L’Antimafia in Italia nacque sessantaquattro anni fa con un’inchiesta giornalistica in ventuno puntate, la prima della storia, e una bomba che distrusse la tipografia. Era il 1958 a Palermo e un piccolo quotidiano del pomeriggio, con una redazione di giornalisti in gran parte intellettuali di estrazione social-comunista, si misurava con l’organizzazione criminale, che sarebbe divenuta la più potente del mondo, nonché con i suoi padrini politici, la Dc fanfaniana del tempo.
La storia del giornale L’Ora – “u’ L’Ora”, così pronunciato, anzi gridato dagli strilloni agli incroci – coincide con la schiusa dell’uovo di serpente della Cosa nostra moderna che si trasferisce dai feudi agricoli in città assieme alla fase del cemento selvaggio che sfregiò per sempre il volto urbano della Sicilia.
Da quell’inchiesta, da quell’attentato scaturiscono una serie di fatti che mutano, seppur lentamente, lo stato delle cose. Il primo è la risonanza nazionale e anche fuori dai confini: la mafia diventa una questione italiana. S’inaugura, nel contempo, una nuova linea editoriale, a partire da Le parole sono pietre, magnifico reportage letterario di Carlo Levi, e da Mafia e politica, tradotto in tutto il mondo, a firma del giornalista e scrittore Michele Pantaleone, che è stato collaboratore fisso della redazione di piazzetta Napoli. Libri che inaugurano un filone di inchiesta, reportage storici e romanzi, ancora oggi molto seguito.
Su quella spinta anche emozionale, il Parlamento vara, come un transatlantico che naviga a fari spenti, la Commissione Antimafia. Sul piano politico di maggioranza si aprono brecce di dissenso significativo, soprattutto in campo cattolico, sul piano sociale galleggeranno isole di legalità che si tramutano ben presto nella stagione dell’associazionismo e del grande movimento antimafia degli anni Novanta. Non tutto nasce, serve ribadirlo, da quel piccolo giornale del pomeriggio, ma il follicolo ovarico sta lì.
A guidarlo c’è un giovane direttore. Ha 35 anni, nato in un paesino della Calabria da famiglia borghese, viene da Roma, è cronista parlamentare, vanta un rapporto d’amicizia con Aldo Moro, non conosce la Sicilia. Vittorio Nisticò viene ingaggiato dal plenipotenziario del Partito comunista, proprietario della testata, l’eccentrico scopritore di talenti Amerigo Terenzi, che aveva già lanciato con successo “Paese sera”, altro quotidiano del pomeriggio, e «che fin dal colore rossoarancio dei due ciuffi che portava sulle tempie rivelava chiaramente le sue idee e il suo temperamento» e che per anni battaglierà, per lettera e al telefono dal suo ufficio di Botteghe Oscure, con il geniale interlocutore pur riconoscendone la grandezza.
È proprio sui 21 anni di Nisticò alla direzione del giornale che si concentra una notevole indagine storica a cura di Ciro Dovizio, docente a contratto alla università di Milano, cui è stato assegnato il secondo premio del concorso “Saperi della legalità, Giovanni Falcone” (sezione dottorato), indetto dall’omonima Fondazione presieduta da Maria Falcone, ricerca che confluisce nella collana I Quaderni e presto diventerà libro. Il titolo è Scrivere di mafia. Sottotitolo L’Ora di Palermo tra politica, cultura e istituzioni (1954-1975).
Nisticò mette su una redazione con il meglio che poteva offrire la piazza siciliana e con innesti da Roma. Anticipa un giornalismo moderno privilegiando la notizia in stile british: cronaca asciutta, subito i fatti. Da piazzetta Napoli passerà il meglio del giornalismo italiano, tre generazioni e uno stile. «Con questi giornalisti scrittori – nota Dovizio – di provenienza borghese o aristocratica [ma non solo] il quotidiano puntò a saldare cronaca popolare e riflessione colta, quotidiano del popolo e dell’élite culturale di Palermo». Radunando pian piano le simpatie e le collaborazioni di artisti e intellettuali di primo piano nel Paese e in Sicilia. Collaboratori fissi come Leonardo Sciascia, Danilo Dolci, Carlo Levi, Michele Perriera, Vincenzo Consolo, Enzo Sellerio, Renato Guttuso, Bruno Caruso, nonché l’allora giovanissima fotografa Letizia Battaglia.
Racconta una firma del gruppo storico di redazione. «La parola mafia sui giornali non esisteva – scrive Marcello Sorgi, che fece parte giovanissimo del pool e in seguito fu direttore de La Stampa e del Tg1 – Non si pubblicava, né in prima né in ultima pagina. La catena di morti ammazzati che scandivano la vita di Palermo veniva presentata, senza sprezzo del ridicolo, come una serie di inspiegabili incidenti, “commerciante ucciso a sorpresa”, ed era uno a cui avevano quasi staccato la testa con due colpi di lupara, “regolamento di conti nella malavita”, ed era una strage che aveva lasciato per terra cinque cadaveri, e così via. Finché un giorno un piccolo quotidiano del pomeriggio e il suo giovanissimo direttore decisero di cominciare a raccontare la verità».
La famosa inchiesta del ’58 ha radice, per diretta ammissione di Nisticò, in quel 16 maggio 1955 quando a Sciara venne ucciso Turiddu Carnevale, dirigente della Lega degli edili, cantato in versi nella celebre elegia di Ignazio Buttitta. Ai funerali presero parte Sandro Pertini e Carlo Levi, dirigenti e deputati comunisti come Colajanni e La Torre, allora segretario della Camera del lavoro, i giornali scrissero, falsificando, di vendetta di campagna, il prefetto Jannoni fece rapporto a proposito dei partiti di sinistra che volevano strumentalizzare il fatto “senza successo” ed escludendo responsabilità politiche. In realtà, il socialista Carnevale aveva dato fastidio alla feudataria principessa Notarbartolo, tanto che quattro suoi dipendenti erano stati condannati in primo grado, ma poi assolti come sempre accadeva in quegli anni per i delitti di mafia: indagini scarse, depistaggi, avvocati di gran nome per la difesa – in quel caso si fronteggiarono due futuri presidenti come Pertini e Leone, quest’ultimo per gli imputati – trasferimenti di processi per legittima suspicione, magistrati impauriti o collusi con la politica dominante.
Mentre a Sciara l’inviato de L’Ora Marcello Cimino descriveva la coraggiosa madre di Carnevale come l’Addolorata e scriveva apertamente di delitto mafioso, il sistema politico, giudiziario e giornalistico, nonché quello religioso con in testa, sfacciatamente, il cardinale Ruffini (chi ne parlava erano “denigratori della Sicilia”), erano impegnati a negarne l’esistenza e a descriverla come una panzana inventata dalle sinistre per screditare la classe dirigente.
Sorprende, tuttavia, che Dovizio, nella sua pur ampia e documentata ricostruzione storica, cada nel medesimo impulso negazionista quando tocca, anzi sfiora, la questione del ruolo di Washington nelle vicende ancora misteriose e insanguinate della seconda parte del ‘900. Nega infatti, definendolo mitologico, il supporto dei capibastone siciliani nel 1943 durante lo sbarco e l’avanzata anglo-americana, affida solo alla mafia e a Salvatore Giuliano la strage di Portella delle Ginestre, relega nelle note le tesi contrarie di Tranfaglia e Casarrubea, cita Pantaleone solo per raccontare la sconfessione pubblica, sulle pagine del giornale, dell’ottimo collega Chilanti che intervista un boss siculo-americano dissociato.
Così facendo e ricostruendo, si viene a scartare e negare quella strategia della tensione, il cui laboratorio politico sarà sperimentato proprio in Sicilia dopo l’armistizio con la compresenza di criminali fascisti, anche a capo della polizia e dell’esercito, capimafia, feudatari e servizi segreti alleati, per contrastare il “pericolo” social comunista (in Sicilia il Blocco del popolo aveva vinto le elezioni alla vigilia della strage di Portella della Ginestra), in un Paese di frontiera con l’impero sovietico, strategia che si manifesta in stragi (Canepa e i suoi studenti, Portella) e uccisioni di sindacalisti (settanta in pochi anni), mantenendo quel sistema latifondista e nella miseria milioni di contadini, una scelta di retroguardia e di sottosviluppo che ancora l’Isola e il Meridione pagano.
Lo storico Carlo Marino non è neppure citato. «Non mi vogliono riconoscere di aver lanciato il tema – commenta con soffice ironia il professore palermitano – merito o demerito. I sindaci mafiosi nominati non ce li siamo certo inventati». Gli anglo-americani «non avevano bisogno della mafia per vincere ma per assicurarsi il controllo del territorio e il consenso della popolazione, sarebbe stato un errore strategico non farlo». Negare, insomma, le ingerenze di oltreoceano porta a oscurare l’azione terroristica di associazioni segrete come la P2 di Gelli e la Gladio, le cui ombre hanno oscurato la verità su stragi e delitti politici, da Pio La Torre alla strage di Bologna, sino alla morte di Falcone. In mancanza di verità giudiziarie, vanno salvaguardate le evidenze storiche a colmare quei buchi neri che hanno sfregiato la nascita e l’adolescenza della nostra Repubblica.
L’Ora di Nisticò seppe decifrare il trasferimento della mafia rurale e delle borgate in città. Le cosche si urbanizzavano nella fase del “sacco edilizio” e della conseguente alleanza con i grandi costruttori, anche di stretta provenienza mafiosa, e con il ceto politico dominante composto allora dalla Dc fanfaniana. Spinse e appoggiò la formazione del governo Milazzo, l’anomala tavola regionale composta da dc dissidenti, comunisti e persino neofascisti, uniti dallo spirito autonomista. «Accerchiato dal fuoco concentrico della Dc e degli apparati di sicurezza, oltre che della mafia», L’Ora condusse le sue coraggiose inchieste con un taglio moderno, il gruppo di cronisti congegnato in pool, sistema simile poi adottato dal capo dell’ufficio istruzione Rocco Chinnici: squadra affiatata, circolazione delle notizie, anche per protezione personale, distribuzione dei compiti. Ma ben presto subentrò il tempo dei lutti.
«L’epicentro della seconda stagione – scrive Dovizio – è rappresentato dal rapimento mafioso di Mauro De Mauro (16 settembre 1970), uno dei tanti misteri siciliani irrisolti, e dall’assassinio dei due giovani corrispondenti Cosimo Cristina e Giovanni Spampinato, caduti sulla stessa frontiera prima ancora di cogliere i frutti del loro lavoro, approdando, dalla provincia, alla redazione centrale. Intanto, la guerra di mafia continuava a scandire la vita di Palermo, L’Ora aveva svelato il ruolo dell’ex sindaco Vito Ciancimino e dei fratelli esattori Nino e Ignazio Salvo e le connessioni tra politici, imprenditori e mafia che solo vent’anni dopo sboccheranno nel maxi-processo, istruito da Giovanni Falcone, e nelle prime condanne all’ergastolo di boss come Riina e Provenzano».
L’addio di Nisticò nel 1975, salutato con un editoriale dal giornale concorrente del mattino, coincise con la terza generazione di cronisti, sempre e quasi tutti di alto livello, con la susseguente stagione dei delitti politici e il lento declino e il disimpegno del partito-editore, che culminò nella chiusura del quotidiano due settimane prima della strage di Capaci e quel titolo a tutta prima pagina, “Arrivederci” – nell’ultima gestione Vasile-Nicastro, dopo un susseguirsi di direttori, da Madeo a Calaciura – come a ribellarsi all’inevitabile scomparsa dalle edicole.
Ma in realtà, il giornale L’Ora non è mai morto. Da 30 anni, libri, articoli, piazzetta intestata al giornale, su iniziativa di Leoluca Orlando, persino film e documentari in tv e una pagina Facebook con importanti appuntamenti culturali, come a tenere in vita la migliore scuola di giornalismo in Italia. Come a testimoniare quanto un piccolo giornale del profondo Sud abbia provato per una stagione storica esaltante il brivido di trasformare l’animo profondo di un’Isola dove, per dirla secondo uno dei suoi scrittori più grandi e discussi, tutto deve cambiare perché tutto rimanga com’è. Almeno, per il momento.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore, e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.
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