di Giovanni Isgrò
La vasta concentrazione politica costruita attorno al potere monarchico, e in particolare la decisione di Filippo II di fissare definitivamente in Madrid, a partire dal 1561, il centro assoluto della hispanidad nel passaggio dalla concezione imperiale e sovranazionale di Carlo V a quella della nazione ispanica, comporta la necessità di un radicale adattamento delle città destinate a luoghi di rappresentanza della monarchia stessa al fine di determinare le condizioni perché questi luoghi urbani diventino di fatto città-spettacolo, intese come proiezione diretta del potere dominante. E questo proprio nel tempo in cui, al contrario, il declino e la crisi politica delle signorie italiane portano ad uno svuotamento sostanziale del senso sociale e culturale di società impegnate nella organizzazione extra quotidiana del tempo festivo e raccolta nella sua vita di relazione rispetto all’immagine della corte e del principe.
Una realtà, questa della nostra penisola, che scioglie coaguli e aggregazioni, avviando percorsi sempre più autonomi: la pratica delle corti e delle accademie, con i loro edifici di condizione, in cui l’immagine ideale offerta dalla scena raddoppia, in maniera sempre più inquietante, lo status dell’illusione; la libera circuitazione del teatro dell’arte, con possibilità di coinvolgimento in termini commerciali da parte di alcune corti (come avvenne per esempio a Firenze); il progressivo orientamento della pratica festiva, sempre meno liturgicamente sostenuta dalle relazioni materiali di dominio; la stessa diaspora degli artisti; lo scadimento della festa urbana verso dimensioni folkloriche.
In opposizione alle nuove forme aggregative, che caratterizzano nel secondo ’500 i centri della Rinascenza italiana, nel Mediterraneo ispanico si cerca di attuare una sistematica opera di regolarizzazione e pianificazione del rapporto città-scena, sia in senso urbanistico-architettonico che sociale. Ciò consente, nel volgere di alcuni decenni, il progressivo affermarsi di uno spettacolo meraviglioso di tradizioni topiche e di circostanziati aggiornamenti. Ne consegue una consuetudine alle significazioni ambivalenti, per le quali infiltrazioni e modelli importati, piuttosto che attecchire con modalità isolate, per una sorta di accoglienza a termine, si radicalizzano in forme di spettacolo peculiari nel sistema festivo. Si pensi, ad esempio, alle tante pratiche importate direttamente dalla Rinascenza, come quella dei classici archi trionfali adattati progressivamente alla cultura dell’accumulazione visiva, in rapporto alle stratificazioni topiche e alla polifunzionalità espressiva delle macchine ingegnose; oppure ai tornei allegorici a tema, altrove prove esclusive di magnificenza e di condizione, trasformati in mascherate, anche satiriche, dal protagonismo di intere maestranze artigiane o persino al modello italiano del mestiere dell’attore, assimilato e metabolizzato in un contesto drammaturgico e rappresentativo nazionale o anche controriformista, e comunque festivo, come avvenne per lo stesso Ganassa [1].
Per quanto ci sia una varietà di articolazioni formali, tali che la vita scenica appare individualizzata in ogni città del territorio ispanico secondo le variabili della pre-teatralità locale, ora più spettacoliste, ora più rituali, ora più raffinatamente classiste, esiste comunque una unitaria logica interna: una costante individuabile in una sorta di addestramento alla molteplicità espressiva. Una abitudine alla traduzione su scala urbana del «tutto» conosciuto; una apertura agli aggiornamenti, ma anche una attitudine a regolare la coesistenza del nuovo col preesistente per una forma di arricchimento biologico. In questo ventaglio così ampio di virtualità si comprende come la pre-teatralità possa venire a far parte della teatralità professionale, e come attori dilettanti e attori professionisti possano convivere all’interno del medesimo contesto spettacolare, come avvenne in occasione delle celebrazioni del Corpus Christi.
Piuttosto che prendere consistenza e diffusione l’idea di un edificio teatrale deputato del meraviglioso scenico, nei luoghi della hispanidad si cerca l’immagine solida delle architetture dei palazzi del potere e dei dispositivi urbani: elementi pre-teatrali e teatrali al tempo stesso, secondo una dilatazione estrema, senza limiti, della realtà metamorfizzante della scena. È così che, lungi dal rimanere, a seconda dei casi, contenitore o punto di osservazione di eventi teatrali, piazze ed edifici diventano elementi significanti nel contesto della scena urbana, ed essi stessi dispositivi scenici reali.
Si pensi, ad esempio, alla funzione teatrica del ponte di Segovia, predisposto per i giochi d’acqua e per le elevazioni degli archi trionfali, o alla conformazione scenica della via Toledo di Palermo, con le due porte praticabili alle estremità, nell’insieme immaginabile come un gigantesco carro degli autos, e ancora all’interminabile elenco di porticati, frontespizi, ponti, archi; dispositivi architettonici diversi, utilizzati come protagonisti viventi nella lunga storia del teatro festivo. Elementi in parte adattabili non soltanto secondo tecniche di integrazione dell’effimero, sia in forma di addobbi e apparati che di vere e proprie macchine sceniche, secondo l’uso sovranazionale, ma anche in rapporto alle esigenze tipologiche specifiche delle rappresentazioni in strada, come nel caso degli autos sacramentales. La costante è dunque la partecipazione dell’architettura alle figurazioni spettacolari urbane, evidenziata dal contrasto fra l’elemento animatore (artisti, figuranti, dispositivi mobili, effetti pirici) e la staticità meravigliosa del monumento.
La particolarità dell’espressività architettonica, che può apparire di per sé elemento poco differenziabile nel contesto europeo della spettacolarità del tempo, risalta più chiaramente nel momento in cui viene collegata alla cultura dell’animazione urbana. Se è vero che il dinamismo è una delle caratteristiche peculiari dell’arte rappresentativa dell’età barocca, figurativa o teatrale che sia, è anche vero che in nessuna area europea esso è realizzato così a ciclo completo come nel mondo ispanico. Qui tutte le componenti della comunità urbana, siano esse categorie sociali, lavorative, religiose, che forze individuali anonime, entrano in azione determinando un effetto dinamico totale; una sorta di cinghia meccanica tale che ciascuna parte sia in qualche modo collegabile all’altra, nonostante le differenze di livello artistico: dalle animazioni dei gruppi organizzati alla drammaturgia dei professionisti. Si tratta di un’unica estetica del movimento che organizza la dialettica delle forme che si rispondono e si modellano mutualmente. Si pensi, ad esempio, alle architetture sceniche delle comedias de Santos, che ripropongono nella loro continua mobilità l’idea del dinamismo delle macchine e degli ingegni dislocati lungo i percorsi processionali e, ancora, al valore drammatico degli elementi scenografici corrispondente a quello dei dispositivi architettonici reali. Si pensi anche all’unità degli apparati e degli impianti provvisori rafforzata dall’evolversi della processione stessa.
Di fronte a questi fenomeni di totalità espressiva cercare lo stile degli artisti «progettanti», come avviene ad esempio in tanti eventi del barocco italiano, significherebbe perdere di vista lo spirito di questo centro di irradiazione. Certo, in territorio spagnolo esistono individualità che hanno il compito di dirigere e coordinare, oltre che ideare, in collaborazione col potere, il teatro della festa. Si potrebbe ricordare il ruolo avuto da Lope de Rueda, ingaggiato più volte fino all’inizio degli anni ’60 dall’Ayuntamiento di Valladolid come maestro delle feste cittadine, nell’arricchimento drammaturgico delle feste del Corpus Christi e nella definizione artistica degli autos sacramentales. Su questa stessa linea si potrebbe seguire il senso degli interventi di Lope de Vega e Calderon de la Barca nei decenni successivi.
Su un altro piano, si potrebbe indicare la consuetudine stilistica degli architetti chiamati alla progettazione dell’effimero di ispirazione classica (in particolare degli archi trionfali); mentre nella Palermo contemporanea e del secolo successivo, dove il teatro dei drammaturghi e degli attori professionisti non poté trovare alcun radicamento, il contributo degli Amato e dei Palma all’evoluzione delle macchine e degli apparati rivelò un atteggiamento artistico ed una vocazione allo spettacolo che andarono ben oltre il ruolo istituzionale dell’architetto del Senato, addetto anche alle invenzioni della scenografia urbana. E si potrebbe continuare con gli artisti della Compagnia di Gesù o con i maîtres de fètes legati alle consuetudini locali, ingaggiati direttamente dalle municipalità. Tutti aspetti di una medesima realtà multiforme e farcitissima apparentemente non riconducibile ad unità stilistica, rispetto alla quale va tenuto costantemente presente il ruolo avuto dal re in persona, in quanto inventore del sistema unificante della festa, quale altro settore di resistenza all’idea dell’artista completo di estrazione rinascimentale.
Non dunque il poeta umanista che mette la sua arte al servizio del sovrano; ma il sovrano stesso, o un suo rappresentante, che, di fronte a un’estensione del campo spettacolare diversificata, stabilisce le regole e le distribuisce anche attraverso un sistema burocratico. In questo senso, in Sicilia, viceré come i Gonzaga, i Toledo, i Colonna, i d’Ossuna, si rivelarono geniali e originali interpreti dell’idea scenica del re di Spagna, in grado di adattare il principio della festa totale e regolata al progressivo configurarsi del processo di rifondazione della città-teatro. Una realtà, dunque, ben diversa da quella peninsulare con le sue città-Stato dove la interminabile serie di progetti e di interventi legati ai più prestigiosi tecnici dell’immagine è testimonianza di una consuetudine comune alla cultura ereditata dall’archetipo classico e metastoricamente destinata alla omogeneità formale. Come non identificare, infatti, l’unità dell’idea aristocratica dell’arte italiana nella produzione di Bernini, Borromini, Fontana, Grimaldi, Rainoldi, Gherardi, ecc.? Una corrispondenza diretta, questa romana, fra arte ed effimero, intesa nel doppio senso di riflesso del mondo aulico delle arti maggiori e di sperimentazione che porta verso questo stesso mondo [2]. Una pratica che, anche se rivolta alla cattura emotiva e al consenso, pone come incolmabile, in tutta la sua evidenza, il distacco della mente progettante dall’alto rispetto ai sensi del fruitore. Una condizione in cui, al tempo stesso, la degenerazione nella sovrabbondanza e nella ridondanza di combinazioni stravaganti e forzate, sempre più marcata man mano che si entra nel pieno dell’età barocca, non può far altro che precisare l’assetto sovrastrutturale dell’espressione artistica.
Queste forme di arte festiva, da un lato, sembrano tenere in vita qualcosa delle consuetudini feudali; tuttavia, quanto più la cornice feudale si gonfia di immagini e di eventi, tanto più essa viene a perdere le sue ragioni connettive per cedere il posto alle specializzazioni dello spettacolo e alle sue composizioni organiche. Come dire che lo spettacolo spagnolo nel corso della seconda metà del ’500, in molti aspetti, arriva a rappresentare la fine del feudalesimo all’interno dei modelli feudali, ma con una nuova modernità da intendere come costante distintiva dalla pratica medievale. Ricorrente è, in effetti, un sempre più aggiornato progresso spettacolare che, visto da un’altra angolazione, dà il senso di una condizione in fieri e, al tempo stesso, dà forza a quell’espressivismo cui si faceva cenno poc’anzi. La stessa colonizzazione della cultura italiana stimolò gli artisti locali ad emanciparsi, ovvero a riprodurre i modelli stranieri in una nuova dimensione originale. Una evoluzione spesso soltanto tecnica e formale, come risultato dell’assimilazione di nuove tecniche figurative e di successivi fenomeni di discesa: in particolare per la danza, dalle coreografie curtensi agli adattamenti popolari. Ma insieme a questo non va trascurata l’importanza di una sorta di ritorno di canoni giocosi nel fatto spettacolare: il giuoco come elemento organizzatore della nuova tradizione scenico-antropologica (il versante delle mascherate e del teatro comico dei corrales).
In questo stesso contesto di proposte e di ricerca continua delle novità, pur all’interno di schemi ripetitivi, l’esperienza spagnola tende a risultati d’arte anche attraverso l’operato di artisti anonimi. E se nelle botteghe di Siviglia splendide miniature in cera riproponevano i modelli delle macchine festive del Corpus Christi, a Palermo, nei piani bassi della via Toledo gli esercizi commerciali e artigianali esibivano piccole invenzioni sul tema della festa: modellini di carri, fontane d’argento e archi trionfali con addobbi, e ancora innumerevoli prove di abilità artigianale in scala ridotta. La manualità e il vissuto del mestiere, trasferiti, dunque, sul piano dello spettacolo come uso obbligato della genialità creativa ed inventiva. Si pensi al successo avuto dall’invenzione della vernice d’oro avvenuta a Palermo ad opera di un Antonio Cento e subito impiegata negli addobbi festivi ed esportata a Roma e in Spagna [3]; una cultura che poggia su basi povere, materialmente elementari, però orientabili al sublime per sapienza artigiana.
In questo stesso quadro di continui aggiornamenti, il rapporto tra festa e teatro diventa un’altra ricorrenza fondante della progressiva definizione dello spettacolo ispanico del secondo ’500. È dall’idea della festa e dall’espressivismo ritualizzato delle azioni festive che nascono e si sviluppano, come è noto, i meccanismi drammaturgici, quanto meno di una parte importante della produzione dei grandi autori spagnoli dal ’500 al ’600. A Palermo, l’esempio più significativo fu dato dalla commedia di Tommaso Aversa La notti di Palermu, ambientata nel carnevale del 1637, di fronte alla città in maschera che partecipò in massa all’evento. Anche in questo caso, dunque, alla anonima preteatralità va riconosciuta una funzione di arricchimento; e del resto non può immaginarsi l’arte rappresentativa ispanica fuori da questo terreno.
La spettacolarità, aggiornata, espressivista, totale, moderna per quanto possa essere stata, continuò pertanto ad integrarsi per contesti cerimoniali e sociali. Gli stessi attori professionisti dovettero adattare il loro mestiere a questa condizione per potere assicurare continuità e durata al loro lavoro. Del resto, esiste una profonda corrispondenza fra buona parte del teatro della cultura ispanica e le azioni cerimoniali degli spazi festivi urbani, in quanto, in entrambi i casi, la finzione scenica è riferita alla metafora e al simbolo, strumenti espressivi utili a comunicare verità che non possono essere contrastate, sia che riguardino la sfera religiosa che quella civile. È così che, mentre da un lato il rito si spettacolarizza, il teatro, nel momento stesso in cui concretizza il bisogno della comunità raccolta attorno alla verità delle azioni e delle finzioni simbologiche, riconquista a sua volta il significato liturgico e il suo valore profondo, portandosi idealmente fuori dal teatro, ossia da quella recinzione nella quale l’idea dominante lo vuole istituzionalmente collocare. Ma a questo punto, perché le indicazioni finora espresse possano avvalorarsi, bisogna calarsi nel seguente contesto interpretativo:
- A differenza della cultura dello spettacolo della Rinascenza, in quella della hispanidad le forme e le consuetudini teatrali, comprese quelle riscontrabili negli spazi separati dalla piazza, rimangono direttamente o indirettamente collegate alla gestione, all’economia, all’ideologia del potere e alle direttive dell’azione controriformista e comunque ai tempi e alle esigenze del calendario festivo urbano;
- L’orchestrazione e la tensione della cultura materiale, della pratica drammaturgica e delle stesse consuetudini della vita e della funzione teatrale, in quanto caratterizzate dal coagulo di interessi, bisogni, gusti, attitudini, sono tali che le stesse contrapposizioni interne e le irregolarità diventano, a loro volta, elementi fondanti e giustificativi della regolarità, dell’unità complessiva e della liturgia che le governano;
- Il gusto teatrale rimane legato al piacere del festeggiamento, con le sue varietà d’uso – sacre e profane – della musica, con il ballo, le mascherate, i giochi civili e militari, gli spettacoli degli animali, le azioni sceniche sui carri degli autos e negli spazi chiusi (e al tempo stesso aperti) dei corrales, o delle strutture architettoniche adatte a restituire l’idea del teatro-festa, come fu a Palermo per rimpianto dello Spasimo, la grande chiesa sconsacrata, dal tetto altissimo, come una struttura en plein air adattata a teatro di Stato per le masse.
- La presenza attiva del pubblico fa sì che la festa si trasformi in spettacolo vero e proprio, nel senso che la partecipazione di massa è a sua volta un forte incentivo all’invenzione, traducendosi la religione in fantasia e fornendo la vita dei santi pretesti per determinare favolose ambientazioni. Se da un lato, pertanto, la festa impone uno sforzo e una partecipazione, ma anche un godimento collettivo, dall’altro, da quella stessa partecipazione nascono degenerazioni individuali o di gruppo, gesti inconsulti, ambigui movimenti (come nelle pratiche delle discipline o nelle licenze del carnevale), ambito di riti dionisiaci, fra eros e thanatos, ma anche contrapposizione netta rispetto alle prove dell’intelletto. Si pensi all’effetto ispirato dai simulacri dei santi, alla tensione dello strazio della carne provocato dalle discipline, ma anche all’ebbrezza e allo spaesamento mentale provocato dalle fantasie barocche dell’effimero e delle macchine, e alle licenze e ai giochi cui è possibile abbandonarsi sull’onda della devozione; un moltiplicarsi di slanci fino alla dimensione della provocazione e persino della rivolta in una congerie di grottesco e di follia su cui tuttavia la stessa festa determina, al contrario, condizioni riequilibratrici;
- In questo contesto sociale il drammaturgo, come l’attore, libera le sue capacità creative e interpretative, in quanto sa che esse sono proiettate in uno spazio effettivamente non separato da quello dello spettatore. Il pubblico e le forme artistiche, ed insieme l’evento in cui entrambi si collocano, si presentano, pertanto, come indifferenziati. Al tempo stesso, il fasto e l’artificiosità della festa prebarocca e barocca diventano prova diretta della potenza di chi promuove l’evento; e quanto più articolate e diverse sono le manifestazioni sociali della festa, tanto più, esaltandosi reciprocamente, consentono, attraverso una globale unità d’effetto, di portare ai livelli più alti la misura del consenso;
- A questa logica unificante non sfugge nemmeno il teatro, che anche quando è rappresentato in luoghi separati dalla piazza, siano essi i corrales o i teatri di corte o gli edifici al chiuso adattati per la scena pubblica, risponde all’idea di uno scenario di Stato, nel senso della identificazione di quella società, con le sue regole, la sua religione, il suo monarca, le sue consuetudini, le sue, pur controllate, trasgressioni.
Da queste premesse è possibile tracciare le costanti della materia di cui ci occupiamo. Il teatrale della hispanidad mediterranea, sostanzialmente di carattere urbano, ha una forte connotazione liturgica, sia in senso religioso che laico, ed è ampiamente caratterizzato dal popolarismo. Sul piano espressivo esiste una forte combinazione di stratificazioni culturali locali e di sollecitazioni esterne che si traducono spesso in risultanze di tipo coloniale. La logica della varietà delle compresenze porta a un costante addestramento e, quindi, a uno stile di lunga durata sul piano dell’organizzazione interna della molteplicità delle esperienze. Il che consente, fra le altre cose, di congiungere con disinvoltura l’alto e il basso, come è sempre stato nella grande cultura teatrale.
I denominatori comuni di queste coordinate sono: la globalità, intesa sul piano urbanistico e del coinvolgimento degli interessi collettivi; la fruizione-relazione dell’evento teatrico contrapposta all’idea di rappresentazione; l’orizzontalità e la simultaneità degli schemi spettacolari e rappresentativi in opposizione alla gerarchia dei livelli sociali e culturali propri della cultura umanistico-rinascimentale; la radicalità dell’idea di teatro, come sostanza speculare ai principi dello Stato regolato, unito nella sua identità di massa, e attraversato dalla morale controriformista. In questo senso, il gioco magico della scena e del meraviglioso, piuttosto che stabilire una sorta di distacco implicito, di genere contemplativo, com’è nella logica intellettuale della Rinascenza (anche sul versante della festa urbana), determina una partecipazione in un certo senso istintiva e immediata, sollecitata dal preconscio e dal bisogno (ma anche dal profitto), secondo meccanismi che i Gesuiti, forse più degli altri operatori della Controriforma, dimostrarono di conoscere. Secondo questa prospettiva, l’assetto cerimoniale e persuasivo delle pratiche della Chiesa, addestrata a rappresentare per coinvolgere ed educare, costituisce una componente fondamentale del parateatrale diffuso nell’area ispanica.
La stessa continuità dell’impegno edificante, in contrapposizione alla temporaneità del professionismo scenico, agevola in un certo senso il determinarsi di una sintonia stretta, sia con il potere civile che vuole il consenso popolare e la regolarizzazione della vita dei costumi dei suoi sudditi, sia con il popolo che riconosce nei meccanismi di produzione, e nella stessa pratica dello spettacolo controriformista, andamenti di lunga durata e rassicuranti, peraltro riscontrabili nel processo metamorfizzante che porta dallo status quotidiano a quello magico della dimensione spettacolare. Si pensi al mascheramento progressivo del sacerdote quando diventa officiante o all’architettura ecclesiale (ma non soltanto ecclesiale) trasformata dalla sovrapposizione dell’addobbo e dell’effimero e al senso di familiarità che la loro solida pesantezza ispira. Persino l’immagine della morte, così frequentemente presente nelle allusioni visive e nelle prediche, lungi dal terrorizzare, attrae come se fosse essa stessa anima di un cerimoniale collettivo, ma, a un tempo, fruibile individualmente, destinato a proteggerci in eterno.
Posta questa premessa di ordine generale sulla spettacolarità nel mondo ispanico, nella quale pure la Sicilia vicereale è riconoscibile, cercheremo, dove possibile, di evidenziare le differenze che possano consentire di individuare lo specifico della forma del teatro nell’Isola. In questo senso, un’attenzione particolare sarà rivolta alla città di Palermo, in quanto sede emblematica e luogo di rappresentanza massimo della regione.
Ciò che distingue questo centro della Sicilia dalle altre capitali del teatro barocco è l’estensione e la polifunzionalità teatrica dello spazio scenico urbano, che si estende fra l’entroterra (a sud) e il mare (a nord) per tutta la lunghezza della città e aggancia, attraverso gli slarghi e i bracci viari che si aprono e si dipartono da questa verticale, il resto dell’urbe; insieme a questo, la totalità del rapporto che si viene a stabilire fra la città, nel senso dell’estensione urbana (ma anche in quello della vita economica, sociale, culturale e politica), e il luogo teatrale; laddove il concetto di totalità include anche i reticolati dei vicoli adiacenti ai percorsi di rappresentanza, nella accezione di laboratorio multiplo in cui si sviluppa la complessa e articolata catena dell’allestimento delle macchine e degli apparati, e di tutto ciò che attiene al visivo effimero e provvisorio della scena urbana.
È così che Palermo vive per due secoli una eccezionale preponderanza dell’artigianato della festa nel ritmo produttivo della città, al punto che attorno ad esso maturano interessi ed esperienze, ma anche astuzie di mestiere motivate da vere e proprie esigenze di sopravvivenza, fra l’invenzione di nuove tecniche talvolta originali ma destinate a rimanere nell’anonimato.
Se ci collochiamo su questa prospettiva materiale del teatro, intenderemo meglio due aspetti specifici di questa città: a) in una realtà urbana sovrappopolata di artigiani dell’effimero non ebbe ragione di affermarsi il mercato dei comici, commedianti dell’arte compresi, nonostante numerose compagnie venissero ad esibirsi nell’Isola, provenendo dalla Spagna e dal continente italiano; ciò determinò in Sicilia l’assenza di attori professionisti fino a tutto il ’700; b) alle ragioni di ordine generale per le quali l’opera dei Gesuiti profusa nelle discipline dello spettacolo ebbe modo di affermarsi, in Sicilia se ne aggiunse in particolare una, sotto certi aspetti più concreta ed elementare: i nostri artigiani videro nei padri della Compagnia di Gesù i maestri dai quali apprendere l’arte dell’effimero e al tempo stesso veri e propri operatori, non strutturati all’interno dell’istituzione teatro. Come dire, una sorta di interlocutori possibili, non separati dalla soglia aristocratica dell’intelligenza e, in quanto tali, assimilabili nell’ambito della pratica lavorativa del quotidiano.
Due secoli di condizionamento ispanico fissarono inequivocabilmente le costanti di uno specifico legato alla cultura materiale e alla visione ritualistica e cerimoniale dello spettacolo, sì da rendere impossibile 1’esistenza di forme della rappresentazione omologabili ai valori della storia del teatro. Ciò non vuol dire, però, che non si alimentassero desideri di protagonismo e spirito di emulazione, anche rispetto a forme di spettacolo importato. Non è un caso se, pur in assenza di una continuità teatrale, a un certo punto emersero fenomeni isolati, come il settecentesco Nardu da Terrazzano, vero e proprio archetipo della tipologia di attore-icona, o che cominciarono a configurarsi, nell’ambito della para-teatralità legata alle feste devozionali e del carnevale, personaggi in veste di occasionali attori [4]. Né sono da sottovalutare episodi drammaturgici destinati a rimanere prove irrinunciabili legate al Natale e alla Pasqua (come fu, rispettivamente, per Lu viaggiu dulurusu di Annuleri e II martirio di Orioles) o comunque alla tradizione agiografica popolare, come avvenne per la Conversione di Santa Margherita del Bonajuto.
Il declino tardo-settecentesco della ritualità antica consentì di trarre profitto dall’addestramento secolare all’assimilazione di fenomeni importati. Una sorta di aria troppo a lungo compressa, allora, non poté fare a meno di esplodere, rivelando la modernità della scena siciliana fra ribellione e sperimentalismo. La temporalità autonoma del nostro teatro e il cosiddetto ritardo rispetto alla cultura sovranazionale dello spettacolo in realtà offrirono il campo ad improvvise accelerazioni e ad originalità inattese e insospettabili per una Sicilia così marginale.
Questo spiega la comparsa del fenomeno delle “vastasate” e poi la rapida affermazione dell’Opra dei pupi nella sua articolazione formale e come laboratorio di tradizione e d’avanguardia al tempo stesso, estremamente mobile e metamorfico nella sua materializzazione artigiana e nella sua trasformazione in teatro in carne ed ossa fino all’avvento del grande attore.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Alberto Naselli, in arte Zan Granassa, 1540-1584, famoso attore di commedia dell’arte, soprattutto nel ruolo di Arlecchino. Lasciò l’Italia nel 1574 per trasferirsi in Spagna dove, oltre a recitare con grande successo, contribuì alla formazione di attori della commedia spagnola portando anche la sua opera di corago di grandi eventi di teatro festivo urbano per conto di re Filippo II.
[2] Per una visione sistematica della cultura dello spettacolo barocco a Roma, rimandiamo per tutti al fondamentale saggio in due volumi di M. Fagiolo, S. Carandini, L’effìmero barocco, Roma, 1978.
[3] Cfr. V. Auria, La Sicilia inventrice, Palermo, 1704.
[4] Giustamente Meldolesi (Esperienze del Sette-Ottocento in Sicilia fra preteatro e teatro d’arte, in Aa. Vv.,.Prima e dopo il teatro, Salerno 1990: 161) fa notare che il marchese di Villabianca, per lasciar memoria dei «giochi soliti farsi nel carnevale palermitano», ricorse al lessico teatrale. «Folle attore» fu definito il Mastro di Campo nella omonima pantomima carnevalesca; e attori furono chiamati gli animatori del «gioco dell’oca e della papera»; mentre le altre numerose pantomime in uso nella medesima ricorrenza furono descritte come vere e proprie azioni sceniche (cfr. Emmanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, De’giuochi popolareschi di Palermo, ms. Qq E 77-124, XIII, Bibl. Com. di Palermo).
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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone e Il Teatro dei gesuiti sono i titoli delle sue ultime pubblicazioni.
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