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Lo Stato d’eccezione. Radici, usi e abusi dalla Guerra dei Trent’anni ad oggi

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Hogarth, A lezione,  incisione, 1736

di Davide Accardi

Frank James Sensenbrenner Jr, detto “Jim”, nacque un anno prima dello sbarco americano in Normandia, in quella Chicago degli anni ’40 vitale, energica, sensuale, nelle cui strade riecheggia il grande blues di artisti afroamericani stanziatisi lungo il Delta del Mississippi durante la grande migrazione afro-americana degli anni ’20: da Muddy Waters a Buddy Guy ed Etta James.

Jim è un membro del Partito Repubblicano ed è nella Camera dei Rappresentanti da più di vent’anni quando, il 23 ottobre del 2001, presenta il disegno di legge chiamato “Patriot Act”, il quale rinforza il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, quali CIA, FBI e NSA, con lo scopo di ridurre il rischio di attacchi terroristici negli Stati Uniti, intaccando di conseguenza la privacy dei cittadini. Il testo fu scritto da Viet Dihn, assistente del Procuratore Generale degli Stati Uniti.

Giuseppe Conte nacque nel 1964 a Volturara Appula, in provincia di Foggia. Antica sede vescovile, fu un attivissimo centro carbonaro, in seguito alla caduta di Gioacchino Murat. [1]. Avvocato cassazionista dal 2002, è da meno di due anni Presidente del Consiglio dei ministri quando, il 31 gennaio 2020, in seguito ai focolai di Covid-19 registratisi in Cina e dopo una riunione a Palazzo Chigi del Consiglio dei ministri, approva un decreto-legge che introduce misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica: è l’inizio dello stato d’emergenza.

Una parola, questa, che ha radici antichissime e ben consolidate, come vedremo, nella cultura europea. Lo stato d’eccezione è un ordinamento giuridico attraverso il quale il potere esecutivo e quello legislativo ricadono sotto un unico soggetto [2]. Una concentrazione di poteri che, inevitabilmente, ci riporta alla mente l’assolutismo monarchico. Ed è proprio da lì che, a volendo ben vedere, si potrebbe far derivare la pratica di delega del potere.

La crisi generale del Seicento, sulla cui reale portata e diffusione su larga scala molti storici hanno dibattuto, in un senso strettamente definito, ovvero in senso politico, non solo è davvero avvenuta ma è da leggere come una risposta ad un modello di governo straordinario percepito da molti come dispotico. Per la costruzione e diffusione di questo governo straordinario in Europa, fondamentale è la figura del valido, inteso nella sua forma seicentesca.

Il valido era un fiduciario del sovrano, portavoce di una delle correnti più influenti all’interno del palazzo. Un portavoce, un primus inter pares, degli interessi dell’aristocrazia. Era anche, come nel caso di Francisco Gomez de Sandoval Duca di Lerma, un intimo confidente del sovrano. Nel Seicento tale figura subisce delle modifiche sostanziali, acquisendo proprio dal Duca di Lerma in poi, poteri sempre più ampi. La differenza tra il valido cinquecentesco e quello seicentesco consiste nel fatto che, il primo, incontrava inevitabilmente un limite al proprio potere e alla propria influenza nella presenza di altri capi-fazione, mentre i secondi, viceversa, dominavano a proprio piacimento tanto il patronage quanto il processo decisionale [3].

Negli anni Venti del Seicento, il clima di breve pace europea viene distrutto dalla decisione spagnola di denunciare la tregua dei dodici anni stipulata con le Province Unite. Questo inatteso e fondamentale atto, accelera la trasformazione di quel governo straordinario in governo straordinario e di guerra, ovvero in un sistema a dominanza esecutiva.

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La Guerra dei Trent’anni (Ann Ronan Picture Library / Heritage Images)

A trarre i maggiori benefici dallo scoppio di quella che verrà poi chiamata guerra dei Trent’anni fu la figura del valido: per fare le guerre servono eserciti retribuiti e, quindi, nuove tasse. Tali spese straordinarie hanno però bisogno di motivazioni altrettanto straordinarie per essere giustificate, che superino gli stretti limiti della teoria politica tradizionale, la quale indicava solo in una invasione nemica imminente, il motivo che consentiva al sovrano di raccogliere forzosamente le tasse e senza il consenso delle assemblee rappresentative del regno.

Questo è il percorso attraverso cui una dimensione esecutiva, venendo dall’universo militare si allarga trasformandosi in un paradigma di governo. Emblematica in tal senso, fu la figura del Duca di Buckingham, riuscito in pochi anni a diventare ben più di un valido, un vero e proprio Primo Ministro plenipotenziario, prima sotto il sovrano Giacomo I e poi con Carlo I Stuart.

È con Buckingham che la delega da parte del sovrano del potere esecutivo si manifesta con tutta la propria brutale forza tanto da generare, agli inizi degli anni 30’ in Inghilterra, una feroce rivolta contro il Duca stesso, reo di aver ormai preso il controllo del potere regio in potenziale danno del tradizionale ordine gerarchico.

Ben oltre il semplice rappresentante a Palazzo delle più alte sfere dell’aristocrazia, il valido si era manifestato in Inghilterra per ciò che era sempre stato: il detentore del monopolio di un potere autocratico, un alter rex, un uomo irresponsabile (ovvero non responsabile verso il popolo) che non è un sovrano [4].

È da questa importante premessa sulla delega del potere esecutivo che scaturirà, ad esempio, nella delega parlamentare del potere esecutivo e di quello legislativo al capo di Gabinetto, presente nel testo dello Statuto albertino come poteri di necessità. Tra eccezione e necessità ricorre, infatti, un rapporto molto stretto. «Non esistono eccezioni nel diritto. Esistono regole» [5]. Il concetto di eccezione è quindi introduttivo rispetto a quello di necessità, intesa erroneamente come eccezione rispetto alla legge.

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Polizia Usa (ph. Chris Yarzab)

La necessità non era dunque estranea al diritto, ma essa stessa diritto. È bene, ora, distinguere tra le varie terminologie fin qui utilizzate. Riprendendo la tesi di Schmitt, lo stato d’eccezione è quel limbo giuridico tra la legge e la sua sospensione. L’emergenza o la necessità sono, invece, qualcosa di diverso: se l’eccezione presuppone, per legge, la sospensione di essa al fine di modificare per sempre il normale iter costituzionale, all’emergenza si ricorre per poter, una volta terminata la necessità, ritornare al normale iter costituzionale, senza stravolgimenti [6].

Durante le guerre di indipendenza italiane, ad esempio, furono attribuiti ampi poteri al governo in nome di uno stato d’assedio, inteso come posizione eccezionale di una piazza direttamente minacciata da un nemico. Questi stessi ampi poteri vennero assunti, però, anche nel caso del terremoto di Messina del 1908, passando ad una forma di assedio politico fittizio, cioè non direttamente riconducibile ad un nemico esterno. Questa è la premessa fondamentale attraverso la quale tali poteri divennero strumentazione civile impiegata in casi eccezionali.

Questo cambio di finalità fu reso possibile da uno strumento giuridico fondamentale: il decreto-legge, ovvero ordinanze d’urgenza a forte grado di esecutività utilizzate come strumento di governo da impiegare in maniera sistematica [7].

Da un punto di vista formale, il successivo e ulteriore stato d’emergenza proclamato in Italia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale risultava essere del tutto analogo a quelli deliberati durante le guerre d’indipendenza italiane. In realtà, come vedremo, la differenza fu sostanziale. Lo stato d’emergenza proclamato a causa dello scoppio della Grande Guerra fu dichiarato in seguito alla messa in pratica di una legge approvata pochi mesi prima, la numero 67, detta dei «pieni poteri» del 22 maggio 1915.

In questa nuova legge, viene meno rispetto alla versione precedente contenuta nello Statuto Albertino il concetto di intangibilità delle istituzioni costituzionali, ovvero dell’impossibilità di trasformare lo stato d’emergenza in una prassi, al fine di preservare le normali funzioni costituzionali delle Camere. Tale mancanza nel testo di legge rese possibile, infatti, una proroga dello stato d’emergenza fino alla sua durata complessiva di 41 mesi, un arco di tempo molto superiore rispetto a quello delle guerre di indipendenza (147 giorni) che poteva ritenersi sufficiente a modificare il complessivo ordine giuridico in maniera sostanzialmente definitiva.

«[…] senza mai scioglierla, ma centellinandone le sedute, si dimostrò al Paese che, a differenza di Inghilterra e Francia, l’Italia poteva fare anche a meno della Camera dei deputati: ma, anche in questo caso, si trattava di un perfezionamento dell’antica prassi sardo-italiana della proroga della sessione che nei decenni precedenti aveva consentito di far pervenire all’opinione pubblica il messaggio subliminale della sostanziale inutilità delle Camere» [8].

È da questo esempio che dovremmo porci le seguenti domande circa gli stati d’emergenza proclamati dagli Stati Uniti, nel 2001, e dall’Italia qualche mese fa: cosa ne sarà del principio di intangibilità delle istituzioni costituzionali? Lo stato d’emergenza è, insomma, uno strumento utile a rispondere a determinate esigenze o è ormai diventato solo uno strumento di governo?

Per rispondere a queste domande, può essere utile confrontare il caso americano e quello italiano. Il Patriot act, come già visto, rinforza i poteri dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, intaccando di conseguenza la privacy dei cittadini. Ad esempio, la possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche, l’accesso a informazioni personali e il prelevamento delle impronte digitali nelle biblioteche.

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Stato di emergenza in Italia (ph. Il Messaggero)

In questa legge è confluito anche un disegno di legge, l’USA Act, il quale ha pesantemente limitato i diritti dei detenuti accusati di atti terroristici e, tra le varie restrizioni, ha fatto molto discutere quella che permette alla polizia di registrare i discorsi privati tra gli imputati e i loro legali. Quattordici disposizioni su sedici previste da questa legge sono state rese permanenti, mentre le altre due sono state prorogate più volte, l’ultima nel 2015 sotto la presidenza Obama, di altri 4 anni.

Il caso italiano, invece, è assai diverso. Lo stato d’emergenza non è presente nella nostra Costituzione, esso trova copertura normativa nella legge 225/1992 del Codice della Protezione Civile. Tale legge è stata modificata nel 2018: con il Decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018, infatti, il Codice della Protezione Civile ridefinisce la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale, portandola a un massimo di 12 mesi, prorogabile di ulteriori 12 mesi.

Le differenze tra i due casi sono, dunque, nette: se da un lato, lo stato d’emergenza americano si protrae da 19 anni, venendo meno l’eccezionalità della delega dei poteri e dell’intangibilità delle istituzioni, quello italiano ha limiti temporali ben precisi, chiari, forse non abbastanza brevi per affermare con certezza che tale pratica non destabilizzi il normale iter costituzionale, ma comunque inferiore di 17 mesi rispetto a quello del 1915. Un’altra differenza tra il caso americano e quello italiano è la natura stessa dell’emergenza da affrontare: se da un lato abbiamo un nemico, un virus, la cui sconfitta su suolo nazionale appare oggettivamente dimostrabile con la vaccinazione dell’intera popolazione, quello americano è, invece, un nemico, il terrorismo, sfuggente dal quale non si può oggettivamente sentirsi al sicuro.

Ciò ha causato, negli Stati Uniti, una sorta di stato d’emergenza perenne che somiglia sinistramente a quello italiano del 1915 e, anzi, lo supera in durata. Le possibilità di alterazione del normale svolgimento costituzionale sembrano essere ormai certezze assodate.  Qui in Italia, tali modificazioni restano per il momento supposizioni, di certo in parte fondate ma certamente anche figlie di quanto visto negli Stati Uniti.

61uke1u-uvlAgamben in un articolo uscito sul quotidiano online Quodlibet, recentemente ha proposto come chiave interpretativa dello stato d’emergenza proclamato dal premier Conte, il ben conosciuto concetto di paradigma di governo. A ben vedere, in questo caso specifico, non sussistono le due condizioni che Agamben ritiene siano invece verificate: la possibilità di proroga indeterminata dello stato d’emergenza, che causerebbe seri danni alle nostre istituzioni costituzionali e la presenza di un nemico farlocco, una scusa attraverso la quale proclamare l’emergenza.

L’articolo, è bene sottolinearlo, è datato 26 febbraio 2020, ovvero un periodo in cui i dati di positivi al Covid-19 erano ancora molto bassi, i morti ancora meno e le informazioni in generale meno precise. A distanza di mesi, certe parole quasi complottiste circa la reale esistenza di una pandemia globale suonano certamente ridicole se a pronunciarle è una personalità di spicco all’interno del dibattito bio-politico.

In definitiva, se da un lato il caso americano potrebbe indurre in molti a credere che lo stato d’emergenza possa compromettere per sempre le istituzioni costituzionali italiane, a ben vedere sembrerebbe essere stato solo, almeno per ora, un utile strumento di prevenzione di contagio e di risposta all’emergenza.

Chiare si stagliano le parole del sempre moderno Machiavelli, il quale nei suoi Discorsi si spinge in una accesa e lucida difesa della dittatura a Roma, affermando che, minacce fuori dal comune richiedano risposte speciali che le normali procedure non sono in grado di dare con tempestività. L’errore di Roma, allora, non fu quello di aver delegato il potere ad una sola persona, semmai di averne delegato troppo, per troppo tempo e alla persona sbagliata.

 «[…] e quando e’ si dia l’autorità libera col tempo lungo, chiamando il tempo lungo uno anno o più, sempre fia pericolosa, e farà gli effetti o buoni o rei, secondo che fiano rei o buoni coloro a chi la sarà data» [9].
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note
[1] Caso Gemma, La carboneria di Capitanata (dal 1816 al 1820) nella storia del Risorgimento italiano, Tipografia Pierro & figlio, 1913.
[2] G. Agamben, Stato di eccezione, Homo sacer, II, I, Bollati Boringhieri, Torino, 2003
[3] J.H. Elliot, L.W.B. Brockliss, The World of the Favourite, Yale University Press, New Haven & London, 1999
[4] Francesco Benigno, Il fato di Buckingham, in Il governo dell’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di Francesco Benigno e Luca Scuccimarra, Viella, Roma, 2007
[5] L. Rossi, Un criterio di logica giuridica: la regola e l’eccezione particolarmente nel diritto pubblico, in “Rivista di diritto pubblico”, XVII, 1935, parte I:192
[6] C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffrè, Milano 1992
[7] C. Latini, Governare l’emergenza. Delega legislativa e pieni poteri in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, Milano, 2005
[8] R. Martucci, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto albertino alla Repubblica (1848-2001), Carocci, Roma 2002: 137
[9] Niccolò Machiavelli, Opere, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, vol. I: 35.

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Davide Accardi, ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Lo stato d’eccezione. Ha, in seguito, conseguito la laurea specialistica in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università di Palermo discutendo una tesi dal titolo L’identità nazionale nei territori di confini. Scrive e si interessa di cinema, in particolare sulla relazione tra spazi e vuoti in Antonioni e sull’influenza della psicanalisi in Kaufman.

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