprezza. 

«Aveva scoperto questa nuova ricchezza, nell’esperienza che può bastar così poco per vivere; e sani e senza pensieri; con tutto il mondo per sé, da che non si ha più casa né famiglia né cure né affari; sporchi, stracciati, sia pure, ma in pace; seduti, di notte, al lume delle stelle, sulla soglia d’una catapecchia; e se s’accosta un cane, anch’esso sperduto, farselo accucciare accanto e carezzarlo sulla testa: un uomo e un cane, soli sulla terra, sotto le stelle» (Pirandello, 2011: 22). 

È emblematica qui la figura del cane, immaginata dal protagonista nelle sue fantasie. Per Pirandello, grande estimatore del mitologema dell’animale (Zangrilli, 2001: 21), il cane è simbolo di quella possibile armonia tra l’uomo e il creato che si diceva. Armonia, però, che il poveretto, solo ed emarginato, non trova giacché oscilla dalla simpatia all’ostilità, e l’esempio lampante ne sono le formiche: prima le guarda con simpatia e curiosità, come ospiti bizzarri in casa sua, poi le odia come invasori. Questa ostilità, che egli vede dappertutto, nasce da lui stesso, infatti ha la forma iniziale della nostalgia: se di giorno la natura lo avvolge e lo culla, di notte risveglia i suoi ricordi passati, dalla felice infanzia. Basta un dettaglio, come una pioggia leggera o l’odore della campagna, a ridestare la tempesta dentro di lui: 

«La commozione gli gonfiava il petto; l’angoscia gli serrava la gola, e si metteva a piangere. Era destino che lui dovesse finire in campagna. Ma non s’aspettava così veramente» (Pirandello, 2011: 23). 

3-jerome-bruner-la-fabbrica-delle-storieIl pover’uomo, pur sul ciglio dell’abisso, ancora si preoccupa di come lo vedano gli altri: vuole che la sua identità sociale, anche se ha perso il vecchio status, anche se si è lacerato quel fascio di rapporti obbligatori e appartenenze alla vecchia categoria sociale che la caratterizzava (Goffman, 1981:123), non si deteriori del tutto, ma di certo l’isolamento non lo aiuta a sembrare meno pazzo, né ad alleviare la sua angoscia; ed è comprensibile che si senta a proprio agio da solo, volendo sottrarsi agli sguardi di chi potrebbe giudicarlo per essersi rovinato così stoltamente. Poiché gli importa che gli altri non lo reputino pazzo, non è davvero libero. «Anche se scegliamo di vivere da soli, al di fuori di qualsiasi consorzio umano, la società alberga sempre dentro di noi – impossessandosi del nostro modo di pensare e di parlare» (Bradatan, 2023: 18). Infatti il poveretto innominato cerca, pur vivendo isolato da tutti, di indossare la maschera socialmente plausibile dell’uomo povero ma felice, del nullatenente contento di ciò che (non) ha. Tenta in continuazione di rinegoziare la propria identità, cercando (senza riuscirci) di venire a patti con una condizione esistenziale di cui non riesce ad assumersi pienamente la responsabilità. Per dirla con Bruner: 

«La creazione del Sé è un’arte narrativa […] L’anomalia della creazione del Sé sta nel suo avvenire dall’interno non meno che dall’esterno. Il suo lato interiore, come amiamo dire con mentalità cartesiana, è costituito dalla memoria, dai sentimenti, dalle idee, dalle credenze, dalla soggettività. Parte della sua interiorità è quasi sicuramente innata e in origine specifica della nostra specie: come il nostro senso di continuità nel tempo e nello spazio, il sentimento posturale di noi stessi e così via» (Bruner, 2006: 73). 

Le forze interne del poveretto lo invadono, impedendogli di raccontarsi a sé stesso come vorrebbe. Gli rimorde la coscienza: le formiche ne sono la manifestazione. Non è un problema solo interno, dice ancora Bruner citando un aforisma usato pure, fra i tanti, da McLuhan: 

«Ma gran parte della creazione del Sé è fondata anche su fonti esterne: sull’apparente stima degli altri e sulle innumerevoli attese che deriviamo assai presto, addirittura inconsapevolmente, dalla cultura nella quale siamo immersi. Infatti, rispetto a queste attese, “il pesce è sempre l’ultimo a scoprire l’acqua”» (Bruner, 2006: 73-74). 

L’identità sociale frantumata del pover’uomo, coperta a sua volta da questa sorta di maschera di uomo libero à la Vitangelo Moscarda, è un tentativo di difesa rispetto alla maschera del pazzo che, di certo, gli altri gli affibbiano: «L’io che propone Pirandello nelle sue opere è sempre quello di un individuo costretto, suo malgrado, ad assumere una maschera impostagli dalla società che pretende dai suoi componenti un’identità sociale» (De Michele, 2008: 166). Infatti non si sfugge al giudizio altrui, ma neanche al proprio: come può non detestarsi? La coscienza gli presenta il conto attraverso le formiche. Sembra che il narratore ripeta quanto già fatto con un equide, tre decenni prima, nella novella Un cavallo nella luna del 1907: 

«Si delinea così lo schema del più avanzato processo di simbolizzazione cui Pirandello può sottoporre l’animale, che da oggetto diviene evento: e l’evento si assolutizza, superando la razionalità dello spaziotempo in una prospettiva adimensionale e quindi alogica. Questo presentarsi dell’Altro […] attraverso l’«animale-evento» […], mettendo in dubbio la realtà stessa del reale, rende impossibile ogni ritorno alla situazione narrativa di inizio: unica alternativa è la morte o la fuga» (Nardi, 1981: 68). 

Poi Pirandello non esita a far uso del mitologema dell’animale attraverso similitudini e analogie, e usa una similitudine forte ben due volte, affinché il lettore abbia chiaro che cosa pensa il narratore del protagonista, che cosa deve pensare il lettore stesso, e che cosa deve pensare il protagonista di sé stesso: «doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco: donne, vino, giuoco» (Pirandello, 2011: 92). È l’uso dell’animale in Pirandello: non in chiave comica, cioè per far ridere, bensì in chiave umoristica, per far riflettere mentre si pongono in risalto i difetti dell’uomo animalizzandolo, e così stabilendo la superiorità dell’animale (Zangrilli, 2001: 18).

7-elogio-del-fallimento-costica-bradatanIl povero disperato, preda dei rimpianti, comunque sente il bisogno di controllare ancora qualcosa, non può sopportare che questi insetti in apparenza così insignificanti gli invadano l’unica cosa che gli resta, ossia la catapecchia, allo stesso modo in cui gli sciami di rimorsi lo invadono da dentro. Frattanto il vento sembra lo spirito degli eventi incontrollabili che soffia dove vuole, ora che lui, dopo esser stato responsabile della propria rovina, cerca inutilmente di sentirsi padrone del niente che ha.

Se ogni società ha i propri criteri per definire cosa sia un fallimento e come relazionarsi a esso (Bradatan, 2023: 159-161), allora è innegabile che il pover’uomo senza nome, secondo i criteri della sua società, che lui stesso condivide, abbia fallito. Però, oltre a quello sociale, il fallimento più doloroso è quello morale, nel male fatto ai propri cari e a sé stesso. La conseguente follia non è, per lui, a differenza del protagonista di Enrico IV del 1922, portatrice di un’identità, ma forza disgregatrice che fa a brandelli, a poco a poco, quella che aveva. A differenza della follia di Vitangelo Moscarda, il quale cerca la propria disgregazione, la follia di questo signore decaduto è la disperata, vana difesa del riflesso di sé che aveva innanzi un tempo.

Dopo l’attacco suicida agli insetti, l’unica parola che riesce a dire in punto di morte è “alleanza”: vuole denunciare l’alleanza di formiche e vento, ma nessuno tra coloro che lo soccorrono e assistono al capezzale può capirlo e credono che siano solo i deliri di un povero pazzo moribondo. Chissà che il narratore non abbia voluto indicare quell’alleanza terribile che a volte si scatena, nella vita di ognuno di noi, tra le forze oscure che stanno fuori e quelle che ci risiedono dentro.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Riferimenti bibliografici 
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Galton F., The First Steps Towards the Domestication of Animals. To Be Read Before the Ethnological Society (4 St. Martin’s Place, 8 p.m.) on Tuesday. Dec. 22, 1863, Leopold Classic Library, Victoria (Australia) (Fr 2017.
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Claudio Gnoffo, dottorando in “Scienze Umanistiche” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma e cultore di “Storia dell’Arte Medievale” presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, è stato coordinatore nel 2022 del convegno internazionale “Realtà mediali. Sociologia, semiotica e arte negli immaginari e nelle rappresentazioni” e co-curatore del 1° volume tratto da esso, “Realtà mediali. Medialità, arte e narrazioni”, per UniPa Press; è inoltre autore di diversi articoli scientifici, fra cui, con regolarità dal 2019, per “Le nuove frontiere della scuola” de La Medusa Editrice.

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