di Maria Sirago
L’ostricoltura in epoca antica
L’ostricoltura nel mondo greco romano era molto diffusa: Aristotele cita nei suoi scritti la formazione di banchi di ostriche ‘artificiali’ creati col trasferimento di giovani ostriche in aree dove si poteva conseguire un accrescimento più veloce con migliori risultati. I pescatori e allevatori di Chio erano soliti trasportare ostriche da Pyrra (Lesbos) ponendole in stretti marini per farle ingrassare (Marzano, 2015). L’uso dell’ostricoltura si diffuse anche a Roma, come testimoniano Varrone (Res Rusticae, III: 3.10), Cicerone (Hortensius: 69), Columella (De Agricoltura, VIII: 16,7), Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, IX: 168-170), Macrobio (Saturnalia, III: 13, 12) (De Grossi Mazzorin, 2015: 153-158).
Erano molto apprezzate in particolare le ostriche del lago di Lucrino e del lago Averno, ma anche quelle del Circeo, di Taranto e di Brindisi (Plinio, Naturalis historia, XXXII: 61). Venivano anche consumate ostriche della Britannia, dei Medulli, di Efeso, di Ilici, dell’Istria (Plinio, Naturalis historia, XXXII: 62). Esse venivano trasportate anche per lunghe distanze, con diverse modalità. Il gastronomo Apicio, vissuto tra il I secolo a.C. e il I d.C., consigliava di conservarle in vasi di aceto o lavare con aceto vasetti impeciati in cui porle per poterle trasportare per un breve tragitto (Apicio, 1852: 21, capo XII). Ma a Roma erano disponibili anche le ostriche della Britannia, conservate in salamoia dentro barili o vasi di terracotta. I romani avevano “navi vivaio”, che potevano trasportare ostriche dal mar Egeo (De Grossi Mazzorin, 2015: 154).
Ambrogio Teodosio Macrobio, scrittore, grammatico e funzionario romano del V secolo d.C. nei Saturnalia (3,12,12), tra i vari banchetti di lusso ne descrive uno particolarmente raffinato preparato per celebrare la vittoria di Quinto Cecilio Metello, di ritorno dalla Spagna ulteriore (72 a.C.), in cui sono citate ostriche grandi, offerte crude a volontà nell’antipasto insieme a un pasticcio di ostriche grosse (Bellucci, 2016: 61).
Dal I secolo a.C. i ricchi patrizi romani imbandivano i lussuosi banchetti con trionfi di frutti di mare, tra cui le ostriche di Lucrino, la cui fama era ben nota. In una lapide tombale in cui è inciso l’epitaffio di Domizio Primo di Ostia, vissuto del IV secolo, lo stesso Primo dichiara di essersi goduto la vita, avendo «vissuto del Lucrino», cioè delle sue ostriche, consumando ottimo Falerno, dedicandosi ai bagni e agli amori per tutta la sua esistenza (Marzano, 2015: 1; De Grossi Mazzorin, 2015: 154).
L’allevamento di ostriche nel lago Lucrino fu creato da Caio Sergio Orata, menzionato da vari autori antichi, di cui si sa ben poco, forse di rango equestre, originario di Pompei, vissuto verso la fine del II secolo a.C. poiché era contemporaneo dell’oratore Licinio Crasso. Famoso per il suo senso degli affari, aveva inventato i bagni riscaldati costruiti nelle zone di Baia, come ricordava Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, 3.15.3). Inoltre si era dedicato alla pescicoltura, come ricorda il suo cognomen, derivato da una specie di pesce. Egli aveva creato, forse per primo, banchi artificiali nel lago Lucrino rivendendo il prodotto, molto raffinato, agli esigenti patrizi romani, Le ostriche venivano trasportate da Brindisi, dove erano banchi naturali incrementati da sorgenti di acqua dolce che si mescolava con acqua salmastra, per essere immerse nel Lucrino e anche nel Fusaro: qui trascorrevano un periodo di accrescimento e ingrasso che, a detta di Plinio, ne migliorava il sapore (Naturalis Historia, 9.54).
Anche il Lucrino era una laguna di acqua salmastra molto più estesa rispetto a quella odierna, ridottasi nel 1538 dopo l’eruzione che causò la distruzione del villaggio di Tripergole e la formazione del Monte Nuovo. Di lì passava la via Herculanea che collegava Pozzuoli a Baia e separava la laguna dal mare aperto. Il periodo trascorso nel Lucrino dava un sapore particolare alle ostriche, divenute in breve uno degli alimenti dell’aristocrazia romana. Secondo Giulio Cesare non vi era cibo migliore al mondo; ed alcuni buongustai asserivano di saperle distinguere dalle altre, ad esempio quelle che provenivano dalla Bretagna (Marzano, 2015: 2ss.).
L’ostricoltura nelle lagune costiere di Baia continuò ad essere praticata anche nei secoli seguenti, come testimoniano le fiaschette tardo-antiche in vetro, dette ostriaria, con vedute topografiche di Baia e Pozzuoli e delle ostriche appese ai pali (Kolendo, 1972; De Grossi Mazzorin, 2015: 153ss). Anche il poeta Decimo Magno Ausonio, vissuto nel IV secolo d. C., nativo di Burdigala (odierna Bordeaux), nell’Epistola 9,30 citava le ostriche di Baia che fluttuavano appese ai pali; ma nell’epistola 13 ricordava anche le ostriche di Medulo, una laguna vicino alla sua città nativa.
Le fiaschette, probabilmente un prezioso regalo per gli ospiti che venivano ad omaggiare gli imperatori a Baia, sono una fonte iconografica preziosissima per la ricostruzione dei sistemi di allevamento delle ostriche menzionati da Varrone (Res Rusticae, III, 17) e Columella (De Agricoltura, VIII: 16-17). Anche il senatore Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, vissuto sotto il regno romanico barbarico degli ostrogoti, poi sotto l’Impero Romano d’Oriente, menzionava gli allevamenti di ostriche negli stagni del lago Averno e del suo territorio, un prodotto destinato «ad voluptatem hominum» (al piacere degli uomini) per i banchetti raffinati (Variae, 9.6.3-4); inoltre paragonava la fama di Baia per l’acquacoltura a quella degli allevamenti presenti in Istria (Variae, 12.22.4).
La tecnica a “pergolato” raffigurata negli ostiaria con pali di legno infissi in acqua e corde distese tra i pali, a cui sono sospese le ostriche che formano dei grappoli, era usata assieme ad una altra tecnica con cui si formava un sostrato fatto di frammenti di terracotta, tegole e pietrame, su cui si facevano attecchire le ostriche (Marzano, 2015: 5).
In scavi archeologici di età imperiale romana sono stati ritrovati gusci di ostriche con un forellino utilizzati con una duplice funzione: alcuni erano forati con tracce di pigmento, per cui saranno stati impiegati appesi a catenelle dai pittori o pestati per ottenere la calx de ostrea, che dava un colore bianco avorio (Maurina, 2017: 17), menzionato in un manoscritto anonimo napoletano del XIV secolo, De arte illuminandi, un ricettario per l’arte della miniatura, conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli (ms. XII E 27) (Brunello, 1975; Pasqualetti, 2011). Questi numerosi resti testimoniano la diffusione del cibo raffinato, a cui si aggiungevano altri molluschi, presentati insieme negli stessi gusci delle ostriche.
La gastronomia nel mondo greco
Edoardo Mori, nella sua raccolta on line di 110 testi per la storia della gastronomia europea ha messo in rete come primo “ricettario” la Gastronomia di Archestato di Gela (1987), vissuto nella seconda metà del IV secolo a.C., considerato un precursore di Epicuro, di cui sono sopravvissuti numerosi frammenti. Nel poemetto conosciuto con vari nomi il poeta raccontava dei suoi numerosi viaggi alla ricerca delle migliori vivande e dei vini più pregiati. Egli lodava la cucina siciliana, famosa perché gli isolani erano opulenti e pieni di lusso e mangiavano due volte al giorno, spesso manicaretti. La cucina era molto apprezzata dagli stranieri, che giungevano nell’Isola per «apprender l’arte di condire i cibi», una moda diffusa in tutti i Paesi del Mediterraneo. Egli menzionava numerose vivande, tra cui le “grosse ostriche” di Abido, una città dell’Alto Egitto, molto gustose (Archestato, 1823).
La cucina romana: le ricette di Apicio
I momenti conviviali del mondo romano erano improntati sulla luxuria: venivano infatti allestiti sontuosi banchetti in cui si servivano le più raffinate prelibatezze, come quelle descritte nel Satyricon di Petronio durante la cena offerta da Trimalcione (Squillace, 2020: 183-185). Tra i cibi le ostriche, specie quelle di Baia, rappresentavano il culmine della raffinatezza. Il poeta Marziale le definiva “cibo dei padroni” nei suoi epigrammi satirici (3, 60; 6,11, 7,798). I numerosi contesti archeologici romani databili tra la prima età imperiale e il Medioevo mostrano un assiduo consumo di molluschi, soprattutto ostriche, un incremento presente soprattutto nel II secolo d.C. Un altro notevole incremento si ha nel VII secolo, durante l’occupazione bizantina. Probabilmente gli allevamenti di ostriche, in abbandono in Europa dopo le invasioni barbariche, in Italia dovevano essere ancora funzionanti. Anche nello scavo del complesso archeologico napoletano del Carminiello ai Mannesi si è evidenziato un largo consumo di ostriche fino al tardo medioevo. Negli scavi del castello di Carlo V a Lecce sono stati trovati alcuni frammenti di gusci d’ostrica (De Grossi Mazzorin, 2015: 155ss.).
Le ostriche sono menzionate nel famoso “ricettario” di Apicio, il cui nome è da sempre legato alla gastronomia, alle buone pietanze, alle cene succulente. Conosciamo tre personaggi con questo nome: un Apicio vissuto molti anni prima di Cristo che inveisce contro la legge Fannia proposta da Rutilio Rufo per limitare l’eccessivo lusso dei banchetti romani; un Marco Gavio, soprannominato Apicio dal nome del famoso ghiottone che visse nel secolo precedente, operante sotto Tiberio; un Apicio vissuto sotto Traiano specializzato nella conservazione delle ostriche fresche da inviare all’imperatore Traiano in Mesopotamia nel 115 d.C., un metodo citato nel ricettario di Marco Gaio che presupporrebbe un legame tra i due (Dalby, 2003).
Il famoso “gourmet” Marco Gavio Apicio, ricordato da Marziale in un suo epigramma a banchetto con Mecenate (Epigrammi, 10. 73), raccolse il gruppo di ricette gastronomiche che costituisce il nucleo preponderante del De re coquinaria. Dalle testimonianze di Seneca (Dialoghi, XII: 10, 8) e di Tacito (Annales, IV,1) si può fissare la data di nascita di Apicio intorno al 25 a. C. Descritto dagli autori antichi come amante dello sfarzo e del lusso, costituisce la principale fonte sulla cucina romana che ancora riemerge nelle ricette napoletane (zucchine alla scapece cioè “ad usum Apicii”) e nella colatura delle alici prodotta a Cetara, una sorta di garum, un condimento molto usato dal gastronomo latino (Sirago, 2018: 117, e 2022: 140).
Il De re coquinaria è un testo molto complesso ed è costituito da più sezioni non omogenee tra loro, perché probabilmente composte in più secoli (dal I secolo a.C. al IV d.C.). L’opera è costituita da ricette di salse e di piatti completi. Il capitolo nono tratta del mare, il decimo del pescatore. Questi capitoli sono interamente dedicati al pesce, ai molluschi e ai crostacei, ma Apicio non si preoccupa tanto della loro preparazione. Egli consigliava soprattutto le salse più adatte da abbinare ai vari piatti (Apicio, 1498). Nel suo trattato era data molta attenzione alla preparazione delle ostriche, tanto che aveva creato una salsa baiana, detta così dalle ostriche baiane servite con vino campano, di solito Falerno. La fine di questo personaggio fu però tragica. Dopo avere speso somme enormi per le raffinatezze che imbandiva alla sua tavola, accortosi che non gli restava denaro per mantenere questo tenore di vita, decise di suicidarsi (probabilmente alla fine del regno di Tiberio) (Tosini, 2015).
Il consumo dei prodotti ittici in età spagnola e austriaca
Anche nel Medioevo la capitale partenopea continuò a seguire la tradizione antica. I napoletani hanno sempre avuto una passione speciale per i frutti di mare, in particolare le ostriche, e per le sue produzioni ittiche, cantate ai primi del Cinquecento da Jacopo Sannazaro nelle Ecloghe piscatorie (1995). I napoletani erano soliti consumare notevoli quantità di prodotti ittici, specie frutti di mare, nelle festività, durante i giorni di magro, prescritti dal calendario liturgico, abitudine che hanno conservato, quasi in onore alla mitica sirena Partenope, da cui la città prende il nome, morta lungo la spiaggia vicino all’isoletta di Megaride, dove oggi sorge il castel dell’Ovo (Mancusi Sorrentino 2008).
Nella corte angioina, a fine Trecento, fu scritto un Liber de coquina (oggi composto da due testi manoscritti del XIV secolo, ma probabilmente basato su testi anteriori, in cui viene riportata una gustosa ricetta per le ostriche oltre a numerose ricette per cucinare il pesce (Mulon, 1971). Un interessante ricettario è il Liber de cocina attribuito al cuoco Ruperto da Nola, di cui si hanno pochi riferimenti bibliografici. Probabilmente nativo di Nola, lavorò alla corte degli Aragonesi; il poeta Jacopo Sannazaro nei suoi componimenti citava delle pietanze tratte dal suo ricettario come la “zuppa naurea (dorata) con salsa gramellina” (Sirago, 2018: 121). Dopo la fine della dinastia aragonese e la conquista del regno meridionale da parte degli spagnoli (1503), egli si trasferì nella Corte di Catalogna e nel 1520 pubblicò il Libro del Coch in lingua catalana con lo pseudonimo di Mestre Robert. Nel 1525 il libro, che aveva avuto grande successo, fu pubblicato in spagnolo con il titolo Libro de Guisados, manjares y potajes intitulado Libro de cocina. Nel testo egli dà precise istruzioni su «como se guistan las ostias», fritte con spezie e succo di arancia, bollite con foglie di lauro, ecc.
Il libro anche se compilato in epoca aragonese era diventato un must per la corte spagnola e per quella vicereale napoletana. I viceré fin dal loro arrivo facevano allestire delle tavolate con costruzioni scenografiche di prodotti ittici adagiati su stoffe azzurre che richiamavano la distesa del mare.
Dalla fine del Cinquecento e nella prima metà del Seicento si era diffuso l’uso di organizzare fastosi festeggiamenti per l’arrivo del nuovo viceré. Il giorno di San Giovanni, 24 giugno, in cui si sceglieva l’eletto del popolo, il seggio organizzava la festa del santo venerato nella chiesa di San Giovanni a Mare dei cavalieri gerosolimitani (o di Malta). La processione scenografica partiva dalla reggia, guidata dal viceré, accompagnato dall’eletto, per raggiungere la chiesa, nei pressi della torre di Sant’Eligio. Lungo il percorso tutti gli artigiani addobbavano le botteghe con stoffe preziose e profumi diffusi nell’aria. Venivano poi ricreate delle immagini scenografiche in cartapesta che innalzavano la potenza del viceré unite alle immagini di divinità marine, in primis la ninfa Partenope. Inoltre venivano imbandite ricche tavolate per il popolo, in cui vi erano prelibati manicaretti a base di pesce e ostriche e molluschi a volontà, una sorta di “cuccagna marina” saccheggiata con gusto dalla folla festante. Le migliori tavolate erano quelle organizzate dai marinai e pescatori che abitavano alla Pietra del Pesce vicino alla chiesa dove il viceré si fermava per gustare le prelibatezze offerte (Gleijeses, 1976: 167-169; Sirago, 2018: 118 e 2022: 73ss.).
Altre prelibatezze ittiche venivano gustate durante gli “spassi di Posillipo” o “posillicheate”, gite a Posillipo dei viceré e dalla loro corte nelle domeniche tra luglio e agosto su gondole riccamente addobbate accompagnate da gondole con musici e altre imbarcazioni ripiene di ogni sorta di cibo prelibato, conservato in ampi panieri (Sirago, 2022: 51ss.).
Il consumo dei prodotti ittici era obbligatorio in particolari periodi “di magro” previsti dal calendario liturgico per cui i cuochi si adoperavano per elaborare raffinate ricette, molte delle quali a base di ostriche, cotte in mille maniere. Una delle raccolte più numerose si trova nei due libri di Antonio Latini pubblicati nel 1692 e 1694. Il cuoco, nato a Colleamato di Fabriano, nelle Marche, trovò fortuna a Roma presso il cardinale Francesco Barberini dove a soli 28 anni fu nominato “scalco” cioè soprintendente alle cucine, col compito di selezionare e dirigere i cuochi e la servitù, rifornire la dispensa e organizzare i banchetti, specializzandosi nell’arte del trinciante, cioè nel taglio delle carni. Concluse la carriera a Napoli in casa del reggente Esteban Carillo Salsedo; e qui, dopo aver pubblicato il suo “ricettario”, morì nel 1696 (Capatti Montanari, 1999). Il trattato è una raccolta di tutta la tradizione culinaria precedente, come si vede anche dall’ampia trattazione nel secondo libro sul modo di preparare le ostriche. In particolare, egli consigliava di gustare le ostriche di Taranto, le migliori. Nel “ricettario” compare in modo pionieristico, per la prima volta, una salsa al pomodoro ed è dato spazio all’uso del peperone, cibo straniero, fino ad allora sconosciuto, il che mostra la sua tendenza alla sperimentazione. Inoltre sono citate tutte le “eccellenze campane” e del meridione.
Uno dei luoghi più frequentati dagli amanti delle produzioni ittiche era il borgo di Santa Lucia dove vivevano i luciani, in maggioranza abili pescatori e sommozzatori alla ricerca di frutti di mare, tra cui le ostriche. Alla “pietra del pesce” si svolgeva un ricco mercato ittico dove si vendeva ogni prelibatezza (Sirago, 2018: 119ss.). Anche a partire dal 1707, quando si ebbe la dominazione austriaca, si continuò ad allestire sontuose “feste marine” in cui si preparavano sontuosi banchetti e cuccagne con trionfi spettacolari di prodotti ittici messi in bella mostra, soprattutto durante la festa di Piedigrotta, celebrata l’8 settembre (Antonelli, 2014: 347; Sirago, 2022: 83ss.).
La prima età borbonica (1734-1806)
Dal 1734, quando Carlo arrivò a Napoli, la città partenopea riprese lo status di capitale, divenendo meta per i nobili aristocratici che nel loro Grand Tour cominciarono a inserirvi una città fino ad allora sconosciuta, attirati anche dalla scoperta delle antiche città di Ercolano e Pompei (Mozzillo, 1993). Tra i viaggiatori ricordiamo Giacomo Casanova che, venuto a Napoli nel 1770, venne accolto dall’ambasciatore inglese William Hamilton. Durante il suo soggiorno l’ambasciatore lo invitò ad una festa organizzata dal principe di Francavilla Michele Imperiali, famoso per le sue cerimonie marine organizzate nella villa sita di fronte al Castel dell’Ovo, oggi sede dell’Università. In quella occasione le quali i partecipanti potevano ammirare dalla terrazza le evoluzioni natatorie di giovani e giovinette vestiti come le antiche divinità romane, uno spettacolo raccontato con stupore dallo stesso Casanova (Sirago, 2014). Per deliziare i suoi ospiti il principe faceva imbandire da Vincenzo Corrado, responsabile dei “servizi di bocca” (antica mansione con cui veniva chiamato colui che era preposto a sovrintendere alla cucina, alla preparazione delle vivande e all’organizzazione dei banchetti) di palazzo Cellammare e della villa, sontuosi banchetti spesso a base di prodotti ittici, trionfi di ostriche e frutti di mare, costruiti con fantasia e particolari accorgimenti architettonici volti a creare una scenografia sontuosa e raffinata.
Le ricette e gli apparati per imbandire la tavola si leggono nel suo famoso “ricettario”, Il cuoco galante, pubblicato nel 1773, definito all’epoca un libro di alta cucina, richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell’epoca, e ristampato per ordine del principe per ben sei volte. Il Corrado era un cuoco e valente gastronomo ma anche un filosofo e letterato, che per primo progettò e scrisse un libro sulla cucina mediterranea (http://www.mastroscappi.org/corrado.html). Il capitolo XVI era dedicato alle “Frutta di mare”: egli annotava: «Tra le frutta di mare più piacevoli sono le ostriche, le quali si mangiano crude appena uscite dall’acque. Furon mangiate la prima volta da Celio Apicio». Egli forniva poi numerose ricette, “alla moda”, “al grasso, “alla Salsa Reale”, usate per farcire vari pasticci o per una “frittata alla marinaresca”, usate sui “tondini” (specie di bruschette) come antipasti da porre accanto al piatto di ogni invitato. Insomma nelle sue sontuose mense l’ostrica non doveva mai mancare.
Altro cuoco di eccezionale bravura fu il romano Francesco Leonardi che da giovane andò a Parigi, poi per qualche tempo lavorò anche col Corrado; infine nel 1783 fu chiamato in Russia dalla zarina Caterina II a cui fece conoscere la salsa di pomodoro, una preparazione appresa dal suo maestro. Rientrato in Italia pubblicò nel 1790 a Roma un testo di cucina in sei volumi, Apicio moderno ossia arte di apprestare ogni sorte di vivande, dedicando il sesto alle ricette per i prodotti ittici. Alle pagine 140-149 del VI libro egli dava precise notizie sulle ostriche, quelle dell’Oceano e Baltico vendute in Inghilterra, Francia, Polonia, Danimarca, Svezia, Russia. Ma ricordava anche le numerose produzioni italiane, soprattutto quelle di Napoli e Venezia, queste ultime trasportate a Roma. Egli sottolineava che le ostriche sono molto appetitose «sopra tutto mangiate subito sortite dal mare» per cui uno dei principali usi delle ostriche era quello di servirle come antipasti su “tondini”. Ma dava anche un abbondante florilegio di ricette, in primis il “ragù di ostriche”, usato per servire da condimento in varie pietanze. Poi suggeriva altre ricette per le ostriche arrostite, alla besciamella, al naturale, in cassettine di carta, al “vino di sciampagna”, ecc., fatte sfumare con vino bianco o di “sciampagna o del Reno”. Citava infine le cozze di Taranto, trasportate a Napoli in barili, come si faceva al tempo di Apicio, ma per le pietanze che preparava preferiva sempre quelle fresche. La poderosa opera testimonia la sua profonda cultura culinaria, appresa durante i suoi numerosi viaggi, e il desiderio di raffrontarsi con il famoso gourmet latino, come un “Apicio moderno”, in grado di fornire le migliori ricette per ogni tipo di cibo (circa 2000), soprattutto quello raffinato, come le ostriche.
La ripresa dell’Ostricoltura nel Lago Fusaro tra Settecento e Ottocento
Per poter gustare ostriche fresche re Ferdinando decise di ripristinare nel lago Fusaro le antiche coltivazioni. Come il padre Carlo, egli era amante della pesca per cui aveva ampliato le riserve o “siti reali” per esercitare questa attività (Sirago, 2018: 80ss. e 2023). Uno di questi siti era il lago Fusaro che dal 1762 venne ripopolato con ostriche provenienti da Taranto coltivate nel lago con l’antico sistema “a pergolato” usato a Taranto fino agli ’60 del Novecento (Marzano, 2015: 5).
Negli anni Cinquanta re Carlo aveva dato incarico all’architetto Luigi Vanvitelli di costruire il casino reale del Fusaro, chiamato poi “Ostrichina”, completato dal figlio Carlo durante il regno di Ferdinando, nel 1782. Questo casino, conosciuto oggi come Casina Vanvitelliana, era utilizzato dal sovrano per ospitare gli ospiti illustri (Pane, 1980; Cirillo, 2001) che potevano gustare anche le ostriche allevate con gli stessi sistemi antichi dei “panieri” (Ranisio, 1989: 64).
Ai primi dell’Ottocento l’ostricoltura nel lago venne riorganizzata e fu aperto un “Grand Restaurant” nella “Casina Vanvitelliana”, che ospitava i numerosi “turisti”. Questo apparato, anche se costoso, a metà Ottocento rendeva al sovrano circa 7200 ducati annui (Ranisio, 1989: 64ss.). Ma poiché il fondo del lago era fangoso, furono impiantate scogliere artificiali con dei pali, un sistema detto arocchia. Alle palizzate venivano legate funi di paglia, i libani, dove si attaccavano le ostriche; e per la conservazione erano legate alle palafitte delle nasse, grandi panieri di vimini simili a quelli usati in mare per la pesca dei crostacei. Una prima perizia fu effettuata nel 1834 da Oronzo Gabriele Costa, un illustre scienziato, padre di Achille, per conto dell’affittuario per esaminare le cause della moria delle ostriche, dovuta secondo lui al fondo fangoso del lago. Egli poi effettuò una seconda perizia nel 1849 per conto degli affittuari Rossi e Maione, consegnata all’amministratore generale dei dazi indiretti, il signor Ventimiglia, in cui proponeva di bonificare i due laghetti posti vicino alle foci (Costa, 1860; Pirolo, 2018: 108-109).
Questa produzione ha avuto un’ampia rinomanza scientifica per tutto il XIX secolo ed è stata diffusa dagli scienziati venuti a studiarla, in primis il francese Jean Jacques Marie Cyprien Victor Coste inviato dal governo per studiare il tipo di tecnologia utilizzato (Coste, 1861: 89-106). I numerosi scienziati venuti in Italia meridionale dalla Francia, dalla Svezia, dalla Danimarca per studiare l’ostricoltura del Fusaro e di Taranto erano ricordati anche da Achille Costa che osservava la distruzione di produzione in Napoli, auspicandone un ripristino grazie alla società costituita dal de Negri che con alcuni soci voleva creare uno stabilimento di piscicoltura a Posillipo e riorganizzare l’ostricoltura nel Fusaro (Costa, 1860: 103-104). Ma il progetto non fu attuato, anche se nel 1879 il Palma aveva scritto una relazione sulla distruzione dell’ostricoltura del lago Fusaro, proponendo alcuni sistemi atti al suo ripristino Palma, 1879: 357ss.).
Finalmente a fine Ottocento cominciò una lenta ripresa, anche se vi era poca manutenzione per la scarsezza di addetti (4 operai nel 1892, aumentati poi a 6). La ripresa è testimoniata dal funzionamento del ristorante, pubblicizzato nei giornali locali, come l’ “Emporio Puteolano” del 1885-1886, divenuto meta di gite dei napoletani. Ma ai primi del Novecento il ristorante fu chiuso, data la crisi della produzione di ostriche. Perciò nel 1912 Francesco Saverio Nitti, allora ministro dell’agricoltura, aveva ordinato che fosse effettuata una ispezione. Solo nel primo dopoguerra si cercò di ripristinare gli impianti affidando nel 1928 la gestione all’Azienda del Mar Piccola di Taranto. Ma pian piano la produzione si è avviata ad un lento declino, anche perché non vi sono state più le condizioni ambientali adatte, dato il progressivo inquinamento, incrementatosi negli ultimi anni (Ranisio, 1989).
Il decennio francese (1806-1815) e la seconda età borbonica (1815- 1860)
Durante il decennio francese arrivarono pochi viaggiatori a Napoli a causa delle guerre in corso ma sia Giuseppe Bonaparte che Gioacchino Murat si adoperarono per riorganizzare la città, ripristinando la Villa Reale, costruita a fine Settecento da Carlo Vanvitelli, dove vennero aperti numerosi restaurant che imbandivano prelibati menù, anche con frutti di mare e ostriche. Qui nel 1811 Murat fece allestire due sontuosi banchetti, uno per i poveri, nella reggia di Caserta ed uno per i legionari, a Napoli nel Museo di San Martino, raffigurati nei dipinti di Gaetano Gigante.
Dopo la Restaurazione (1815) re Ferdinando fece completare il ripristino della Villa Reale, dove furono aperti altri restaurant come la “Casina del boschetto” e stabilimenti balneari. Vennero poi costruiti importanti alberghi per ospitare i numerosi turisti tornati in massa nella capitale partenopea, specie quelli inglesi, che preferivano la riviera di Chiaia (Sirago, 2018:125). Uno dei posti più frequentati per la degustazione dei prodotti ittici era il borgo di Santa Lucia, il mercato del pesce per eccellenza, con le numerose bancarelle che vendevano soprattutto i frutti di mare e le ostriche nei banchetti degli ostricari, gustate per lo più crude con una goccia di limone.
Nella Guida del 1826 Giovan Battista de Ferrari descriveva il borgo come «luogo nobilissimo, tanto per la sua deliziosa posizione sul golfo, …quanto perché nell’estate vi concorrono di sera e di notte … e lungo la …spiaggia si sogliono ergere di dopo pranzo molte botteghe di legno nelle quali si vendono frutti di mare, e pesce squisito». Una descrizione ancor più dettagliata di questo mondo brulicante in cui si vendeva ogni sorta di prodotto ittico è nella Guida di Erasmo Pistolesi del 1845: egli ricordava uno «spazio di circa trecento passi» su cui erano «esposte delle picciole tavole e su quelle le ostriche e i frutti di mare in cestelli piani decorati di musco marino». “Le ostriche del Fusaro” erano «dentro secchi pieni di acqua di mare» pronte per essere degustate.
Anche nel libro di ricette di Ippolito Cavalcanti del 1839 si prestava attenzione alla preparazione delle ostriche, sia crude, sia arrostite mollicate, sia le “eccellenti ostriche di Taranto” in salsa, da preparare in piattini come antipasti. Egli dava poi una ricetta per l’arrosto di ostriche, quelle del Fusaro, più grandi, spolverate di pan grattato, ed una «entreme di tartufi farsiti», un ripieno di frutti di mare tra cui ostriche. Il Cavalcanti, duca di Buonvicino, cuoco e letterato, aveva voluto compendiare nel suo libro ricette utilizzate da ogni ceto sociale, anche se, data la sua discendenza familiare, conosceva bene le prelibatezze della cucina, sia quella partenopea che quella europea (Martorana, 1874).
Napoli postunitaria
Dopo l’Unità per risolvere il problema del depauperamento della fauna e dei fondali marini, furono emanati regolamenti che imponevano specifici divieti e limitazioni. La necessità di trovare una soluzione a questi aspetti dannosi spinse il governo a promuovere un’inchiesta sulla pesca e ad istituire un’apposita commissione in ogni porto del regno per una metodica raccolta di informazioni sul settore. Con decreto regio del 17 novembre 1869 fu istituita la Giunta Reale per la pesca e fu nominato vicepresidente il professore di scienze naturali fiorentino Adolfo Targioni Tozzetti. Furono poi anche istituite delle sottocommissioni compartimentali nei principali centri marittimi del regno, incaricate alla raccolta di tutte le notizie utili alla Giunta per redigere un regolamento generale sull’esercizio della pesca affinché questo, pur continuando ad essere un’attività prospera e fonte di reddito per gli addetti del comparto, non determinasse l’impoverimento delle risorse marine (Targioni Tozzetti, 1872).
Anche il settore dell’ostricoltura del Fusaro era da tempo in crisi, come testimoniava il Palma che proponeva vari metodi per migliorare le condizioni del lago. Nel 1893 Davide Carrazzi rilevava che le ostriche erano scomparse dal lago Fusaro, utilizzato solo come deposito per quelle provenienti da Taranto. Il Dorotea nel suo trattato sull’alieutica nel Napoletano sosteneva che l’industria fondata dai romani era continuata fino all’eruzione del Monte Nuovo e che poi era stata trasferita nel lago Lucrino per cui egli proponeva opportune misure per il suo ripristino; e lo stesso era per il Fusaro, dove era necessario bonificare il fondo melmoso (1862: 52 e 58). A fine Ottocento si cercò di risolvere il problema con il banchinamento del lago, mentre alcuni nuovi conduttori introducevano dei cambiamenti nelle tecniche di allevamento e nelle attrezzature, basate sul modello di Taranto (Fenicia, 207 e 2011; Armiero, 2000). Ma i tentativi non andarono a buon fine tanto che nel primo decennio del Novecento si ebbe una lenta decadenza. Nel 1928 il Fusaro con il Lago di Lucrino e il Mare Morto furono presi in gestione dall’Azienda Demaniale del Mar Piccolo di Taranto, dove si producevano le migliori ostriche d’Italia. Ma anche questo tentativo fallì (Ranisio, 1989: 74-75).
Conclusioni
Secondo lo studio di Stefano Cataudella del 2012 l’ostricoltura fino al 2009 era poco praticata a livello nazionale, anche se negli ultimi anni i mitilicoltori stavano considerando le ostriche come opportunità per la diversificazione produttiva rispetto alla mitilicoltura. Negli ultimi anni, a parte un picco produttivo nel 2002, probabilmente dovuto ad attività d’ingrasso di prodotto proveniente dall’estero, le produzioni si sono presentate limitate nei quantitativi, mai superiori alle 50 t, e concentrate in poche imprese della Sicilia, Emilia Romagna, Toscana e Sardegna.
Nell’ultimo decennio si è però avuta una inversione di tendenza tanto che in un suo articolo del 18 marzo 2019 Sabina Licci titolava “Ostrica made in Italy, è boom della produzione”, citando come luoghi di allevamento e produzione la Sardegna (specie le lagune nel territorio di Oristano), la Liguria, in particolare La Spezia, e Goro, sull’Adriatico. La giornalista rimarca che l’Italia è il secondo mercato per consumo di ostriche dopo la Francia per cui sarebbe buona pratica incrementare la produzione (www.ansa.it/canale_terraegusto/notizie dal mare). Tra le novità vi è quella di una cooperativa di pescatori pugliesi che nella laguna del lago di Varano, nel Gargano, oggi riserva naturale, nel 2019 hanno immesso sul mercato l’ostrica di San Michele, dolce, dal sapore intenso, con note di frutta secca e pistacchio. Il progetto, scrive Annalucia Galeone il 16 gennaio 2020, è nato nel 2017 dall’intuizione di Armando Tandoi, Generak Manager di Oyster Oasis, azienda leader in Italia nell’importazione e distribuzione di frutti di mare, e Vincenzo Falco, Presidente del Consorzio dei pescatori di Ischitella. Gli autori del progetto ribadiscono che in Puglia tutto il mare può essere zona di allevamento, ma il risultato non è garantito perché «occorrono tecnica e condizioni ideali per fare qualità» (www.doctorwine.it/gourmet/nelpiatto/l-ostrica-di-san-michele).
Altre sperimentazioni si stanno facendo in Sardegna, nei mari della Liguria e in Adriatico. Ma gli antichi luoghi di produzione, in Campania, nel Fusaro e a Baia, ormai definitivamente inquinati, per ora sono abbandonati. Si spera comunque in un progetto che possa risolvere i problemi ambientali per riportare alla luce la famosa ostrica del Fusaro decantata da Apicio.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503 -1707), Licosia ed. Napoli 2018.
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