Premessa
Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste [1], a cura di Antonio De Rossi (Roma, Donzelli, 2019) è un libro composito e tuttavia sorretto da un impianto unitario fortemente condivisibile. Siamo di fronte a un tentativo di riflessione scientifica ma anche a una straordinaria sollecitazione di ordine civile e politico sul tema degli abbandoni e delle crisi demografiche che riguardano, oltre a vari luoghi del mondo occidentale e non, in particolare l’Italia, in tutte le sue specificità geografiche. Questa rivista ha ospitato diversi interventi sul volume curato da Antonio De Rossi, fra cui la densa riflessione critica di Alessandra Broccolini [2], cui mi riallaccerò, per tentare di individuare, oltre ai suoi, ulteriori punti di approfondimento antropologico.
Interdipendenze
Per giustificare questa lettura di Riabitate l’Italia devo partire dalla mia esperienza di studio ad Armungia, 480 abitanti attuali, provincia di Cagliari, uno dei centri della regione storica del Gerrei, Sud-Est della Sardegna. Armungia è, con le parole di Pietro Clemente, il Paese di Qualcuno [3], il paese di Emilio e Joyce Lussu, ma che ho provato a studiare, iniziando oltre vent’anni fa, a prescindere da questo tratto, come una comunità in pericolo di estinzione demografica di un’area periferica della Sardegna [4]. Negli anni ‘90, per il Mezzogiorno e le Isole, non era disponibile su questo tema una copiosa letteratura sociologica e antropologica. Avevo però incontrato studi compiuti fra gli anni ‘60 e ‘80, fra cui spiccavano da un lato quelli sulle comunità alpine di Pier Paolo Viazzo [5] e sulle Alpi marittime di Adriana Destro [6] e dall’altro l’inchiesta etnografica corale diretta da Isac Chiva e Joseph Goy sui Pirenei francesi [7]. Questi lavori permettevano di valutare il carattere articolato e relativo dello spopolamento montano in Europa e di apprezzare il significato del rimescolamento di presenze e di ruoli nei suoi abitati e nei suoi siti produttivi. I mutamenti studiati in quei contributi riguardavano specifici spopolamenti in quota, sostituzioni di residenti, avvicendamenti nei settori economico-produttivi, cambiamenti nel regime possessorio dei fondi, attivazione di cicli migratori complessi e ondivaghi lungo tutto il ‘900. Viazzo, Destro, Chiva e Goy constatavano, in modi diversi, l’articolazione delle crisi demografiche nelle aree montane con dinamiche storiche ed economiche più grandi e interdipendenti, come l’irrompere del turismo invernale nelle valli alpine meglio esposte, la costruzione di bacini idrografici in quota tali da sconvolgere i precedenti equilibri sull’uso dei declivi, la dipendenza dal mercato capitalistico che gettava in crisi la terza generazione delle grandi aziende agricole pirenaiche.
Erano indicazioni che inducevano a concentrare l’attenzione verso un’interdipendenza inedita fra dinamiche diverse, solo in parte leggibili come conflitti centro/periferia, urbano/rurale, tradizionale/moderno. Oggi essa si presenta ormai in una dimensione storica e si esprime nei termini di un’emergenza globale di popolamento che non esclude i distretti urbani, si tratta precisamente del fenomeno proposto dal volume curato da Antonio De Rossi. A questo proposito, una delle prime prospettive offerte da Riabitare l’Italia, è che gli spazi italiani in abbandono sono spesso spazi costruiti, segnati da una vicenda abitativa trascorsa di esito infausto. Per la prospettiva dell’antropologia quest’approccio equivale quindi all’invito a tenere conto di una possibilità d’intervento e di progetto nel territorio, cosa che gli antropologi di solito non considerano fra le loro attribuzioni. Ma il problema dello spopolamento costringe ormai a ridurre il più possibile la distanza fra l’osservatore e il propugnatore di policies e sotto questo profilo sono gli stessi antropologi che hanno contribuito al volume che hanno dichiarato la loro volontà di sentirsi parte coinvolta del discorso, non soltanto testimoni di esso.
Le sei Italie
Riabitare l’Italia è composto da apporti dal campo economico, statistico, architettonico, urbanistico, sociologico, ambientale e antropologico. L’impronta generale del volume è data quindi da una sensibilità da territorialisti, in cui l’approccio risente in primo luogo della volontà di attrezzare dei campi di conoscenza che possano dialogare poi con chi si occuperà di progettazione di concreti interventi sul territorio, in tutte le aree indicate, con prevalenza per gli aspetti di riordino o di preservazione ambientale e di quelli d’intervento infrastrutturale e strutturale. Questo impianto propositivo e pragmatico è innervato da un grande ariosità e ricchezza di spunti e di visioni trasversali, che emergono costantemente in tutti gli interventi. Qui di seguito si propone una breve, lacunosa e arbitraria ricognizione su questa ricchezza e fertilità di analisi.
Arturo Lanzani e Francesco Curci, ad esempio, propongono una riflessione sul “mondo delle cose” nelle aree di esodo rurale. Il mondo delle cose abbandonate sembra avere una enorme riserva di senso. La materialità fornisce stimoli per la reinvenzione del futuro [8].
Un altro elemento importane è l’uso fecondo della definizione dicotomica ‘Italia dell’osso’/’Italia della polpa’ di Manlio Rossi Doria che si sviluppa, nella dimensione storica degli studi sullo spopolamento, in un contributo di Pietro Bevilacqua. Il punto decisivo che egli esplicita è che le dinamiche del territorio, dei luoghi, delle regioni e degli spazi non possono essere mai lasciati agli appetiti liberi dei mercati [9]. Se ciò accade ne risulta drammaticamente l’assenza di manutenzione e di controllo: l’osso della penisola (la sua dorsale montuosa) priva il resto del territorio della polpa (le valli e le pianure dell’inurbamento), della protezione dai fenomeni meteorici sempre più violenti e caotici. Questa definizione ha un potente valore simbolico ed esplicativo.
Arturo Lanzani e Federico Zanfi propongono due meta-narrazioni sull’evoluzione recente del paesaggio italiano come territorio abitato; la prima è la storia di una attivazione lavoristica ‘virtuosa’ sul territorio fondata su una immagine di ‘riscatto’ di popolazioni rurali: la seconda è la storia di una relazione ‘viziosa’ col territorio, espressa da una continua erosione del capitale fisso ereditato e fondato su un’utilizzazione individualista di ogni porzione del suolo [10]. I due autori propongono un’importante riflessione sull’urbanizzazione diffusa. Essi parlano di un’Italia del “rancore”, cioè delle aree che hanno conosciuto un grande benessere economico e che lo hanno vissuto senza un’adeguata gestione delle risorse storiche e ambientali, e che hanno ora enormi problemi nel fondare dei criteri di “ri-uso” e di “ri-abitazione” di quelle stesse aree [11]. Questo decadimento, vissuto come una deprivazione, ha contribuito a generare orientamenti politici a loro volta regressivi.
In un ideale collegamento con queste considerazioni Cristina Renzoni propone cinque immagini diverse del discorso pubblico sul territorio in Italia dal secondo dopoguerra a oggi: il territorio come terra e materia prima, il territorio come superficie da attrezzare, il territorio come risorsa e patrimonio, ìl territorio come sommatoria di contesti, infine un territorio in ‘penombra’, con l’emergere dell’idea di ‘città metropolitana’ e di quella di ‘potenzialità del territorio’[12].
Il primo dei contributi antropologici è quello di Vito Teti [13], che propone alcune prospettive importanti. La prima è quella di eliminare la distanza fra attore e spettatore [14] e inoltre quella di elaborare un senso costruttivo della nostalgia e di rivolgerla all’ignoto, non al passato, intenderla come «sentimento morale e rigenerativo di “presenza» [15]. Ma c’è una paura attuale di pensare il futuro. «La vita passata ci appare come la sconfitta…» [16]. C’è un nuovo paradigma che sostituisce l’homo sapiens. Occorre per Teti riempire gli spazi lasciati vuoti, occorre «… rintracciare piccole isole di intimità nel mare della sofferenza» [17].
Pietro Clemente, nel secondo contributo antropologico, a proposito dei modi di abitare i territori spopolati costruisce, con Clifford, una feconda nozione di “indigeno” contemporaneo [18]. Egli riconosce una consonanza fra i risultati di una antropologia alpina italiana degli anni ‘80, dovuta a Gian Luigi Bravo [19] e a Paolo Grimaldi [20], sotto l’ispirazione della attenzione ai movimenti sociali di Luciano Gallino, in cui emergeva il modello di un abitante ‘pendolare’, definito da una appartenenza a mondi locali e urbani. Lo stesso ibridismo, questa volta non solo bipolare, emerge in James Clifford [21], a sua volta in riferimento a Stuart Hall, con il concetto di ‘articolazione’, «che esclude i modelli dicotomici e prova, invece, a vedere il mondo come fatto di costruzioni, pezzi, connessioni, frammenti, dotati di autonomie parziali e quindi sede di movimenti locali come connessioni fatte di costruzioni» [22]. Questo insieme articolato di appartenenze parziali definisce dunque gli “indigeni del ventunesimo secolo”, e Clemente li incontra pensando alla sua stessa esperienza di vita e alle comunità che incontra anche come studioso coinvolto nella rete dei piccoli paesi, nata non a caso, ad Armungia nel 2016.
I contributi degli antropologi sono bilanciati dunque su un posizionamento piuttosto interno ai fenomeni che studiano, mentre la maggior parte degli altri partono da un proposito più oggettivante. Questa distanza emerge prepotente (ma in modo armonico e non stridente) se si guarda lo sforzo analitico e razionalizzatore di Lanzani e Curci quando propongono la loro griglia fenomenologica-classificatoria sulle “sei Italie” in spopolamento. Essa è rappresentata nella mappa 15 a p. 86: 1) Borghi e terre alte in abbandono; 2) Fondivalle, pedemonti e conche “intristiti”; 3) Campagne produttive in spopolamento; 4) Urbanizzazioni diffuse e distrettuali in crisi; 5) Litorali consumati dal turismo di massa; 6) Periferie e interstizi urbani “fragili” [23].
Su questo stesso versante analitico e classificatorio Curci e Zanfi descrivono una dimensione del costruito in Italia, tra abbandoni e riusi [24]. Essi tracciano un’utile classificazione qualitativa dei tipi di fabbricati associabili a ciascuno dei ‘tipi’ di Italia in contrazione demografica: antiche case, tracciati, suoli lavorati, lasciti e rimesse del turismo nelle zone alte e nei borghi abbandonati. Si tratta di una cangiante ‘immagine del borgo’, descritta dagli architetti, che comprende ancora: case, capannoni produttivi e commerciali; edilizia rurale e infrastrutture agricole; case di famiglia e capannoni nei distratti in crisi; case prime e seconde in località turistiche litoranee fortemente degradate.
Critica della patrimonializzazione
Uno dei contributi più interessanti e controversi del libro è la critica al paradigma della patrimonializzazione condotta da Antonio De Rossi e Laura Mascino [25]. Il paesaggio italiano, osservano gli autori, prevede borghi arroccati sulle colline del Centro e del Sud; insediamenti in pietra nelle valli alpine o a picco sul mare; centri storici di cittadine del centro Italia; reticoli stradali antichi; ambienti antropizzati sistemici fra selva, campi agrari di pascoli; opere e manufatti sparsi come attrezzature del territorio; regimentazioni idrauliche; edifici della prima fase del turismo. Insomma, si tratta di un “enorme palinsesto patrimoniale”, dotato, in ogni sua parte di una “matrice costruttiva specifica”, già sondata da Carlo Cattaneo o da Emilio Sereni [26]: «dispositivo territoriale», contemporaneo e sostenibile, dotato sia di una valenza patrimoniale, sia di una dimensione materica e fisica – portatrice «di opportunità ma anche di immaginari, costituente l’infrastrutturazione morfologica, insediativa e ambientale, dell’Italia altra»[27]. Gli autori a questo punto formulano due domande: al di là del dominio storico e culturale, quale può essere il ruolo di questa realtà rispetto alla questione del riabitare? Considerata la centralità della dimensione economica e sociale nel riabitare, quale può essere il ruolo del progetto di spazio?
Per rispondere occorre riconcettualizzare il significato e le valenze dei termini ‘patrimonio’ e ‘progetto fisico’. Per farlo occorre affrontare un paradosso che riguarda le pratiche, le visioni, gli immaginari sui ‘territori altri’. Da un lato emerge la diffusione di una ‘moda’ per montagne, aree interne, borghi storici, luoghi marginali. Moda, o nuova attenzione verso le qualità ambientali e paesaggistiche. Dall’altro però la centralità degli aspetti fisici «non trova riscontro nelle ordinarie pratiche di gestione di trasformazione dei territori»[28]. Insomma, per gli autori, quando si parla di politiche per la qualità dei territori, essa si traduce invariabilmente, «nei casi migliori, nella conservazione e nella valorizzazione delle risorse storiche e naturali dei luoghi», secondo le logiche di un “paradigma della patrimonializzazione” dominante negli ultimi 25-30 anni. Questi studiosi affermano che gli interventi progettuali nel territorio seguirebbero un’impostazione, sia nell’ex-novo, sia nel riuso, spesso mimetica del pre-esistente, o di taglio tardo-modernista e pseudo-funzionalista [29], specie nella produzione pubblica. Addirittura si tratterebbe in certi casi di una ‘produzione a catalogo’. Il risultato è la omologazione dei luoghi e il decremento dei valori e delle specificità locali. L’errore è di considerare lo spazio un mero «contenitore di risorse da valorizzare, o come una superficie indifferente» capace di ricevere qualsivoglia progettualità.
Le culture della patrimonializzazione, le retoriche sulle buone pratiche e sulla sostenibilità hanno concorso a privare «lo spazio della sua valenza progettuale e produttiva» [30], in quanto luogo di incontro e di intreccio fra idee, azioni, processi e intenzionalità. Occorre riportare l’attenzione sul ruolo produttivo degli spazi nei processi rigenerativi. «Quassù non c’è niente da consumare. C’è invece molto da produrre» [31]. Occorre dunque cessare di pensare alla montagna come a un luogo da espropriare e consumare. Poi gli autori passano a un’argomentazione più circostanziata, in cui mettono in luce la natura problematica di concetti-valore come ‘identità’ e ‘tradizione’. Le politiche di intervento di tipo ‘patrimonializzante’ si sono concentrate su «alcuni temi ricorrenti: piccoli musei ed ecomusei, cultura materiale e prodotti tipici, memoria e tradizioni, sentieri e percorsi tematici, paesaggi e manufatti storici e rurali…»[32], quasi sempre in vista di una valorizzazione turistica. Le ragioni di questa impostazione sono individuate e conclamate in una ‘volontà di risarcimento’, in un proposito di ‘ricapitalizzazione di palinsesti straordinari di risorse e memorie in cui rintracciare nuovi valori simbolici e di uso. Le basi teoriche di questi discorsi sono H. De Varine e G. H. Riviére. Per gli autori, col tempo, lentamente, l’assunto si è rovesciato: «il fine ultimo della patrimonializzazione, piuttosto che la comunità e lo sviluppo locale, è diventato il patrimonio stesso»[33]. Dalla ricerca della diversità si è giunti, paradossalmente, a una iterazione, a una ripetizione di unicità di fatto, l’una analoga all’altra. Il territorio, visto col filtro dell’identità, si presenta solo con i caratteri della permanenza, stabilità e continuità (ib.). Quindi tutto rischia di ridursi, in architettura, a una mera questione di utilizzo di «materiali (ritenuti) tradizionali e di stereotipizzazione delle forme»[34]. Questo ordine del discorso è quindi tarato per realizzare un paesaggio culturale come “retrotopia contemporanea”. In questo modo si nega la ‘radice produttiva’ dei territori, poiché si mettono in ombra le valenze e le opportunità endogame del territorio.
Le conseguenze negative della ‘tendenza patrimonializzante’ così come si è storicamente consolidata in Italia sono che: a) tale visione assolutizza la valenza figurativa del paesaggio a scapito di tutte le altre dimensioni; b) in tale modo si nega la matrice storica dei paesaggi; c) il paradigma della patrimonializzazione conduce a una separazione della questione formale da quella strutturale. Da un lato l’estetica dei luoghi, dall’altro il trattamento del rischio ambientale, delle infrastrutturazioni, delle condizioni abitabilità del territorio. Emerge e traspare un’idea di sviluppo incentrata solo sul turismo, basata sull’esigenza soprattutto di immaginari urbani, piuttosto che «a un vero progetto di sviluppo autocentrato e di riattivazione delle risorse territoriali e delle comunità locali»[35]. La dimensione prevalente è stata autarchica, essa ha escluso l’innovazione sociale, economica, tecnologica, culturale, senza scambi di competenze e di risorse fra il dentro e il fuori. Emerge così un dogma territorialista da cui, come per incanto, scompaiono i conflitti, a parte quelli tra globale e locale, «e dove i fini (la creazione delle condizioni per uno sviluppo non distruttivo e durevole delle specificità territoriali) vengono infine sostituiti da i mezzi (la valorizzazione delle specificità territoriali»[36].
Occorre sviluppare una critica contro le visioni territorialiste dello sviluppo locale. La visione territorialista «ha portato a dimenticare la dimensione spazialmente multiscalare e conflittuale dello sviluppo e delle politiche»[37]. Questo è accaduto anche grazie a una tendenza alla tipicizzazione dell’eccellenza e alla banalizzazione e omologazione di ciò che viene percepito come ordinario, all’indifferenza per gli esiti fisici degli interventi intrapresi e del riconoscimento di qualità solo al paesaggio storico. La chiave di questo approccio è stata, per gli autori, spesso una mera applicazione fisica e trascrizione strumentale di una variabile dipendente che è stata capace di generare solo policies e razionalità di sviluppo [38].
Bisogna prendere atto, dicono gli autori, che quel «processo di coltivazione architettonica» dei suoli che ha caratterizzato tutta la storia dell’Italia del secondo dopoguerra, determinando sia speculazioni sia valorizzazioni economiche diffuse, si è compiuto, si è chiuso [39]. Da allora, quando si pensa ad organismi insediativi, saranno immaginati come «tendenzialmente conclusi in loro stessi». Da allora diventa preponderante la «riscrittura, adattamento, implementazione di quanto esiste» (ib.). Anche in seguito a specifiche innovazioni nell’intervento edilizio, emerge ora la figura dell’architetto come ‘bricoleur’, ‘mediatore’ e non come progettista nel senso classico. Si parla di attività come ‘ricucire il tempo’, come ‘processare risorse’, come ‘ creare le condizioni abilitanti il patrimonio’, per l’uso delle comunità locali.
Interessante il discorso sui ‘casi virtuosi’ individuati dagli autori: «i progetti di riattivazione e di rigenerazione dei luoghi vengono spesso a coincidere con la costruzione di una nuova comunità” [40]. Quali sono le strategie ricorrenti in questi casi? Il sistema per punti, il sistema in linea o a blocco, gli oggetti ‘calamita’. Fra questi rientra la creazione di «diversi musei ed ecomusei, di strutture per la cultura o comunitarie. Di edifici che occupano attività di riattivazione di antiche produzioni legate al territorio, di mercati agricoli a km 0 e spazi fertili gestiti da ruppi di acquisto solidale» [41]. Emerge una progettualità tesa a trovare nella materialità dei luoghi possibili ‘scarti di senso’ «immettendo tramite operazioni metasemiche nuovi valori allo spazio nell’intersecarsi fra storia e contemporaneità»[42].
Obiezioni
Alessandra Broccolini, nella sua riflessione su Riabitare l’Italia [43] riconosce al volume due grandi meriti: 1) aver collocato «in un dibattito trasversale, quindi pubblico, una questione importante come quello del rapporto fra ‘l’osso e la polpa’ dell’Italia…»; 2) aver proposto un approccio critico «nei confronti delle visioni che hanno storicamente caratterizzato le aree interne», esso invita a uscire dalle dicotomie usuali modernità/tradizione, città/campagna, sviluppo/ marginalità, nord/sud, pianura /montagna.
Le sue critiche al volume partono dalla percezione di una forte distanza disciplinare: gli architetti e urbanisti che contribuiscono al volume spesso concepiscono – nota Broccolini – le aree interne come dei ‘vuoti’ da riempire, anzi, dei luoghi in cui approfittare di quest’assenza per sperimentare nuovi modelli di intervento e di sviluppo. Essi dicono poco su ciò che c’era. Inoltre anche nei dettagli in cui si evidenzia la ricchezza del tessuto della solidarietà sociale e del volontariato, i sociologi che ne scrivono fanno generica menzione, per spiegarla, di non meglio specificate «forti connotazioni identitarie». Da qui Broccolini può parlare di riduttivismo, di insensibilità verso la cultura immateriale, verso la rete della solidarietà tradizionale, come le associazioni, le confraternite, che animano la socialità locale.
Sulla base di questa postura critica si sviluppa poi il discorso polemico più profondo su Riabitare l’Italia, quello sul saggio di Antonio De Rossi e Laura Mascino, Progetto e pratiche di rigenerazione … che è stato già trattato nel paragrafo precedente. Per Broccolini è distorsivo il giudizio dei due autori sull’arretratezza delle dinamiche locali, che trova semmai più adeguata a una visione storico-artistica dei patrimoni, perché non è plausibile vedere, ad esempio, nella fondazione di un piccolo museo etnografico locale una pratica egemonica, capace di drenare ingenti risorse finanziarie a scapito di altri usi.
Il paradigma della patrimonializzazione in antropologia è stato ampiamente dibattuto e mal si presta a simili forme di semplificazione e schematizzazione. Berardino Palumbo ha fortemente criticato le prospettive ‘interne’ dei beni culturali, quelle che assecondano le politiche ufficiali in cui lo studioso agisce come rappresentante della Sovrintendenza o di altri enti statuali che salvaguardano il patrimonio in un’ottica nazionale [44]. Queste retoriche ‘nazionali’ ricadono a livello locale e producono, su piccola scala, culture e identità ‘pure’, usate per drenare risorse e ottenere visibilità politica. L’antropologia ha invece cercato di decostruire queste dinamiche «senza cadere nell’illusione di credere nell’imbroglio del paradigma patrimoniale», quindi essa aiuta, in questo caso, a rendersi consapevoli dei meccanismi strumentali che collegano i processi di patrimonializzazione alle esigenze del mercato (il mercato delle identità e delle differenze culturali a fini turistici), un mercato neoliberista.
L’antropologa sostiene che le politiche di patrimonializzazione demoetnoantropologiche non hanno il carattere di una presa immobilizzante e conservativa sul territorio, ma che, al contrario, diventano «potente strumento di risignificazione dello spazio (sociale, culturale, fisico, affettivo, ecc.) e dunque dotato di un forte dinamismo». La ‘retrotopia’ è un fatto dunque contemporaneo, nota Broccolini citando Clemente. Essa dà conto di una ‘invenzione’ di tradizioni, un atto di «filiazione inversa», secondo Lenclud. In questo campo, non facilmente liquidabile – per Broccolini – come ‘conservativo’, come ritengono De Rossi e Mascino, si gioca la partita sottile, complessa e contraddittoria del patrimonio culturale. Emergono strategie, forme di creatività, manipolazioni, presunta fissità, “oggetti di affezione”, musei, eco-musei e svariate altre forme di immaginazione del patrimonio. Per Broccolini, il vigilare in questi processi e contribuirvi criticamente è fondamentale, molto più che prenderne preventivamente le distanze. Insomma, la critica di Broccolini è rivolta all’aspetto intrusivo ed eterodiretto dell’approccio più frequente alle valorizzazioni culturali locali che De Rossi e Macino sembrano caldeggiare e al privilegio da accordare alla protezione della continuità dei processi culturali e sociali di comunità fin troppo sconvolte da cambiamenti traumatici intervenuti negli ultimi cinquant’anni.
Di fronte a questi ragionamenti, di De Rossi-Mascino e di Broccolini, che sento concordanti per sensibilità e per posizionamento politico e discordanti sul modo di leggere ciò che accade nel terreno, mi sembra utile cercare di comprendere ‘il punto di vista del nativo’ che per me, che guardo come antropologo, è quello dell’ambito disciplinare prevalente in Riabitare l’Italia, quello dell’urbanista, dell’architetto, del territorialista e del pianificatore. Un tentativo da compiere riconoscendo come propria la prospettiva da cui guarda Alessandra Broccolini (e Pietro Clemente, e Vito Teti), e da cui tutti i punti critici rilevati dall’antropologa sono per me fondati e condivisi.
La dimensione locale è sede di processi sociali, culturali e immaginari delicatissimi, ricchi di implicazioni e di microfratture in cui un piccolo museo, un evento, una manifestazione che si radica nella comunità è il frutto di equilibri sottili e di patteggiamenti che a volte sfuggono dal radar di chi parla in prevalenza il linguaggio dell’intervento sugli spazi e sui tessuti abitativi di un territorio. Mi sembra tuttavia che la polemica anti-patrimonialista proposta da De Rossi e Mascino abbia dei punti di plausibilità che emergono forse meglio nei casi in cui la dimensione, l’articolazione e il trauma dell’abbandono territoriale sia numericamente rilevante, come quello proprio delle aree ex industriali dismesse, o di comparti di particolare peso storico-artistico o paesaggistico. Qui l’avvio dei processi di patrimonializzazione può avvenire quasi ‘in automatico’, sulla base della presenza di un forte legame ideologico e immaginario della popolazione superstite con il passato e possono sfociare, malgrado le dimensioni cospicue degli elementi in gioco (estese aree leggibili dall’archeologia industriale, forme complesse di antropizzazione del paesaggio con impianti, infrastrutture, strade, regimentazione di acque, ecc.), in esperienze ‘autarchiche’, in costruzioni di musei, eco musei, parchi nati dentro gabbie progettuali precostituite o in una dimensione troppo localistica.
Senza poter entrare nei dettagli, penso alla vicenda del Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna, istituito con decreto ministeriale del 16 ottobre 2001, come a un caso di intervento statuale in un’area di crisi demografica ed economica rientrante in quella casistica delle “sei Italie” proposta in Riabitare l’Italia. Si tratta di una istituzione nata con molte aspettative di intervento e di rivitalizzazione di territori che pativano pesanti dismissioni industriali, e la liquidazione di una raffinata e complessa cultura mineraria. La recente esclusione (2019) del Geoparco dalla rete dei siti minerari UNESCO fa oggi pensare sia a una progressiva distorsione, a partire dall’atto fondativo, dei rapporti fra dimensione centrale e locale, sia alla presenza di una filosofia di patrimonializzazione assai vicina a quella criticata da De Rossi e Mascino.
Qui emerge forse l’eterogenesi dei fini paventata in molte parti di Riabitare l’Italia, (e segnatamente nel saggio di De Rossi e Mascino), che il fine dell’azione sia il patrimonio in sé e non l’uso di esso per determinare risultati di ordine sociale, culturale e politico. Le piccole ma importanti esperienze di cui siamo in molti testimoni sembrano indicare che le possibilità di riabitare gli spazi abbandonati risiedano non solo in un’intenzione di ‘raccontare’ il territorio attraverso il suo vissuto, ma anche di immaginare e praticare strade nuove di domesticazione degli spazi e di uso delle abilità e del tempo. In fondo l’esperienza di Casa Lussu, anche a non volerla prendere come paradigmatica, indica proprio che senza il ‘fare’ della tessitura e della gestione e disseminazione dei saperi che a essa si collegano tutto il progetto di vita che è alla sua base verrebbe meno. Fra la vita quotidiana degli animatori di Casa Lussu e le realtà del museo dedicato a Joyce ed Emilio Lussu e del museo etnografico armungese c’è uno scarto, una distanza che individua bene, a mio parere, la tensione e il nodo critico fra riabitare e preservare che questo volume affronta per l’Italia in modo così denso e articolato.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Note
[1] A. De Rossi (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli, 2019.
[2] A. Broccolini, Ripensare la polpa e l’osso. Uno sguardo antropologico su “Riabitare l’Italia”, in Dialoghi Mediterranei, 1 luglio 2019.
[3] P. Clemente, Paese/Paesi, in I luoghi della memoria. Struttura ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997.
[4] F. Tiragallo, Restare paese. Per un’etnografia dello spopolamento in Sardegna, Cuec, Cagliari, 1997, 2008.
[5] P. P. Viazzo, Comunità alpine, ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1990.
[6] A. Destro, L’ultima generazione. Confini materiali e simbolici in una comunità delle Alpi marittime, Franco Angeli, Milano, 1984.
[7] I. Chiva, J. Goy, (sous la direction de), Les Baronnies des Pyrénées. Anthropologie et historie, permanences et changements, tome I, II, III, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1981.
[8] A. Lanzani, F. Curci, Le Italie in contrazione fra crisi e opportunità, in A. De Rossi, a cura di, Riabitare l’Italia, cit.: 102.
[9] P. Bevilacqua, L’Italia dell’osso. Uno sguardo di lungo periodo, in A. De Rossi, cit.: 120 ss.
[10] A. Lanzani, F. Zanfi, L’avvento dell’urbanizzazione diffusa. Crescita accelerata e nuove fragilità, in A. De Rossi, cit.: 132.
[11] Ivi: 139.
[12] C. Renzoni, Il secondo Novecento. Rappresentazione dell’Italia dei margini, in A. De Rossi, cit.: 141 ss.
[13] V. Teti, Il sentimento dei luoghi tra nostalgia e futuro, in A. De Rossi, cit.
[14] Ivi: 198.
[15] Ivi: 199.
[16] Ivi: 200.
[17] Ivi: 203.
[18] P. Clemente, Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo, in A. De Rossi, cit.: 365-380
[19] G. L. Bravo, Festa contadina e società complessa, Franco Angeli, Milano, 1984, con un’introduzione di L. Gallino.
[20] P. Grimaldi, Tempi grassi. Tempi magri. Percorsi etnografici, Omega, Torino, 1996.
[21] J. Clifford, Returns. Becoming Indigenous in the Twenty-first Century, Harvard University Press, Cambridge-London, 2013,
[22] P. Clemente 2019, cit.: 375-376.
[23] A. Lanzani, F. Curci, Le Italie in contrazione, tra crisi e opportunità, in A. De Rossi, cit.: 86, mappa 15.
[24] F. Curci F. Zanfi, Il costruito, fra abbandoni e riusi, in A. De Rossi, cit.: 207 ss.
[25] A. De Rossi, L. Mascino, Progetto e pratiche di rigenerazione dell’altra Italia e la forma delle cose, in A. De Rossi, cit.: 499-524.
[26] Ivi: 500.
[27] Ibid.
[28] Ivi: 501.
[29] Ibid.
[30] Ibid.
[31] Ibid.
[32] Ivi: 502.
[33] Ivi: 503.
[34] Ibid.
[35] Ivi: 504.
[36] Ivi: 505.
[37] Ibid.
[38] Ivi: 506.
[39] Ivi: 514.
[40] Ivi: 519.
[41] Ivi: 520.
[42] Ivi: 521.
[43] A. Broccolini, Ripensare la polpa e l’osso. Uno sguardo antropologico su “Riabitare l’Italia”, cit.
[44] B. Palumbo, L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Meltemi, Roma, 2003
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Felice Tiragallo, professore associato in discipline Demo-Etnoantropologiche nell’Università di Cagliari, le sue principali aree di ricerca sono il mutamento culturale e sociale (in particolare lo spopolamento nelle zone rurali del Sud Europa, le dinamiche dell’azione politica fra centro e periferie), la cultura materiale (i saperi incorporati, i processi di mercificazione di demercificazione, e i modi di produzione dell’autentico nelle società complesse) e l’antropologia visiva (i metodi di ricerca digitali, la conoscenza e la comunicazione non testuale, le pratiche del filmare). Il focus della sua ricerca è lo spopolamento come fattore di mutamento nella cultura materiale e sociale in Sud Europa.
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