Visionario, profetico, in grado di spingere lo sguardo in territori sconosciuti fra terra e cielo, per mettere a nudo lo smarrimento del genere umano, i suoi vizi, le sue virtù, i suoi peccati inconfessabili, la sua sete irrefrenabile di potere e di dominio, ma anche il suo insopprimibile bisogno di trascendenza e di verità.
Il sommo poeta Dante Alighieri, ormai dal 1300, ci osserva accigliato e turbato, tornando puntualmente ad ogni suo anniversario, di nascita e morte, per ritrovarci e interrogarci sulla nostra condizione di uomini dotati di ‘semenza’, riproponendoci il suo sorprendente viaggio ultramondano in versi nei luoghi dolenti dell’inferno, della purificazione del purgatorio e della luce abbagliante del paradiso, nella rivelazione diafana della verità ultima, della potenza e gloria di Dio, espressione d’amore.
Lo ha fatto nei secoli, prima con curiosità e poi forse con compassione, ma oggi nella ricorrenza dei sette secoli dalla sua morte, certamente con dolore ed angoscia, visto il rinnovarsi delle stesse miserie umane da lui raccontate nelle celebrata Divina Commedia, e l’inarrestabile e insensata corsa verso l’orlo dell’abisso cui sembra siamo diretti, in uno scenario pandemico apocalittico, degno delle sue infernali bolgie.
Sul versante dell’analisi specialistica, a partire da quella filologica, e dell’approccio interpretativo storico, letterario e poetico del Dante Alighieri pensiero, molto si è scritto e si sta scrivendo per celebrare il traguardo del Settimo Centenario della sua morte. E così alle incontrovertibili certezze del passato – padre della lingua italiana e fervido sostenitore antelitteram della patria italiana – sulla sua singolare e in parte ancora controversa vicenda esistenziale di benestante, militante politico, intellettuale, letterato e poeta, si aggiungono nuove e inedite chiave di lettura.
«È il momento di riprendere, tutti, in mano – scrive Enrico Malato, tra i massimi conoscitori del sommo poeta – l’opera di Dante, di rileggerla (o magari qualcuno, leggerla), meditarla, perché è ancora una fonte dissetante come nessun’altra». E per restare sul territorio della nuova ricerca dantesca attestata dai primi anni ‘90 del Novecento, mirata sui diversi centenari (nascita e morte, 1265/1321), sempre lo studioso Malato, tra le tante meritevoli iniziative editoriali, ci segnala “l’Edizione Nazionale dei Commenti Danteschi” e ancora la “Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante (NECOD)”. Uno straordinario lavoro di ricerca e studio «orgoglio accademico di squadra», che ci consegna «il prodotto più avanzato della filologia e critica dantesca tra il XX e XXI secolo». Il modo migliore, io credo, fuori dall’oleografia mediatica delle rinomate eccellenze italiche dantesche, per celebrare il sommo poeta, che segna uno spartiacque nella cultura universale, confermando così quanto scriveva Jorge Luis Borges: «La Divina Commedia è il più bel libro della letteratura mondiale».
Un’opera, la monumentale opera dantesca, che sa di “prodigio” e di “miracolo”, come è stato scritto fra gli altri da Eugenio Montale e Gianfranco Contini, che ha attraversato lo spazio e il tempo, sfidando la caducità delle opere umane, con una luce folgorante, in grado di illuminare tutti i recessi dell’animo umano. Eppure Dante è uno di noi, un uomo che ha vissuto il suo tempo, immerso da protagonista nel contesto storico, politico e culturale della sua tormentata contemporaneità, pagando il prezzo del suo spirito libero e di un pensiero “decentrato e diverso” con un esilio, sorprendentemente rigenerante per il suo spirito creativo.
Lui in fondo, come tutti gli uomini, ha inseguito un sogno, anzi ha vissuto dentro un sogno, meglio incarnando quel pensiero mitico greco dove risiede l’enigma irrisolto della psiche dell’uomo e del suo destino. E così, il nostro Dante, ha intrapreso, con il linguaggio del mito declinato ad un immaginario-creativo narrativo stupefacente, un viaggio con un compagno d’eccezione, il saggio Virgilio, in paesaggi mai visti e immaginati prima, brulicanti di umanità dolente, chiamata a rendere conto dei suoi peccati, ma anche di volgere gli occhi al cielo, dando voce a chi ha fatto la storia. Con sguardo compassionevole ha messo a nudo le bassezze dell’uomo, le sue povertà spirituali, le sue infamie, la sua ferocia, sullo sfondo di ambientazioni che oggi rientrerebbero nel genere fantasy, resi con cruda e vivida realtà, ma ha anche narrato il riscatto morale, l’ascesi spirituale dell’uomo, guidato dall’amore “che tutto muove”.
Al suo fianco, tante e tante generazioni di studiosi, cultori e studenti, secoli dopo secoli, hanno ripercorso quei sentieri impervi e insidiosi, avvolti da suoni, voci e figure storiche, exempla memorabili di vita, nel male e nel bene. Un viaggio che riflette impietosamente la condizione umana di dolore e sofferenza, viatico indispensabile per rigenerarsi, e immergersi con lui nella sorgente di luce della verità dell’empireo e del paradiso celeste. E in questo spazio di luce e riflessi abbaglianti, pervasi da un amore avvolgente, ecco l’incontro con la sua amata Beatrice, fonte primaria di ispirazione creativa del Divino poema, nella beatitudine angelica in tensione verso una profonda unione di sentimenti dell’umano sentire, che trascende la corruttibilità dei corpi.
«La nuova lettura del poema – scrive acutamente Malato – ha portato alla luce venature profonde rimaste a lungo occultate, altre sollecitazioni, altre suggestioni prima sfuggite o fraintese che lo muovono e ne mettono in luce un respiro nuovo, più ampio e coinvolgente, plausibile ragione prima della sua popolarità intramontabile». Oltre la cornice dottrinale, teologica e allegorica, e di una narrazione musicale e ritmica, nel segno di una metrica rigida, quella appunto della sublime opera, delle sue tre celebrate cantiche, si agitano dunque sentimenti umani universali, dove ogni cultura, meglio ogni uomo si specchia e si riconosce, tentando di svelare il mistero, il senso ultimo dell’abitare e vivere il mondo. Ad ogni latitudine storico-culturale, la Divina Commedia ha trovato i suoi estimatori, traduttori e divulgatori. Un immaginario, quello evocato da Dante, da ridurre a parodia i sequel di successo dei nostri tempi, che ha affascinato e rapito ogni genere letterario e artistico in ogni epoca.
Volgendo ora lo sguardo alla Sicilia, non possiamo tacere, nella polifonia dantesca dei nostri giorni, un dejavu posto storicamente tra XIX e XX secolo, che pizzica le sensibili corde della demopsicologia siciliana, e del suo principale Vate Giuseppe Pitrè. Preliminarmente c’è, però, da ribadire l’orgoglioso filo linguistico isolano che ci porta, dalla celebrata e multietnica Scuola poetica siciliana federiciana, alla scelta innovativa vincente del volgare dantesco. Una scelta linguistica, la nuova scrittura, del genio fiorentino, rivoluzionaria, che spiazza il latino, fino ad allora codice alto di scrittura dominante. Ed è proprio la scelta linguistica innovativa del volgare, che incontra, chiama a raccolta e contamina le tante lingue italiche, dal siciliano in poi, che vince e convince, riconosciuto unanimamente tra i principali ingredienti di successo della sua immortale opera.
Ma sul versante degli interessi siciliani fra Otto e Novecento nei confronti della Divina Commedia c’è molto altro da dire, grazie ad originali contributi di studio, sorta di ex voto isolani, a quello straordinario ed irripetibile “Culto Dantesco” di spirito romantico, capace di contagiare tutte le culture europee di quegli anni che preludono al Secolo “breve”.
In verità la Sicilia, fin dal suo primo apparire, non aveva mai smesso di familiarizzare con l’opera dantesca, riconoscendo in essa, fra l’altro, frequenti riferimenti alla nobile storia isolana, con figure di primo piano e puntuali citazioni geografiche e mitologiche, attestati da contributi di studio in una sorprendente continuità attraverso i secoli, di vario segno, fino alla virata del XIX secolo. Ci riferiamo a quella parte dei contenuti danteschi riconducibili alle leggende, usi e costumanze popolari siciliane, e non solo, nobilitati spesso dai riscontri con le fonti classiche, e dai diversi apporti culturali giunti nell’Isola, di cui si fa portavoce autorevole Giuseppe Pitrè, cui si aggiunge non ultima, anzi primeggiando, la prima ed integrale versione in lingua siciliana del sommo poema del messinese Tommaso Cannizzaro, letterato, critico, traduttore, di classe superiore, ben noto in tutta Europa, poeta egli stesso, raccoglitore certosino anche di ottave poetiche popolari di area messinese, cui è intitolata la biblioteca e l’archivio storico comunale della Città dello Stretto.
Tutto questo succede tra il 1901 e il 1904, anni che calendarizzano rispettivamente la pubblicazione degli ‘appunti’, così li definisce impropriamente Pitrè, e la Divina Commedia di Cannizzaro. Una congiuntura inaspettata, questa, quanto mai felice, a confermare, fra l’altro, un asse di studio e di affinità elettive culturali fra Palermo e Messina, mai venuta meno fino ai nostri giorni.
L’incontro inaspettato di Pitrè con la Commedia alle prese con il sacro fuoco dantesco, alla ricerca di consistenti tracce di cultura popolare, ben oltre i confini isolani e non isolani, lo debbo alla cara e sensibile direttrice della Biblioteca Regionale Universitaria Regionale “Giacomo Longo” di Messina, Tommasa Tosi Siragusa. Impegnati da anni in una proficua condivisione di eventi culturali, mentre si programmava una performance per voci, suoni e immagini, incentrata sulla bella versione siciliana della Divina Commedia di Cannizzaro per il Maggio dei libri, nell’anno dantesco, ecco riemergere a sorpresa, dal vasto e prezioso giacimento bibliografico peloritano, una piccola gemma, uno smilzo opuscoletto di 33 pagine, catalogato tra gli infiniti titoli della Miscellanea, con il suo inconfondibile frontespizio in stile grafico ottocentesco: Le tradizioni popolari della Divina Commedia. Appunti di G. Pitrè, edito per i titoli della Tipografia del Giornale di Sicilia, a Palermo nel 1901.
Sullo stesso frontespizio, in alto a destra, una dedica autografa dello stesso Pitrè che invia al caro amico erudito, storico, e molto altro, il messinese Giacomo La Corte Cailler, per vie postali, i suoi ‘appunti danteschi’: “Al chiarissimo Signor G. La Corte Cailler con grato animo e calda stima, G. Pitrè”. Precisando nell’Avvertenza di apertura «che questi appunti dovevano formare un volumetto della Collection Internationale de la Tradition di Parigi: e già fin dal 1890 ne era stato dato l’annunzio. Occupazioni molteplici e diverse ne fecero ritardare fin qui la pubblicazione (…), ha luogo soltanto ora, in Palermo, nella forma semplice e modesta che ai miei appunti si conviene», lo studioso palermitano si affretta subito a chiarire che «l’argomento è nuovo, benché qua e là sfiorato da commentatori del divino poema e da studiosi del folklore; I nomi ed i cenni di essi ricorrono in mezzo alle tradizioni che io ho messo insieme a documento di quelle ricordate da Dante».
Illuminante poi quanto scrive nel capoverso successivo il Nostro, ormai nella piena maturità del suo sapere e del suo originale pensiero investigativo olistico e interdisciplinare nei confronti della multiforme materia popolare, così come lo definiremmo oggi:
«La via per la quale si è venuta mettendo la demopsicologia conduce allo spoglio degli antichi prosatori e poeti per ciò che essi possono aver preso dal popolo e conservato nelle opere loro. Procedendo su questa via, non nuova per me, che nella raccolta e nello studio delle tradizioni siciliane pur sempre feci tesoro degli scrittori isolani d’ogni maniera, do’ fuori quel tanto che mi fu dato di rilevare nel massimo Poeta d’Italia. Non presumo di aver tutto veduto quello che forse era da mettere in evidenza nel campo del folklore; ma questo poco basterà per confermare il principio che anche Dante attinse con larghe mani alla tradizione volgare, compresa quella della gente più comune».
Un incipit illuminante, quello di Pitrè, che per certi versi anticipa la nozione di cultura così come prende forma nel pensiero antropologico del Novecento, ovvero fatta di incontri, contaminazioni, in un patchwork, incessante e mutevole, fra permanenza e variabilità, e slittamento di funzioni, usi e contesti.
«In mezzo a concetti altissimi di teologia e di filosofia mirabilmente fusi ed armonizzati con verità di storia e di diritto, – prosegue Pitrè – trovino posto non forzato né inopportuno credenze ed usi modestissimi del volgo». E più avanti «l’Alighieri, sapientissimo tra’ sapienti dell’età che fu sua, non poté sottrarsi all’ambiente in cui visse, e che delle tradizioni più umili e correnti nei secoli XIII e XIV, più d’una ne accolse (…), il Cantore dei tre regni della natura attingendo a pratiche, a costumanze, a leggende popolari, (…) se attentamente studiate e classificate, son da ritenere come ornamento delle finzioni poetiche, quasi espedienti graziosi a chi intenda efficacemente parlare alla immaginazione di popolani e di cittadini, non tutti colti, né tutti buoni a comprendere».
Davvero premonitore il Pitrè che, saltando a piè pari più di un secolo, appare pienamente consonante con le Nuove prospettive degli studi danteschi quando si indica un nuovo “modo” di lettura de La Divina Commedia, ovvero che non si possa capire la poesia di Dante se non sullo sfondo di un itinerario biografico ed intellettuale che la determina e di una contestuale messa a fuoco di un personaggio, ovvero Dante, e del contesto storico e culturale, di cui è espressione singolare, oltre la «personalità di Dante – come scrive Ernst Robert Curtius – che sovrasta con la sua statura i secoli».
«Le mie modeste spigolature – precisa Pitrè nel suo scritto – non cercano le fonti dell’allegoria, non le ispirazioni primitive del poema; ma invece si limitano a riprodurre versi della Divina Commedia che ricordano Usi, Costumi, Giuochi, Credenze e Superstizioni, Leggende, Proverbi». Rigoroso, come sempre, l’apparato bibliografico del Pitrè, direi denso e con un puntuale approccio comparativo, quando cita ad esempio il D’Ancona, a proposito della «mescolanza di calda inspirazione e di meditata scienza, di nuovo e di vecchio, di originale e tradizionale» del poema dantesco. Altrettanto puntuale riferimento al testo critico della Commedia di Carlo Witte, su cui lavora, per fare emergere «riscontri delle tradizioni dantesche con le popolari odierne d’Italia e di fuori».
Ed ora scorriamo i versi delle cantiche, a partire dal XV dell’Inferno, dove Pitrè, con riscontri e comparazioni individua forme di cultura riconducibili all’orizzonte popolare, anche oltre i confini isolani:
Poi si rivolse, e parve di coloro
Che corrono a Verona il drappo verde
Per la campagna; e parve di costoro
Quegli che vince, e non colui che perde
«Questa corsa – ci informa il Pitrè – era stata istituita dal potestà di Verona Azzo d’Este il 29 settembre 1207 per celebrare la vittoria riportata sopra le genti dei Conti di Bonifazio e de’ Montecchi, secondo alcuni il I di Quaresima, altri nella prima domenica di essa, da uomini ignudi, premio un panno verde». Sull’evento ludico-cerimoniale, pertinente il riferimento che Pitrè stabilisce con il Mezzogiorno della Francia e con la Sicilia, richiamando la corsa delle donne nude come «bizzarra usurpazione del Carnevale su’ giorni dovuti alla penitenza», precisando che nel 1459 l’evento rituale fu ricondotto all’ultima domenica di Carnevale e poi il primo di Maggio.
Soffermandoci ancora nell’Inferno, canto XVII, ecco due espliciti versi:
Qui distorse la bocca, e fuori trasse
La lingua, come bue che il naso lecchi
Un gesto volgare evidente, che lo studioso palermitano ricollega senza esitazione «all’atto sconcio che si vuol fare per canzonare alcuno, e che i mariuoli fanno dietro a colui che han lodato per finzione». Restando in tema di atti sconci, con il conforto bibliografico del Sacchetti, il Nostro investigatore di comportamenti popolari, non proprio esemplari, fa poi riferimento, aggirandosi ancora per l’Inferno, ad una terzina quanto mai esplicita, del XXV Canto:
Al fine delle sue parole il ladro
Le mani alzò con ambeduo le fiche,
Gridando: Togli, Dio, ché a te le squadro
«L’atto sconcio – annota Pitrè – di fare le fiche, per dispregio, consiste nel mettere il dito grosso fra l’indice ed il medio, quasi scoccandolo altrui nel viso». Gesto mi pare molto popolare anche oggi, universalmente noto…una bella resistenza ad oltranza della tradizione…quella volgare ahimè! Ovviamente Pitrè trova conforto su questa espressione gestuale in più autori, che cita doverosamente, compreso Monsignor Della Casa!
Lasciando alle spalle l’Inferno, ecco inoltrarci nel Purgatorio, dove nel Canto III, la sestina dedicata alla morte di Manfredi, ultimo re della dinastia sveva del Regno di Sicilia, incoronato a Palermo, figlio illegittimo di Federico Stupor Mundi e padre di Costanza II di Aragona, regina di Sicilia, offre a Pitrè una serie di originali e convincenti annotazioni in merito a due versi, ovvero:
Sotto la guardia della grave mora
Dov’è le trasmuto’ a lume spento
Versi enigmatici ai quali Pitrè propone soluzioni da sciarada da par suo. Circa il primo verso, ovvero quello che riferisce alle pietre gettate sul corpo senza vita di Manfredi ucciso da Carlo d’Angiò presso il ponte del fiume Calore a Benevento, posto nell’Antipurgatorio da Dante, il demologo siciliano richiama l’arcaica usanza, come gesto di pietà, di ricoprire di pietre il cadavere (grave mora), come «contributo individuale alla memoria, alla custodia del luogo ove cadde il suo corpo, ovvero un’allusione al sit tibi terra levis». Tesi suffragata, questa, scrive Pitrè, anche da una leggenda calabrese di Gallico (prov. di Reggio Calabria), secondo la quale, dopo che il famoso brigante Nino Martino cadde a morte in un gola dell’Aspromonte colpito dai carabinieri, i suoi compagni, «in segno di ossequio, perché uomo generoso e magnanimo, gettarono sul suo cadavere una pietra l’uno, e la costumanza dura fino a’ nostri giorni».
E ad ulteriore prova, Pitrè sciorina tutta una serie di testimonianze analoghe, dalla Romagna al Delfinato, fino ai Tartari e agli antichi greci. E le pietre sovrapposte, come gesto di pietà e devozione, di cui parla Pitrè, a conferma della resistenza ad oltranza della tradizione, mi riportano ai giorni nostri sui Nebrodi, quando si va in pellegrinaggio, soprattutto le ragazze, per implorare la grazia di un matrimonio o di un figlio, o per sciogliere un voto, la prima domenica di agosto all’Acqua Santa, nel territorio di Floresta. Lungo l’ultimo tratto di sentiero, che dal fondo valle porta ad una piccola rustica casa/ cappella, con l’acqua ‘miracolosa’ che sgorga al suo interno, dove si consumò in violenza efferata la vita di tre giovani sorelle vergini, i devoti sovrappongono tre pietre, l’una sull’altra, richiamando, a me pare, inconsapevolmente questo gesto antico di pietà e memoria custodito fra i versi di Dante e messo in luce da Pitrè.
L’altro verso citato da Pitrè invece «ci richiama all’uso di fare andare con ceri spenti e capovolti sine luce et cruce, i morti scomunicati», aggiungendo sempre sulla fine di Manfredi, «il detto vescovo fece quell’ossa, come di eretico scomunicato, gittata vicino il fiume Verde, ch’è il confine tra la Puglia e la Marca». Citando il Novati, lo studioso palermitano osserva comunque, che la salvazione che Dante riserva a Manfredi gli fu suggerita dalla tradizione. Secondo, infatti, una leggenda ricordata nel commento dell’Anonimo Riccardiano Costanza «ebbe da un romito dell’Etna, al quale fu rivelato in orazione», che il padre era in Purgatorio, e un altro racconto, riferito da Jacopo d’Acqui, ci fa sapere che Manfredi «sul punto di morte si salvò coll’invocare la misericordia divina, come ebbe a confessare il diavolo per bocca di un ossesso»
In tema di giochi popolari a Pitrè poi non sfugge la terzina del Purgatorio, Canto VI, a proposito dei dadi:
Quando si parte il gioco della zara,
Colui che perde si riman dolente
Ripetendo le volte, e tristo impara
Quanto mai puntuale giunge il chiarimento sull’oscuro etimo zara: «È noto che questo gioco si chiama zara per li punti divietati, che sono in tre dadi esclusive da sette in giù e da quattordici in su; e però quando vegnano questi punti, diceno li giocatori: zara, quasi dica: nulla, come zero nell’abaco»
Altrettanto interessante l’osservazione dell’uso delle bende che velano le donne tratta da un verso del Canto XXIV del Purgatorio:
Femmina è nata, e non porta benda
«La benda era un velo che scendendo dal capo copriva gli occhi e il volto. Lo portavano – ci ricorda Pitrè – le maritate e le vedove; le quali ultime lo avevano bianco sopra il vestito nero».
Una costumanza, per dirla con Pitrè che, scomparsa dagli ambiti femminili domestici, continuiamo ad osservare nei cortei penitenziali siciliani del Venerdì Santo, con le cosiddette Biancuzze o Maddalene penitenti.
La tentazione, vi assicuro, è quella di continuare a seguire fino in fondo l’affabulante racconto di Pitrè fra Commedia e Tradizioni, denso di stimoli, curiosità e inaspettate corrispondenze. Tuttavia non vogliamo approfittare oltremodo della vostra attenzione. E allora mi limiterei ad aggiungere, prima di lasciarci, qualche altro gustoso e saporito piatto popolare, per poi tornare in altra occasione, sempre su Dialoghi Mediterranei, magari a soffermarci sulla Divina Commedia in siciliano di Tommaso Cannizzaro del 1904, cui abbiamo fatto riferimento in apertura, dal momento che rivivrà una seconda giovinezza con la prossima seconda edizione, per i titoli di Pungitopo Editrice. Infatti la stessa casa editrice messinese ha pubblicato il testo del Cannizzaro nel 1983, grazie al prof. Nino Falcone, allora direttore della Biblioteca comunale di Messina intitolata a Cannizzaro, e fondatore qualche anno prima della stessa casa editrice Pungitopo. Questa seconda edizione novecentesca, dopo la prima del 1904, per i tipi della Editrice messinese Principato, propone due volumi, ovvero un saggio sulla figura di letterato a tutto tondo di Cannizzaro, attento alle forme poetiche della tradizione messinese, anche come raccoglitore sul campo, a firma di Nino Falcone, che cura anche con un poderoso apparato di note il secondo volume, dedicato appunto alla Divina Commedia del Cannizzaro, stampato presso la tipografia calabrese Frama Sud, di Chiaravalle Centrale.
Tornando a Pitrè egli si sofferma infine, oltre sulla lunga digressione, farcita di abbondanti citazioni bibliografiche sulla terzina del Canto XXIII del Purgatorio, sulle donne semiselvagge e lascive della Barbagia:
La Barbagia di Sardegna assai
Nelle femmine sue è più pudica
Che la Barbagia dov’io la lasciai
«I commentatori tutti, dai più antichi a’ più recenti, hanno spiegato questa allusione alla Barbagia (…) dicendo di disoneste femmine e di abbigliamenti molto procaci».
Altra rapida annotazione riguarda il consumo alimentare rituale sulla sepoltura, che ha tracce anche in Sicilia, richiamato dal verso oscuro ai più citato da Pitrè, che si legge nel Canto XXX del Purgatorio: Ché vendetta di Dio non teme suppe.
Ancora sui giochi non possiamo omettere il richiamo dantesco al palloggiu o strùmmulu, tipica trottola in legno messa in moto da un laccio a strappo, siamo nel Paradiso, Canto XVIII:
Vidi muoversi un altro roteando;
E letizia era terza del paleo
«Il paleo – annota Pitrè – è uno strumento di legno, che serve per trastullo e giuoco de’ ragazzi, il quale è di figura piramidale all’ingiù: e nella testata, che viene di sopra, ha un manichetto tondo, il quale avvoltato con uno spago e cordicella, s’infila in un’assicella bucata: e tirandosi quello spago, si volta, ed il paleo scappa dal buco dell’assicella e va per terra girando, portato dall’impulso di quello spago»
Sulle Credenze e Superstizioni ecco lo storico riferimento dantesco a Federico Stupor Mundi, torniamo all’inferno, Canto X:
Dissemi: qui con più di mille giaccio,
Qua entro è lo secondo Federico
«Dante – esordisce Pitrè – colloca all’Inferno questo principe alla stessa maniera che fa il popolo siciliano, il quale ve lo crede dannato per sue prepotenze e crudeltà, (…) quella della uccisione di vari baroni del Regno (Sicilia) e della morte lenta che diede alle loro mogli».
E sul tema dell’Inferno quanto mai siciliano è il riferimento all’Etna, che riemerge nel Canto XIV dell’Inferno:
Se Giove stanchi il suo fabbro, da cui
Crucciato prese la folgore acuta,
Onde l’ultimo di’ percosso fui,
O s’egli stanchi gli altri a muta a muta
In Monticello alla fucina negra,
Gridando Buon Vulcano, aiuta aiuta…
Non ne potrebbe avere vendetta allegra
«Nelle antiche finzioni poetiche – ci ricorda Pitrè – la fucina di Vulcano è nell’Etna, dove egli coi suoi ciclopi fabbricava i fulmini di Giove. Nelle credenze volgari il Mongibello è la bocca dell’Inferno, ove i diavoli travagliano da mane a sera. Un canto popolare comincia invocando questi diavoli operai:
Diauli ch’abitati a Muncibeddu,
Calati, ch’ati a fari ‘na jurnata,
Purtativi la ‘ncunia e lu marteddu
Cc’e’ di buscari ‘na bona jurnata»
E per chiudere il nostro affascinante viaggio in compagnia di Pitrè novello Virgilio, restiamo in compagnia dei diavoli, presenti ancora oggi in contesti rituali, con maschere demoniache, come nel caso del Diavulazzu di Savoca (prov. Me), in scena per la festa di S Lucia (1a domenica di agosto), i Diavoli di Prizzi (prov. Pa), e la Diavolata di Adrano (prov. CT), nel giorno di Pasqua.
E Farfarello e Rubicone pazzo: in questo verso, estratto dal Canto XXI dell’Inferno, Pitrè ci ricorda che Farfarello è un diavolo ben noto alla tradizione isolana, precisando che «nella credenza popolare ha pure il suo ufficio infernale», entrando a pieni titoli, magari con altri nomi e colleghi, anche nell’immaginario popolare dell’Opera dei Pupi.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
[*] Ha collaborato Tosi Siragusa, direttrice della Biblioteca Regionale Universitaria “Giacomo Longo”di Messina.
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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