Il grande sviluppo della vitivinicultura nell’area della Sicilia Sud Orientale (il Sudest Sicilia) e in particolare nel Pachinese, seguìto alla distruzione fillosserica dei vigneti (fine secolo XIX) e all’impianto di nuovi e robusti porta-innesti che utilizzavano la vite americana, portò a una intensa costruzione di nuovi palmenti al centro di vastissimi vigneti, che ripetevano e solo in parte rinnovavano antiche tecnologie ormai obsolete e strutture semi industriali. Agli inizi del secolo, e in particolare negli anni venti e trenta del ‘900, la commercializzazione del vino da taglio prodotto in grande abbondanza portò alla edificazione anche di piccoli e medi palmenti a conduzione familiare, e alla ristrutturazione dei grandi palmenti, dove il lavoro era perfettamente organizzato per la grande produzione di vino da esportazione. Con la specializzazione gli operai cominciarono a distinguersi in pigiatori, torchiatori e misuratori, oltreché naturalmente vendemmiatori, che erano i meno specializzati.
L’introduzione su vasta scala del torchio a cannizzu, consentì di velocizzare il lavoro e di ottenere una spremitura più completa, favorita dall’impiego di nuove fonti energetiche. Nacquero medi e grandi stabilimenti enologici appartenenti alle grosse famiglie di proprietari terrieri, che dal commercio del vino traevano grandi guadagni. Solo dagli anni ’60 nei palmenti si cominciarono a introdurre i moderni sistemi di vinificazione.
L’importanza della vitivinicultura nel Pachinese è testimoniata da alcuni impianti per la lavorazione delle uve, rimasti tuttavia fermi nella ricerca di nuovi sistemi di economia enologica. Una eccezione in questo contesto certo variegato, ma assolutamente convenzionale fu il palmento (o Stabilimento) Di Rudinì [1]. Di grandi dimensioni, è stato restaurato di recente e si prepara a una adeguata e definitiva valorizzazione. Esso resta a perenne testimonianza dell’impegno della famiglia Starrabba Di Rudinì nel voler pervicacemente trasformare l’agricoltura pachinese e del Sudest attraverso l’impiego di moderne tecnologie e strutture adeguate ai tempi, in particolare nel settore della vitivinicultura [2].
Antonio Starrabba Di Rudinì, dei principi di Giardinelli, antico signore di Pachino
Fu uomo politico e statista, ma anche imprenditore agricolo di elevate capacità e intuizioni geniali. Le vicende dell’uomo politico sono ben note, ma poco si sa della sua attività di imprenditore legato alla vitivinicultura. Resta la sua “creatura”, imponente, come una cattedrale, a lungo rimasta tale: uno spettrale edificio, presto abitato dagli spiriti, che facevano più che paura, sorridere, data l’affinità con “spirito di vino”. Vanno certamente studiate le carte relative al suo impegno in agricoltura, ma da subito si può affermare che sia nel settore agricolo, che di imprenditore del vino mai diede luogo a critiche, né mai provocò pesanti reazioni contadine (siamo nel periodo dei Fasci siciliani). Certo, ma qui poco importa, alla sua carriera politica brillante, al suo innato spirito imprenditoriale, non corrispose una vita privata e familiare degna di tanto personaggio, molti dei quali non dipendenti dalla sua volontà. Amò bella vita e donne, ma la sua famiglia fu travolta da scandali e vita dissipata: il figlio Carlo Emanuele morì suicida, la figlia Alessandra, nota amante di D’Annunzio, finì monaca in un collegio femminile. Fu la fine di una dinastia, che si era affermata come famiglia di alta nobiltà a Piazza Armerina, da dove, una sapiente politica matrimoniale, e non solo naturalmente, lo portò ai vertici della politica italiana.
Sindaco di Palermo, favorì la costruzione di importanti opere d’arte e architettura, come il teatro Massimo e il teatro Politeama opere del Basile e dell’architetto Damiani Almeyda. Divenuto deputato e poi primo ministro la sua vita si svolse tra Roma, Palermo, ma non dimenticò la sua amata cittadina, sorta nel feudo di famiglia, il feudo Scibini [3], per iniziativa dei suoi antenati Starrabba principi di Giardinelli. Nonostante l’acquisto di un sontuoso villino a Palermo, raramente vi risiedette, preferendo il suo antico feudo all’estremo Sud della Sicilia, da cui discendeva probabilmente anche il titolo Rudinì [4].
Curò dunque le sue terre feudali, trasformandole in terre vitate e favorendo l’impiego di centinaia di lavoratori regolarmente ingaggiati secondo i contratti agricoli dell’epoca. La sua residenza a Pachino aveva i tratti della grande masseria di campagna, col suo grandissimo baglio, che col tempo divenne la piazza di Pachino, l’attuale piazza Vittorio Emanuele. Certamente i suoi contatti coi Florio e con l’imprenditoria palermitana legata al vino [5] (i Villafranca in testa) lo ispirarono e lo spronarono. Con questi grandi personaggi volle “gareggiare” il nostro Marchese, costruendo uno stabilimento enologico, in grado di competere coi grandi magazzini e stabilimenti enologici della Sicilia Occidentale. Il suo palmento, la sua amata realizzazione, non aveva pari nel sudest Sicilia e neanche nel resto dell’Isola, fatta eccezione coi territori toccati dalla “bacchetta magica” degli “sperti ngrisi” (gli esperti inglesi).
Come spesso succede dai mali nasce il bene: nel caso specifico tutto nasce dalla crisi fillosserica che a Pachino aveva cominciato a distruggere i vigneti nel 1886, proseguendo inesorabile nel 1892-1894. Sono gli anni del duro scontro tra il Crispi e il Giolitti sui latifondi, considerati dal primo causa di tutti i mali, dal secondo unico baluardo contro una parcellizzazione che avrebbe lasciato tutti “col c… per terra” [6]. Paradossalmente da questo durissimo scontro politico ed economico-sociale nasce lo stabilimento enologico Di Rudinì.
L’imponente opera non nasce come una “cattedrale” nel deserto, così, improvvisamente, senza premesse e senza un abbastanza lungo periodo di preparazione. Scrivendo, da Pachino, ad un amico palermitano, nel 1872 il marchese rimarcava:
«ho bisogno per ora di uno stabilimento proporzionato al vigneto, ed al prodotto che si poteva ottenere coi metodi attuali della fabbricazione del vino, e coi prezzi vilissimi, che corrono in questi tempi. Voglio bensì fondare uno stabilimento, che ci porti al perfezionamento ed all’ingrandimento dell’industria. Lo stabilimento deve essere per ora proporzionato all’industria quale essa è attualmente. Più tardi, se riuscirò a perfezionare la qualità del vino, se riuscirò a smerciarlo con profitto, perfezionerò lo stabilimento ed allargherò le piantagioni» [7].
E difatti alla piantagione di nuovi vigneti si dedica nei futuri 20 anni che precedono la nascita dello stabilimento. In un solo anno acquista 100.000 barbatelle, mentre altre ne acquista a Caltagirone. A questo proposito scrive ancora all’amico:
«Sono qui a Pachino da tre giorni e lavoro. Ho mandato il curatolo e il fattore a Caltagirone per incettare barbatelle. La quantità che se ne potrà avere e il prezzo di acquisto deciderà della quantità di terre che dovranno piantarsi».
La piantumazione iniziò e nel giro di circa cinque anni furono avviate a produzione migliaia di ettari di terre incolte: fu la risposta indiretta al suo nemico Crispi! Il latifondo poteva rendere e reggere!
La data di inizio dell’imponente costruzione, sorta in contrada Lettiera, vicino Marzamemi, è il 1897 e si deve all’impegno e alla testardaggine del Di Rudinì. Sorse in una contrada a pochi chilometri dal mare e già allora si impose come novità assoluta nell’enologia del Sudest, diverso in tutto rispetto ai palmenti fino ad allora conosciuti, fu considerato come il simbolo della lotta e vittoria sulla fillossera e sulla inoperosità dei proprietari locali.
Il progetto si deve all’ing. Adorno di Palermo e i lavori furono seguiti dall’ing. Ciavola di Pachino. Lo stabilimento era diviso in settori a seconda della destinazione d’uso e delle funzioni svolte in ciascun ambiente e, cosa curiosa e significativa, erano dedicati ai membri della sua famiglia (con qualche malevola esclusione), altre portavano il termine tecnico legato alla funzione:
1. Tunnel Vincenzo; 2. Cantina Marchesa; 3. Cantina Livia; 4. Cantina Carlo (il figlio); 5. Cantina Francesco Paolo; 6. Piano Rudinì; 7. Sala macchine; 8. Tinaia Leonida; 9. Tinaia centrale; 10. Tinaia ponente; 11. Sala torchi; 12. Tettoia ponente; 13. Casotti caldaie; 14. Sala filtri Tafuri; 15. Casa Rossa; 16. Corridoio Casa Rossa; 17. Laboratorio di enotecnica; 19. Tinaia inferiore vinelli [8].
Per comunicare più rapidamente coi suoi collaboratori, quando era fuori Sicilia, il marchese fece impiantare un telegrafo tutto particolare, poiché era basato su un codice di comunicazione alfa numerico che conosceva solo lui e il suo amministratore cav. Giuseppe Tafuri! Il quaderno aveva questo titolo: «Istruzioni per cifrare un messaggio».
A parte questa curiosità, che aveva il fine di sviare la concorrenza, naturalmente il sistema di coltivazione si basava sulla gabella dei diversi fondi in cui era diviso il vastissimo vigneto.
La costruzione dell’enorme fabbricato fu completata intorno al 1900 ed entrò in funzione pochi anni dopo, con l’assunzione dell’enologo e di altre figure professionali. La ricerca della figura dell’enologo avvenne addirittura mettendo una serie di annunci sui giornali “L’Ora” e “Il Giornale di Sicilia”, alla ricerca di
«un cantiniere preferibilmente siciliano che abbia seguito i corsi di una scuola di enologia, che abbia fatto pratica in una grande cantina moderna, che sia in grado di fare le analisi dei vini e di proporre ed eseguire i tagli dei mosti e dei vini».
Una novità in un ambiente abituato a competenze, seppure di antica origine, ormai inadatte specie in presenza di grandi produzioni, dove figura chiave era il “cantiniere”. La «razionalizzazione, cui era sottoposta la produzione, portava all’elaborazione di minuziose indagini preventive sulla produzione stessa» [9]. Nel 1902 si calcolava una produzione su una base di circa 600.000 viti. Le spese erano consistenti, avendo il Di Rudinì quasi l’obbligo (era un uomo politico troppo noto) di applicare adeguate tabelle salariali, in particolare per i ragazzi impiegati nei lavori più leggeri (paga stimata di 60 centesimi). Le spese più importanti erano per i circa cento carretti impegnati nel trasporto allo stabilimento, per le spese per il gesso, l’olio e il petrolio. Nei registri di introito ed esito troviamo infine quelle per «le ragazze che trasportano l’acqua ai vendemmiatori in ragione di una ragazza per ognuna delle 12 ciurme».
Fino al 1908, anno della morte del marchese Antonio, i livelli di produzione si mantennero alti, decrescendo dopo la sua morte. Dopo il tragico suicidio dell’erede marchese Carlo, l’impianto fu posto sotto sequestro giudiziario. Attraverso varie vicende ereditarie la proprietà dello stabilimento passò ai cugini Moncada, principi di Paternò, che nel 1933 crearono la Cantina Sociale ed anonima cooperativa “A. Di Rudinì”, che restò in vita fino al 1960. Da questa data cominciò un lento ma inesorabile tracollo. Si deve all’impegno della prof. Gabriella Calleri e del marito, l’arch. Lucio Selvaggio se, per mezzo di una brillante tesi di laurea, discussa a Palermo nel 1996, fu messo in campo un imponente lavoro di restauro che ha salvato il salvabile. I lavori di restauro sono iniziati nel 2006 e terminati nel 2010, anno dell’inaugurazione della struttura. Una vittoria certo, resta però aperto il tema della gestione [10].
Nello stabilimento tradizione e innovazione convivevano: sparite le tradizionali “arie” di pestatura, sostituite da macchine “deraspatrici” e pigiatrici, mentre resistevano gli attrezzi filtranti, cioè le tradizionali campani, appese alle travi nella sala filtri. Più perfezionati erano i torchi a cannizzu, sostituiti dai “torchi Heirech”. Sembrava che per la vinificazione tradizionale fosse stata scritta la parola fine: ma così non fu. Scrive la Calleri:
«Il tentativo di industrializzare la produzione del vino rimase, purtroppo confinato alla breve esperienza e alla caparbia volontà imprenditoriale di un nobile illuminato e lungimirante il cui esempio, però, non ebbe seguito perché nessuno ne raccolse l’eredità. Non lo fecero gli eredi naturali di cui conosciamo le particolari vicende personali, non lo fecero gli imprenditori locali che non possedevano né le risorse economiche né tantomeno le conoscenze tecniche necessarie [né la volontà io aggiungerei]».
Restò e si consolidò, comunque, la piccola imprenditoria dei viticultori a struttura familiare, gli antichi mezzadri del marchese o semplici contadini e braccianti, cui si deve il grande merito di aver salvato la viticultura del comprensorio tra fatiche e sofferenze: a loro siamo tutti riconoscenti [11].
Certo il ciclo di produzione del palmento Di Rudinì era assai diverso da quello tradizionale; è forse questo il motivo per cui è stato difficile ricostruirne le fasi di svolgimento, quasi che la memoria collettiva avesse rimosso un’anomalia, quasi un potenziale pericolo.
Lo stabilimento dava lavoro a 40 persone e rappresentò per i lavoratori pachinesi un’importante realtà economica e sociale. La memoria collettiva popolare tramanda ricordi legati alla stabilità del lavoro, alla serietà del marchese (definito “galantuomo) che garantiva il lavoro e pagava una quota anche in caso di malattia tanto che lo stabilimento in questione venne soprannominato “l’Ospedale”. Ma l’appellativo più significativo, dato dal popolo, fu certamente quello di “cattedrale”, data l’imponenza del manufatto che spiccava da ogni angolo del vasto feudo del Marchese; una “cattedrale laica”.
Il processo di lavorazione era assai complesso, poiché vedeva l’impiego di macchinari, fino ad allora totalmente sconosciuti come le “deraspatrici”, che eliminavano il lavoro dei pigiatori nelle “arie” di “pista” (pestatura dell’uva). I carri giunti al palmento depositavano il loro carico non più nei pigiatoi interni (arie), ma nei racinari esterni, dai quali grazie a degli scivoli l’uva giungeva nella sala macchine dove erano disposte le “pigia-deraspatrici”. Qui avveniva la pigiatura, naturalmente con motori a energia a petrolio e poi elettrica, dopo che l’uva usciva dalle macchine. Si usavano speciali pigiatrici a motore di nome “Lindemann”, che sfruttavano il lavoro combinato di due grossi cilindri scanalati e muniti di grossi denti ruotanti in senso inverso. Grazie e grandi pompe aspiranti il liquido (mosto) veniva aspirato attraverso delle pompe e scaricato nella tinaia centrale, dove avveniva la fermentazione.
Scrive la Calleri: «la svinatura avveniva agevolmente tramite fori posti all’estremità inferiore delle vasche e collegate da tubature alla canaletta che correva centralmente lungo tutto lo stabilimento e sempre tramite canaletta raggiungeva» il “locale filtri”, che altro non erano che le tradizionali “campane” usate da secoli dai viticultori per filtrare la pasta contenente il liquido. Il mosto in questo modo si ripuliva dalle vinacce che erano avviate ai torchi ad azione continua (torchio Heirich). Il liquido pulito era mescolato al resto del mosto e serviva, secondo antiche consuetudini, a dare più colore al mosto, perché anche il colore ne determinava il prezzo. Il mosto prodotto veniva così avviato nelle cellaie per l’ulteriore affinamento, così come avveniva nelle botti.
Appena il prodotto era pronto, veniva avviato mediante tubazioni o vinodotti alle navi cisterne che aspettavano al porto Fossa di Marzamemi, scorrendo per circa un chilometro. Iniziava un viaggio per raggiungere luoghi lontani, dove con altre alchimie si tagliava il mosto pachinese per ottenere il vino “doc”, francese in particolare. Bacco non venne in occidente con una barca a vela?
Ma fu una breve esperienza durata qualche decennio. Chiusa la “cattedrale”, si ritornò a vecchi palmenti, che mai avevano smesso di funzionare e si ricominciò a pigiare coi piedi e a imbottare secondo le antiche tecniche. Tutto inutile? No, perché la creazione, possibile, di un grande museo- palmento [12] del vino del Sudest potrebbe restituire memoria e cultura, omaggiando un grande viticultore, lasciando da parte, in questo caso, il politico Di Rudinì.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] Molto di questa impresa nel campo vitivinicolo è testimoniato dall’archivio Starrabba-Di Rudinì, conservato presso l’Archivio di Stato di Siracusa, da esso ho attinto una serie di informazioni appena sintetizzate nel testo. Mi riservo uno studio più dettagliato, tempo e vita consentendomi.
[2] Sullo studio degli Starrabba di Rudinì cfr. soprattutto G. Drago, Gli Starrabba Di Rudinì, fondatori e signori di Pachino, Siracusa, Flaccavento, 1996, uno dei pochi a servirsi delle fonti archivistiche. Ripeto l’Archivio Di Rudinì, donato dagli eredi alla Società Siracusana di Storia Patria E costituito da circa 400 faldoni, attende una definitiva catalogazione.
[3] Aveva un’impressionante estensione: 800 salme, in gran parte, pascoli e boschi selvatici di Elci e querce. Il Di Rudinì lo trasformò quasi interamente.
[4] Per la verità il nome sembra la corruzione del nome di un feudo in Val di Noto: Runidì.
[5] Sull’argomento si vedano gli scritti di Rosario Lentini, l’ultimo in particolare è un piccolo capolavoro di enologia storia: R Lentini, Sicilie del vino nell’800. I Woodhouse, gli Ingham-Witaker, il duca d’Aumale e i duchi di Salaparuta, Palermo, University Press, 2019. Cfr. anche il mio Taula Matri. Il vino del Sudest Sicilia. Tra mito e storia, Ragusa, Le fate, 2023. Sullo specifico della biografia del marchese cito tra i tanti scritti il piccolo ma informato saggio:E. U. Muscova, Uomini illustri pachinesi, Pachino, BCC, 2002, pp. 24-26. Sugli Starrabba: A. Capodicasa, Il feudo Scibini nel Cinquecento e le nobili famiglie Sortino e Starrabba, Pachino, Associazione studi storici, 2021; C. Di Pietro, Il paese del vento, Siracusa, Araldo Lombardi editore, 2002; R. Savarino, Terre di carte, Morrone editore, 2011.
[6] Da un’intervista al “Giornale di Sicilia del 1894.
[7] Archivio di Stato di Siracusa, Archivio di Rudinì, “Corrispondenza con Giacomo Isabella”, anni 1871-1872 Numerazione di corda provvisoria).
[8] Una curiosità: manca una sala dedicata alla figlia Alessandra, a causa della scandalosa relazione con Gabriele D’Annunzio!
[9] G. Drago, op. cit.: 190.
[10] In questi ultimi mesi fortunatamente l’intervento di un importante Istituto bancario siciliano e l’Associazione “Vivi Vinum”, è stato messo in campo un progetto di valorizzazione, che si fonda su una solida “Cooperativa di Comunità”, che ha già messo in campo un progetto all’ambizioso ma insieme stimolante Titolo: «Il credito cooperativo, acceleratore di sviluppo nelle aree del Val di Noto e del Val di Mazara», che coinvolgerà due aree lontane eppur vicine l’area del pachinese e quella di Mazara del Vallo.
[11] Dovrei parlare delle cantine sociali nate alla fine degli anni ’70, la «Enopolio» e soprattutto la cantina «Elorina», ma non rientra nelle tematiche affrontate in questo lavoro.
[12] Che certamente dovrebbe prendere il nome del marchese Di Rudinì che fortissimamente lo volle.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (2023).
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