di Paolo Branca Capire il tempo, in larga misura, diventa capire il modo in cui lavoriamo, il modo in cui funzionano il nostro cervello e la nostra coscienza, ed è per questo che il problema del tempo è così affascinante (Carlo Rovelli, L’ordine del tempo)
Preambolo
Lo sviluppo della fisica quantistica sta mettendo in discussione in forme inedite il sempre problematico concetto di tempo. Non abbiamo le competenze per inoltrarci in questa materia, ma ci piace accennarne in apertura sia per le sue ancora poco esplorate connessioni con altre e più ‘classiche’ discipline, sia per le paradossali implicazioni che, come speriamo di dimostrare, sono spesso già state intuite e in qualche modo anticipate in fenomeni linguistici e opere letterarie non soltanto d’epoca arcaica, ma persistenti fino ai nostri giorni anche in aree culturali fra loro distanti e profondamente differenti. Del resto la modernità sta introducendo nozioni che hanno sconvolto visioni tradizionali sempre più celermente: il linguaggio non si evolve con la stessa velocità e pertanto conserva – spesso senza che chi lo utilizza se ne accorga – forme e contenuti di epoche precedenti, in alcuni casi assai remote.
Analogo discorso si potrebbe fare per filosofia e psicologia, tornate a farsi sentire sui social network in questi tempi di pandemia e di guerra in Europa, non altrettanto dai pulpiti di chiese e moschee, ma in forme probabilmente ancora inadeguate alla sfuggente sensibilità degli esseri umani del terzo millennio. Eppure conosco un Hospice per malati terminali in cui il personale, per esser supportato nel proprio arduo lavoro, ha chiesto appunto un corso di filosofia, e pare che la cosa stia funzionando.
Le mie competenze mi indurranno a scandagliare parte della produzione letteraria araba che si presta anche a molti parallelismi con altre forme artistiche antiche e moderne di diversa origine. Partiremo dunque da numerose testimonianze in versi preislamici, per poi soffermarci lungo i secoli sulla riproposizione del tema in autori ed epoche successive, fino a lambire l’era moderna e contemporanea, a proposito della quale anche qualche incursione in modi di dire e proverbi popolari credo possa confermare la persistenza di termini e concetti non troppo distanti, nonostante il tempo trascorso, accanto a innovazioni determinate dal contesto mutato, ma che in entrambi i casi continuano a sollevare importanti interrogativi appartenenti all’ordine del ‘mistero’, inteso non come una cosa che non si capisce, ma qualcosa che non si finisce mai di capire.
A quanto pare soltanto gli esseri umani hanno la facoltà, inserita nel più ampio raggio delle domande che di fatto si sono posti e continuano a porsi, di giungere a domandarsi da dove veniamo, dove andiamo e che senso abbia il nostro esserci. Quel che non si può negare è però appunto la traccia che tali questioni hanno lasciato in ciò che è a noi più proprio, appunto il linguaggio. Che questo sia risolutivo è illusorio, come già notava Platone nel Fedro.
I nomi e le cose
Come sappiamo bene il linguaggio, inteso come sistema complesso e raffinato, è da sempre percepito/descritto come facoltà esclusivamente umana e anzi varie correnti filosofiche moderne sono tornate a occuparsene nel quadro di un rinnovato interesse per questioni classiche che effettivamente appaiono sotto una nuova luce se affrontate dando il giusto peso allo strumento attraverso il quale noi ci rappresentiamo la realtà grazie ad un sistema di suoni e di segni che non è pura convenzione né arbitrario, ma rivela qualcosa di profondo a proposito del funzionamento della nostra mente. Gli stessi Testi Sacri di varie religioni del resto ne confermano il valore e lo presentano come dono esclusivo per gli esseri umani fin dalle origini, anche se con variazioni significative, ma sostanzialmente convergenti.
Dio disse: “Sia la luce” e la luce fu (Genesi, 1, 3)
La Bibbia, originariamente ebraica ma fatta propria anche dal cristianesimo, vede la parola addirittura come ‘creatrice’ e ne deriva quasi necessariamente non soltanto che ogni cosa esistente debba avere un nome, ma anche che ciò che non ha nome alla fine non può far parte dell’essere.
Anche il Corano condivide una narrazione simile:
Egli è il Creatore dei cieli e della terra; quando vuole una cosa, dice «Sii» ed essa è. (2, 117)
Ed Egli insegnò ad Adamo i nomi di tutte le cose (2, 31)
ma continua specificando che nessun altro, neppure gli angeli, ha ricevuto tale conoscenza.
Naturalmente, essendo assai remota l’origine del linguaggio, certe espressioni, anche se inconsapevolmente, racchiudono in sé una visione del mondo propria del momento in cui si sono formate, le quali possono talvolta essere anche molto distanti da concezioni nate posteriormente e che le hanno affiancate se non soppiantate. Resta l’influsso che permane nell’utilizzarle e che in parte ancora ci condiziona, benché di rado ne siam consapevoli.
L’eterno confronto fra esseri umani e ‘limiti’
In generale il tema del limite, delle fortuite sventure o disgrazie sempre in agguato e della consapevolezza dell’inevitabilità della morte sono presenti a ogni latitudine e fin dalle epoche più remote [1]. La più antica iscrizione araba (ante 150 CE) finora ritrovata si collega al tema della sofferenza e della morte, di capitale importanza nella relazione fra esseri umani e il Tempo/Destino [2]:
Lo fece (sacrificio/iscrizione) senza richiesta né per lasciare un segno
se la morte ci brama io (certo) non la voglio in pegno (non la bramo)
se una ferita vuol colpirci, non giunga al bersaglio.
La repulsione verso gli strali della sorte, evidente nell’iscrizione testé citata, si ritrova quasi identica nella qasida hâja l-fu’âd del poeta preislamico Zuhayr ibn Abî Sulmâ, noto per la sua straordinaria longevità che lo indusse a comporre anche versi gravi e meditabondi. Non è certo che abbia incontrato Maometto, ma sarebbe stato già monoteista per indole (hanīf) e suo figlio Ka’b fu l’autore di uno dei due celebri carmi del mantello (burda) in onore del Profeta: il tempo li comanda e li dirige, solo il tempo riesce a colpirmi e non io a colpirlo [3].
Qui il termine dahr (tempo) ha preso il posto di mawt (morte) di cui esso diviene metafora. Metafora assai efficace poiché se la morte, per quanto terribile e definitiva, è un singolo momento della nostra esistenza e la sua fine, il tempo che infinitamente ogni cosa precede e tutto segue (dopo averne causato l’estinzione) amplia comparativamente ancor più il carattere effimero dei ‘giorni’ di chiunque rispetto all’attimo in cui la vita viene meno [4]. Pur ampliata a tutte le conseguenze (banât=figlie) del dahr, ovvero ogni disgrazia, sciagura o malanno, la metafora si ripresenta continuamente nel corso dell’esistenza, come esplicitato dall’altrettanto longevo poeta ‘Amr ibn Qamî’a, contemporaneo del più noto Imru’ l-Qays ch’egli avrebbe accompagnato in un viaggio a Costantinopoli [5]: Le figlie del tempo mi hanno colpito, ma non so da dove, come potrò rispondere a un dardo che non so da che parte mi è giunto?
Prevalgono così versi in cui è sottolineata l’inesorabilità del Fato, aborrito pur senza che appaia neppure l’intenzione di opporvisi né persino di reagire ad esso, in accordanza con le virtù di hilm e sabr (pazienza) proprie del beduino, in un primo tempo, e quindi della sopportazione fidente d’ogni avversità predicata dall’Islam.
Di fronte a questa impermanenza finale delle cose terrene, che però si anticipa in molti modi, l’atteggiamento è duplice: con le proprie opere, il suo stesso agire specialmente in varie condizioni che lo sfidano, l’essere umano non demorde e anzi proprio con la parola cerca di eternare ciò che sarebbe altrimenti destinato all’oblio, ma nello stesso tempo conferma l’ineluttabilità dei colpi del Fato fino all’inevitabile dissoluzione di ogni cosa, come già nei versi di Imru l-Qais, massimo poeta preislamico [6]: Chiedo pietà alle vicissitudini del fato, ma esse non risparmiano neppure le alte rocce.
Metafora impiegata anche da altri autori come il cristiano di al-Hira, capitale dei Lakhmidi e vassalli dei persiani Sasanidi, ‘Adi ibn Zayd (d. 587) che fu segretario di Cosroe II: Persino grandi monti vengon meno di fronte alle vicissitudini del fato [7].
Immagine confermata dallo stesso Corano, in chiave escatologica: E stritolati saranno i monti, i monti (56, 5): geniale traduzione di Alessandro Bausani, che ripete il complemento oggetto per non seguire l’inelegante accusativo interno di una versione letterale: “E i monti saranno stritolati d’uno stritolamento (sott. totale)”.
L’idea di una vita ultraterrena era assente dalla prospettiva idolatrico-pagana dell’Arabia antica, tanto da essere uno dei contenuti della predicazione del Profeta ad esser maggiormente contestati quando non ridicolizzati, similmente a ciò che accadde sull’Aeropago a san Paolo quando introdusse il tema della resurrezione della carne. D’altra parte è evidente nei versi preislamici che la fine della vita in questo mondo non lasciava alcuna speranza, almeno tanto quanto ai Greci ripugnava concepire la sopravvivenza della disprezzata carne accanto alla nobiltà dell’anima. Tutto ciò convive paradossalmente con la consapevolezza di non dire in fondo nulla di nuovo, come esplicitamente afferma l’incipit della celeberrima mu’allaqa di ‘Antara ibn Shaddàd, figlio di una concubina etiope e quindi scuro di pelle e originariamente schiavo, affrancato però in seguito affinché combattesse e dimostratosi abilissimo guerriero, le cui gesta diedero vita a una sua leggendaria biografia famosa nei secoli [8]:
Hanno lasciato i poeti qualcosa da dire…?
Perché dunque poetare? [9] Le tracce quasi invisibili dell’accampamento abbandonato sono paragonate spesso a forme di scrittura o a tatuaggi, simboli evanescenti di ciò ch’è stato e non tornerà, ma proprio perché cantato ha la possibilità di permanere nella memoria. Questo dhikr al-atlâl (menzione di ciò che rimane) dunque, com’è stato recentemente suggerito [10], lungi dal ridursi a un rimpianto amoroso (nasîb) zeppo di lamentazioni e saturo di pessimismo, potrebbe essere in taluni casi dipendenti dalla personalità dell’autore anche espressione della sua virilità, come le altre parti del poema, le quali celebrano le tipiche virtù beduine quasi compiacendosi delle avversità.
Persino profeti e inviati celesti non possono sfuggirne, come secondo i versi del poeta omayyade Suhaym: Ho visto che il fato non teme neppure Muḥammad né altri, nessuno vive per sempre [11].
Non stupisca tale affermazione a proposito del Profeta: anzitutto si tratta di un poeta facente parte dei cosiddetti Mukhaḍramun, ossia vissuti all’epoca di Maometto pur senza averlo conosciuto, ma d’altra parte lo stesso Corano dice: Muhammad non è altro che un messaggero, altri ne vennero prima di lui; se morisse o se fosse ucciso, ritornereste sui vostri passi? (3, 144).
La questione dal punto di vista religioso
Sul tema, fin dalle epoche più remote e in varie parti del mondo sussistono molte analogie per quanto riguarda la personificazione di Tempo/Fato/Destino: sono in genere più di una e non sembrano figurare solitamente fra le divinità di massimo grado.
Secondo Platone (Repubblica, X, 617 c) la primigenia (protogenos) Ananke, dea della necessità, sarebbe la madre delle tre Moire (corrispondenti alle Parche latine) che insieme a Tykhe (Fortuna) avrebbero influenza sulle umane sorti. L’azione delle Moire è ispirata dalla tessitura: la prima fila, la seconda tesse, la terza recide. Sorge spontaneo il parallelo con le tre figlie di Allah: Allât, al-’Uzzâ e Manât, anch’esse trio femminile, non legate alla tessitura ma che alludono coi loro nomi, specialmente la seconda e la terza, alla Forza e al Destino. La loro rilevanza è confermata dall’episodio dei versetti satanici, nei quali proprio un compromesso su un possibile culto da continuare a riservare loro per ottenerne intercessione sta alla base di un’ispirazione diabolica subito rimossa dal Corano.
Le banât al-dahr (figlie del Tempo/Fato), di senso prevalentemente negativo, sembrerebbe dunque possibile collegarle alle Moire/Parche e alle divinità femminili preislamiche, in particolare Manât, ma è anche ipotizzabile che si tratti di un femminile per via delle cose plurali che producono (femminili in base alla grammatica araba): patimenti, guai, preoccupazioni, malattie… oltre al fatto che nascendo da donna è verosimile che donna sia anche metaforicamente la morte (in italiano, ma non in arabo né in tedesco ove la ‘vecchia signora’ diventa il ‘nero cavaliere’…) [12].
Contro l’influsso greco va però rilevata, prima e dopo l’Islam, l’assenza di una sfida tra umani e Tempo/Dio che invece risalta in molti antichi miti (es. Prometeo) e permane sia nel Primo Testamento (v. Qohelet e Giobbe) sia nel Nuovo nello stesso dramma della morte di Cristo. Basti pensare alla vicenda del sacrificio del figlio chiesto ad Abramo come narrata dal Corano (37, 102-109), ben meno drammatica di quella biblica [13]:
E quando raggiunse l’età d’andar con suo padre il lavoro, questi gli disse: “Figliuol mio, una visione di sogno mi dice che debbo immolarti al Signore: che cosa credi tu abbia io a fare?” Rispose: “Padre mio, fa quel che t’ho ordinato: tu mi troverai, a Dio piacendo, paziente!”
Non soltanto il concetto di un Dio Unico e Onnipotente, ma anche considerarlo un’entità ‘personale’ (per quanto non interamente conoscibile) ha indotto col tempo a ritenerlo una sorta di Motore Immobile, causa prima (se non unica e diretta, come nell’atomismo) di ogni cosa. Per quanto possa essere ‘pacificante’ una fede simile specialmente davanti alle inevitabili disgrazie e all’evento della morte, in altri momenti e anche per preservare l’idea di Giustizia divina (magari relativizzandone l’Onnipotenza), sia i Testi Sacri sia il pensiero religioso hanno in vari modi rivalutato l’indipendenza del libero agire umano [14].
Concentrando in un solo Dio trascendente ogni potere e ponendosi in prospettiva di considerarlo oltre che l’origine e il fine di ogni cosa, addirittura l’unica realtà ‘autentica’, il perdurare del Fato e dei suoi simili rappresenterebbe un’inaccettabile dualità che un detto del Profeta affronta:
“Iddio dice: gli uomini mi insultano biasimando il Tempo/destino: Io lo sono e il comando è nelle mie mani, sono Io che alterno il giorno con la notte” ma non risolve [15].
Riconducendo a Lui ogni cosa, quasi in una sorta di creazione continua (kulla yawm huwa fi sha’n, ‘ogni giorno Egli è all’opera, Corano 55, 30), emergono infatti due problemi: quello dell’esistenza del male (può Iddio volere il male?) e quello del rapporto fra la sua Onnipotenza e la sua Giustizia (che prevederebbe una certa libertà umana indispensabile alla responsabilità e al giudizio, ma riducendone l’Onnipotenza).
È stata ipotizzata anche una suggestione proveniente dallo Zurvanismo, ma la questione è ancora aperta, benché sia suggestivo considerare come, anche in una importante regione confinante, proprio il concetto di Tempo abbia contribuito a smuovere le acque in una visione che prevedeva invece due principii opposti. Non soltanto i monoteismi avrebbero dunque avuto a che fare con la medesima problematica. Esisterebbero per quanto riguarda l’Islam alcune evidenze come un hadith che affermerebbe al-qadariyya majûs hâdhihi l-umma (i Qadariti sono i magi – o zoroastriani – di questa comunità [16]), intendendo che la corrente propensa a non rinviare l’origine di ogni atto al solo volere divino, ma a riconoscere all’essere umano il potere (qadar) di determinare le proprie azioni, sarebbe il risultato di una influenza esterna. Non però dallo Zoroastrismo classico che, com’è noto, è religione dualista che concepisce un Dio del bene e uno del male, ma appunto dalla sua derivazione che con Zurvan ipotizza una super-divinità, appunto del Tempo/Destino che supererebbe l’impasse.
Quanto al tempo, sappiamo che ne coesistono due accezioni: quella ciclica (la sola che ci permette di misurarlo in base all’alternanza di giorno e notte, delle stagioni, della rotazione degli astri…) e quella lineare. Quest’ultima si è affermata soprattutto nelle tre religioni abramitiche, e più nettamente nel cristianesimo e nell’islam, che partono dalla creazione e puntano al giudizio finale e all’eternità.
Nell’islam, in particolare, troviamo tuttavia atteggiamenti contrastanti in materia: se la ciclicità corrisponde anche all’invio di profeti che da Adamo in poi avrebbero rappresentato fasi, se non tappe verso la rivelazione definitiva, allo stesso tempo fu abolito il mese intercalare che riportava periodicamente le ricorrenze religiose al ciclo cosmico, come abbiamo già detto, quasi a prevenire ogni sorta di coincidenza con precedenti culti astrali pagani. Altro aspetto che influenzò la visione lineare del tempo, ma che esula dal nostro interesse in questa sede, fu la stessa affermazione dell’islam su scala planetaria e in brevissimo tempo, dopo un periodo invece assai lungo in cui di fronte agli arabi altro non si prospettava che un apparentemente eterno riproporsi di cicli destinati, sembra proprio il caso di dirlo, ad affondare nell’oblio tra le sabbie della loro desertica prigione senza confini, corretto dalla prospettiva escatologica, tema essenziale della predicazione del Profeta, ma intesa all’inizio come imminente per esser poi indefinitamente differita col prevalere di successi e prospettive ben più immediate e terrene.
Bibbia e Corano comunque concordano nell’affermare che Iddio, tra giustizia e misericordia, decise di privilegiare la seconda, altrimenti gli esseri umani avrebbero disperato di potersi salvare
perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira (Osea 11, 9)
Il tuo Signore ha imposto a se stesso la Clemenza (6, 54)
Ciò è creduto per fede/fiducia (alcune delle possibili interpretazioni del termine ‘islam’), ma non toglie il paradosso che permane nelle espressioni linguistiche anche moderne.
Il termine dahr ricorre due volte nel Corano:
“Essi dicono: ‘Non c’è che la nostra vita di quaggiù, moriamo e viviamo e non ci fa perire se non il Tempo (dahr)’” (XLV-24) e “Non è forse capitato all’uomo un periodo del tempo (dahr) in cui non era una cosa menzionata?” (LXXVI-1) ed è lo stesso Ibn ʿArabī, pur massimo mistico, a precisare che la prima occorrenza deve essere riferita ad Allah e la seconda al tempo [17].
Nel primo caso si tratta dunque di una credenza pagana che si oppone alla prospettiva escatologica contenuta nella predicazione del Profeta, mentre nel secondo si accenna alla prescienza divina di tutto quanto accade. Le implicazioni che quest’ultima affermazione sottende, insieme ad altri versetti, sul problema del libero arbitrio, saranno sviluppate presto dalle prime correnti del pensiero religioso musulmano, ma nella ‘rivelazione’ restano giustapposte e le richiamiamo qui brevemente.
Come abbiamo appena detto la predestinazione è uno tra i temi più controversi fin dall’islam delle origini. Le diverse soluzioni che vengono proposte per questo problema riflettono un’ambiguità che sussiste anche nelle fonti. Alcuni versetti sembrano affermare chiaramente il libero arbitrio: 4, 110-112; 6, 70; 6, 104; 8, 53; 9, 105; 18, 29; 61, 5… Altri invece all’opposto paiono negarlo: 6, 149; 17, 13; 74, 54-56; 76, 30…
Ancor più espliciti in tal senso sono alcuni hadith, ossia detti del Profeta:
«Ognuno di voi si forma nel ventre di sua madre, per quaranta giorni. Poi diventa un grumo di sangue per altri quaranta giorni, poi diventa un embrione per quaranta giorni ancora. Poi Dio gli manda un angelo che gli ordina quattro cose: quel che è necessario al suo sviluppo, la durata della sua vita, i suoi dolori e le sue gioie. E, perdio, ciascuno può operare come agiscono quelli dell’Inferno, fino al momento in cui fra lui e l’Inferno c’è soltanto la distanza di due braccia, o di un cùbito, ma lo scritto prevale; così egli comincerà ad operare come quelli del Paradiso, ed entrerà in Paradiso. Un altro opera come quelli del Paradiso; si trova alla distanza di tre metri, di mezzo metro dal Paradiso, ma lo scritto prevale: egli comincerà ad operare come quelli dell’Inferno, e andrà all’Inferno».
Nessun testo sacro è un catechismo, dunque tale ambivalenza non dovrebbe sorprendere: nell’esistenza vi sono stagioni diverse, alcune in cui assumersi le proprie responsabilità e agire con determinazione, ma ve ne sono anche altre nelle quali, per momentanea incapacità o di fronte a irrimediabili tragedie, è preferibile affidarsi a una sapienza ignota e nascosta, ma non per questo meno certa, come indispensabile rifugio. Vale per gli individui, ma qualche assonanza la ritroviamo anche nei grandi processi storici di lungo periodo.
Con la progressiva dilatazione dell’impero e soprattutto a causa del drammatico frazionamento della comunità islamica in differenti sette, il messaggio divino e la sua interpretazione andavano inoltre assumendo implicazioni politiche sempre maggiori. Non erano infatti privi di importanti conseguenze pratiche gli orientamenti che gli uomini di religione adottavano a proposito di questioni cruciali come quella del rapporto tra fede e opere, strettamente connessa al tema della predestinazione: «It is not surprising that qadariyya became a political movement. The core tenet of their beliefs, nsamely their insistence on human responsibility for sin, has obvious political implications»[18].
Non bisogna dimenticare che l’appartenenza a una determinata fede aveva conseguenze di grande rilievo nella società islamica: non soltanto il musulmano veniva sottoposto a un regime fiscale differente rispetto agli altri monoteisti (ahl al-kitàb), ma la qualifica stessa di credente (mu’min) e miscredente (kâfir) andava configurandosi a tutti gli effetti come una sorta di “status” giuridico di ciascuno, senza contare che la principale arma di contrapposizione tra le differenti sette era costituita dal disconoscimento dell’avversario quale autentico musulmano e talvolta il jihàd veniva proclamato contro gruppi di falsi credenti con accanimento maggiore rispetto a quello riservato agli stessi nemici esterni dell’Islam.
In questo quadro furono determinanti i contrasti sorti intorno alla legittima successione alla carica di Califfo. Dato il suo carattere elettivo, inevitabile vista la scarsa attitudine dei beduini a un discorso dinastico, essa doveva basarsi su requisiti dai quali non poteva essere esclusa una forte componente religiosa. In quanto Principe dei credenti (amîr al-mu’mîn) il Califfo doveva radunare in sé, oltre alle virtù dell’antico sayyid arabo, le qualità di un vero musulmano, degno pertanto di succedere al Profeta. Ma, quali erano le caratteristiche proprie di un autentico credente? Proprio su questo punto si aprì la discussione e si sviluppò un primo nucleo di riflessione teologica.
Se dunque il problema esiste e non è certo di scarso rilievo, va però tenuto presente che nella sensibilità dei credenti l’idea dell’assoluta potenza divina convive con la coscienza della necessità di un impegno personale a una condotta coerente con i principi della fede. L’affermazione dell’Islam tramite le conquiste e la sua rapida diffusione avrebbe provocato inoltre un indebolimento di tale visione pessimistica e indotto un interesse specifico per i fatti storici precedentemente presi in considerazione con scarsa rilevanza [19], tant’erano destinati a svanire per mano del Fato che dunque si presentava non soltanto come destino personale, ma dell’intero mondo. D’altra parte qualcosa di simile si ebbe anche dopo l’avvento dell’Islam e i suoi successi, quando la prospettiva escatologica si ridusse agli occhi dei più a confronto delle affermazioni terrene, riducendosi nelle stesse parti del Corano successive all’Egira, sia per frequenza che per intensità.
Per quanto la vita, specialmente di personaggi famosi e affermati come taluni poeti fosse diventata, durante l’epoca d’oro della civiltà arabo-musulmana, ricca di onori e benefici presso varie corti (mai comunque prive di insidie e complotti in cui non pochi letterati incapparono), il tema della personificazione del Tempo come Fato inesorabile torna a riproporsi costantemente, come ad esempio nel celeberrimo al-Mutanabbi (d. 965):
La morte è come un ladro, prolifica pur senza palme, cammina pur senza gambe [20].
Un altro artista, di carattere e di stile assai diverso, lo ripropone in termini ancor più radicali. Ecco alcuni versi del celebre poeta cieco Abu al- Ala al-Ma’arri (d.1057) in proposito [21]:
Vedo il tempo che provoca distruzioni sulle anime degli uomini
cancellando, finché non ne rimane nessuna parola o traccia.
La gente dei campi di notte e di giorno si impegnava seriamente
per fondare saldamente un edificio, ma di colui che l’ha innalzato non rimane traccia.
Un uomo sale al rango elevato tra i suoi parenti
Solo finché il destino non lo abbatterà.
Il corpo di un uomo soffre finché, quando cerca rifugio
Nella terra finisce il suo tormento.
Del resto, anche dopo secoli di cristianesimo e in liriche minori (forse proprio per questo ancor più emblematiche, vista la loro diffusione negli ambienti studenteschi e goliardici) come i celebri Carmina Burana persiste la visione paganeggiante dell’epoca classica tardo antica:
O Fortuna, velut luna statu variabilis, semper crescis aut decrescis; vita detestabilis nunc obdurat et tunc curat ludo mentis aciem, egestatem, potestatem dissolvit ut glaciem. Sors immanis et inanis, rota tu volubilis, status malus, vana salus semper dissolubilis, obumbrata et velata michi quoque niteris; nunc per ludum dorsum nudum fero tui sceleris. Sors salutis et virtutis michi nunc contraria, est affectus et defectus semper in angaria. Hac in hora sine mora corde pulsum tangite; quod per sortem sternit fortem, mecum omnes plangite!
Anche nella letteratura consolatoria ed edificante di stampo islamico, come in al-Tanukhi da un lato predica la paziente sopportazione, dall’altra conferma l’inevitabilità delle avverse sorti [22] (d. 994) :
Ho trovato che la cosa più efficace a cui ricorre colui che è stato colpito dalle disgrazie del tempo (dahr) è leggere di episodi in cui la grazia di Dio è stata concessa infine a chi ha patito cose simili.
Le occorrenze del termine dahr in poesia anche nei secoli successivi continuano a ripresentarsi in migliaia di casi, come dimostra anche una semplice ricerca in molti siti che raccolgono milioni di versi… anche per questo ci accontentiamo di limitarci a una sola citazione, tra l’altro del massimo esponente della cosiddetta ‘letteratura della diaspora’ (adab al-mahjar): Jubrân Khalîl Jubrân (d. 1931) ch’ebbe dunque per scelta e/o per sorte (ma nessuno di due termini risulterebbero adeguati anche a un semplice sguardo alla sua biografia di artista non unicamente ‘vagante’ bensì pure poliedrico…) di vivere e testimoniare anche poetando di un fecondo benché problematico rapporto con la modernità:
…le circostanze ci spingono ad andare avanti
In stretti sentieri scavati da Destino.
Perché ci sono modi che non possiamo cambiare,
mentre la debolezza prega sulla nostra Volontà
ci sosteniamo con pretesti
per aiutarci a non volere uccidere il Fato.
(dalla versione inglese di al-Mawâkib di George Kheirallah)
Anche per la prosa ci limitiamo a un singolo esempio, sia perché ampiamente compulsata in uno dei volumi riportati in bibliografia (D. Cohen-Mor), sia per evidenti ragioni di spazio. In piena Nahda novecentesca, ove l’espressione sembra perdere ogni spessore di trascendenza o destino, eppure riappare, vi ci imbattiamo nel racconto Sul treno di Muhammad Taymur (d. 1925), in cui l’antica formula poetica e proverbiale si riferisce a qualcosa di assai comune, nella fattispecie un ombrello: ‘tenendo in mano un ombrello consunto’ (lett. Che il tempo si era mangiato e bevuto)
La banalità dell’oggetto in questione non ci deve ingannare, la famelicità del Tempo/Destino si ripropone in una modalità che abbiamo ampiamente illustrato, anzi: se le stesse formule pure in prosa, a secoli di distanza e in un contesto radicalmente mutato mantengono la loro efficacia, qualcosa di più di una semplice rimembranza o peggio ancora una sorta di ‘coazione a ripetere’ sembra appalesarsi.
Nuovi percorsi [23]
Che in epoche differenti, e persino in diversi momenti della vita di uno stesso autore, prevalgano ora l’una ora l’altra attitudine, non è fenomeno raro già dalla nostra antichità classica, come evidenziano celebri versi per esempio del grande Orazio:
Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
Accanto agli altrettanto celebri (Ode X):
Non, si male nunc, et olim sic erit…
Il concetto latino dell’aurea mediocritas si mostra dunque non lontano dal ‘giusto mezzo’ (wasat) sia beduino che islamico.
La persistenza del tema della morte nelle espressioni letterarie e artistiche di ogni epoca non può sorprendere, con numerose variazioni che dipendono anche da espressioni e figure ‘classiche’, e non certo soltanto a motivo di quel che potremmo definire una sorta di ‘inerzia’ linguistica. Indubbiamente c’è anche questo: generi e stili talvolta si perpetuano, talaltra si alternano, metafore e formule divenute proverbiali si ripresentano, anche presso moderni e innovatori.
Ma è altrettanto evidente che, talvolta sottotraccia, talaltra palesemente e dichiaratamente, nuove sensibilità si fanno strada. Nel caso del passaggio alla modernità e in particolare a proposito di questo argomento tanto legato a una visione del mondo in profonda e rapida trasformazione, non potrebbe essere altrimenti. Tra le righe di cose già ascoltate, oppure espresse in dichiarazioni di nuove percezioni, soprattutto nei componimenti elegiaci, emergono tormenti, dubbi e persino decisi rifiuti di consolazioni impostesi per secoli dopo l’affermazione delle fedi monoteistiche, come abbiam visto da sempre alle prese col paradosso dell’onnipotenza divina in rapporto alla libertà umana. Libertà non solo di un agire indipendentemente se non contrariamente ai dettami religiosi, ma allo stesso destino predeterminato o semplicemente già noto alla prescienza celeste.
Non si tratta di una novità assoluta, come abbiam potuto notare in alcune personalità ‘medievali’ particolarmente pessimiste o ribelli, ma le argomentazioni si fanno più esplicite paradossalmente (fino a un certo punto) nell’era dell’incertezza, pur coincidente con l’apparente trionfo della tecnica [24].
Due poeti iracheni in particolare si sono distinti in tale prospettiva: Jamil Sidqi al-Zahawl (d. 1936) e Ma’ruf al-Rusafl (d. 1945). Il primo tende a considerare la fine della via terrena come estinzione totale, senza ulteriori prospettive:
Non so se procederemo verso il nulla dopo la morte o verso la vita eterna
…
Sono in dubbio, per quanto mi riempiano le orecchie
con quelle che credono essere promesse o minacce.
O mente, non fidarti mai (delle opinioni) delle masse.
Perché la loro convinzione non è giusta.
La terra divorerà ogni essere vivente
E non risparmierà né i miseri né i felici [25].
Similmente Zahawi, Rusafi
Dove, o dove fu il mio inizio?
E dove sarà la mia fine?
Se fu dall’inesistenza all’esistenza,
sarà allora dall’esistenza alla non esistenza?
Vado da un’oscurità all’altra.
Cosa mai c’è davanti a me e cosa dietro di me?
Resto perplesso sulla mia condizione.
Dal punto di vista filosofico è invece chiaro che del termine dahriyyûn sia stata data in epoca moderna un’accezione decisamente negativa, come nella celebre opera di Jamal al-Din al-Afghani al-Radd ‘ala al-dahriyyîn (Confutazione dei materialisti) [26] dove è impiegato anche il termine nashriyya, probabile calco dall’inglese naturalist in evidente chiave antidarwiniana [27].
Eppure, come già avvenuto dieci secoli fa con l’incontro tra gli arabi-musulmani e il pensiero greco, diversi se non opposti orientamenti si sono sviluppati, anche con la modernità possiamo trovare taluni i quali invece che a una visione fatalista si sforza di riabilitare il ruolo dell’autodeterminazione umana, ‘favorito’ dall’urgenza di indispensabili cambiamenti, come nel caso del tunisino Abu al-Qasim al-Shàbbi:
Se un giorno il popolo vorrà vivere,
allora il destino dovrà obbedire
L’oscurità dissiparsi
E la catena cedere [28].
In entrambi i casi, più che un ritorno ad arcaiche visioni, si potrebbe parlare ancora di permanenza o riproposizione di qualcosa di antico che in realtà non è mai scomparso, linguaggio e testi classici ce lo rammentano periodicamente, con autori, espressioni o intere tendenze che riappaiono in determinate fasi della storia, senza alcuna necessaria consequenzialità da un punto di partenza a un punto d’arrivo, ma dimostrandoci che in molti casi non esistono risposte esatte né tantomeno definitive a domande che per loro stessa natura non sono in grado di trovarne alcuna di tal genere, almeno nell’orizzonte spazio-temporale che ci è dato e del quale restiamo prigionieri [29] finché altre porte od orizzonti si aprano dinnanzi a noi, senza però che alcuno sia mai stato in grado di tornare per raccontarcele da un lato, e dall’altro senza che correnti di pensiero frutto di numerose e talvolta fortuite concause finiscano per riaffacciarsi in forma unanime o definitiva.
Quello che molti filosofi hanno ipotizzato e persino le più avanzate teorie scientifiche lasciano intendere – ossia che tutto sia soltanto un’illusione o funzioni in base a regole che i nostri limitati sensi non possono immaginare e spesso funzionano in forma controintuitiva nell’estremamente grande del cosmo o nell’ultrapiccolo delle particelle subatomiche – sembra che unicamente alcuni mistici l’abbiano preso sul serio e soprattutto cercato di mettere in pratica, avvicinandosi così a riti e concezioni proprie di tradizioni religiose ancor più remote tipiche dell’Estremo Oriente, per ora e qui unicamente richiamate per accenno. Da parte loro i letterati si sono limitati a utilizzare lo strumento che avevano a disposizione e di cui erano esperti, seguiti a modo loro da tutti i parlanti, persino dagli analfabeti, nell’inanellare espressioni forbite o semplici modi di dire che ruotano attorno al mistero del Tempo/Destino, benché dicano cose assai ingarbugliate e persin contraddittorie, come accade spesso agli esseri umani anche a proposito di altro… anzi soprattutto quando c’è di mezzo qualcosa di ‘altro’ rispetto ai loro limitati mezzi di comprensione.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
[1] Cfr. sull’Arabia pre-islamica, R. G. Hoyland, Arabia and the Arabs. From the Bronze Age to te coming of Islam, Routledge, London-New York, 2001.
[2] G. Lacerenza, “Appunti sull’iscrizione nabateo-araba di ‘Ayn ‘Avdat”, in Studi epigrafici e linguistici sul Vicino Oriente Antico, 2000 – vol. 17: 105-114.
[3] Cit. https://www.aldiwan.net/poem25007.html
[4] Diwan Zuhayr, Dar al-kutub al-‘ammiyya, Beirut 1988: 123.
[5] Cfr. The poems of ʻAmr son of Qamī’ah of the clan of Qais son of Thaʻlabah, a branch of the tribe of Bakr son of Wā’il edited and translated by Charles Lyall, Cambridge University Press 1919.
[6] Diwan Imru’ l-Qays, ed. Muhammad abu alk-fadl Ibrahim, Dar al-ma’arif. 5a ed (1a ed. 1957), s.d., Cairo: 99.
[7]Cfr. F. Gabrieli, “Adī ibn Zaid, il poeta di al-Ḥīrah”, in Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze morali, serie VIII, vol. I (1946): 81-96.
[8] Cfr. N. Miller, “Warrior Elites on the Verge of Islam”, in S. Svärd and R. Rollinger, Cross-Cultural Studies in Near Eastern History and Literature, Ugarit Verlag, Münster 2016: 139-173.
[9] Cfr. S. Pinckney Stetkevych, The Mute Immortals Speak: Pre-Islamic Poetry and the Poetic of Ritual, Cornell University Press, 2010.
[10] Cfr. M. A. Busoeri & M. S. Animashaun: “Jahiliyyah Arabic Verse: The Dichotomy in Its Poetry”, in, vol. 13/1017: 27-37.
[11] Ibidem: 77.
[12] Già Erodoto aveva ipotizzato che Allat fosse una divinità simile ad Afrodite Urania presso gli arabi nota al tempo come Alilat, non ben distinta da al-‘Uzza anche da fonti più tarde, come le bizantine, ed entrambe collegate con Venere o Stella del mattino. Spesso abbinata a Dioniso, si trattava comunque di una divinità femminile. Le due apparirebbero anche presso i Nabatei come divinità minori rispetto a Dùshara di cui la seconda è talvolta indicata come moglie. In altri testi la prima sarebbe definita “madre degli dei”, corrispondente all’ugaritico Elat. Sotto il dominio romano e in epoca ellenistica non è assente un parallelo con Atena. Sempre ai Nabatei risalirebbe il culto di Manàt, dea della fortuna e del destino e custode delle sepolture, simile a Nemesis e Tyche. Primitivi culti cristiani verso Maria Vergine, pur condannati dal vescovo di Salamina, sarebbero state perpetuazioni di riti dedicati ad al-‘Uzza. Anche al-Kalbì nel suo celebre libro sugli idoli preislamici confermerebbe l’adorazione della prima, Allàt, specie a Tà’if, raffigurata da una pietra bianca in un territorio sacro che (similmente a quello circondante la Mecca) garantiva protezione a ogni essere vivente, animali compresi. In un rilievo della città sarebbe raffigurata in groppa ad un cammello. Al-‘Uzza avrebbe goduto di simili riguardi ad al-Nakhla. Molti giuramenti in loro nome sono attestati in varie fonti. Manàt predominava invece nel Hijàz, specie a Qudayd che avrebbe fatto parte integrante del pellegrinaggio alla ka’ba. Dapprima considerate figlie di Hubal, com’è noto dall’episodio dei ‘versetti satanici’, vennero poi ritenute figlie di Allàh. Le tribù arabe di Medina sarebbero state devote invece particolarmente a Manàt. Giuramenti e amuleti correlati alle tre dee figurano in vari poeti fra cui Antara e Aws ibn Hajar. La stessa formula Allahu akbar intenderebbe la Sua supremazia su altre divinità. Cfr. Zofia A. Brzozowska, “The Goddesses of Pre-Islamic Arabia”, in T. Wolinska & P. Filipczak, , University of Lodz 1997: 55-82.
[13] Cfr. Jacques Neirynck, Tariq Ramadan, Possiamo vivere con l’Islam?, Al Hikma, Imperia 2000.
[14] Cfr. fra molti altri testi: R. Fedriga, R. Limonta, Metter le brache al mondo. Compatibilismo, conoscenza e libertà, Jaca Book, Milano 2016.
[15] Cfr, W. Montgomery Watt, The formative period of Islamic thought, Oneworld, Oxford 1998 (orig. 1973), suggests another interpretation ‘anâ al-dahra’ (I’m eternal): 91.
[16] Gasimova, Aida, “Models, Portraits, and Signs of Fate in Ancient Arabian Tradition”, in Journal of Near Eastern Studies, Vol. 73, No. 2 (October 2014): 323.
[17] Rispettivamente vol. IV 265.27 e II 201.23 delle Futūḥāt al-makkiyya, 4 vols., Cairo 1910; M. H. Yousef, Ibn ‘Arabi Time and Cosmology, Routledge, London 2008
[18] S. Schmidtke (ed.), The Oxford Handbook og Islamic Theology, Oxford University Press, Oxford 2016: 51.
[19] Cfr. P. Pavlovitch, “Teh concept of dahr and its historical perspective in the Jahiliyya and early Isalm”, in A. Fodor (ed.), Proceedings of the 20th Congress of the Union Européenne des Arabisants et Islamisants, tart two, Budapest 2000: 6ff.
[20] http://www.almotanabbi.com/poemPage.do?pageId=310
[21] Ibidem: 54.
[22] Tanukhi (ed. S. M. Toorava), al-Faraj ba’da al-shidda, New Youk University Press, New York 2016: 8; A. Ghersetti, “Human initiative in al-Faraj ba’da al-Shidda by al-Tanukhi”, in D. E. P. Jackson (ed.), Occasional Papers of the School of Abbasid Studies, n. 4/1992: 1-9; R. M. Saleh and A. M. Abd (eds), “The Ethical Strategy in Book al-Faraj ba’da al-Shidda of Qadi al-Tanukhi. An approach in the Light of Cultural Contexts”, in Journal of University of Shanghai for Science and Technology, vol. 22, 9/2020: 350-366.
[23] Cfr. A. A. Badawi, Modern Arabic Literature, Cambridge University Press University Press, 1992; N. Abdullah Idrees, The concept of Death and its development in Modern Arabic Poetry, tesi presentata alla Soas nel 1987.
[24] Tralasciamo per ragioni di spazio e per la tematica non perfettamente coincidente la pur notevolissima produzione dell’irachena Nazik al-Mala’ika, in particolare il suo splendido poema Khams aghani li-l-alam…
[25] https://www.aldiwan.net/poem44738.html
[26] J. Al-Afghani, al-Radd ‘ala al-dahriyyin, a cura di M. ‘Abduh, Cairo 1935.
[27] Ibidem: 20.
[28] https://www.aldiwan.net/poem38947.html
[29] Cfr. fra altri G. Trautteur, Il prigioniero libero, Adelphi, Milano 2020.
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Paolo Branca è docente di Lingua e letteratura araba all’Università Cattolica di Milano. Oltre a numerosi articoli su riviste specializzate è autore di varie monografie tra cui Voci dell’Islam moderno, Marietti, Genova 1991; Introduzione all’Islam, San Paolo, Milano 1995; Moschee Inquiete, Il Mulino, Bologna 2003; Guerra e Pace nel Corano, EMP, Padova 2009; Islam al plurale. Voci diverse dal mondo musulmano (con P. Nicelli e F. Zannini), Guida, Napoli 2016; I musulmani, Il Mulino, Bologna 2016; Il Corano, Il Mulino, Bologna 2016.
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