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Lotta all’estrattivismo minerario e narrazioni subalterne nel parco del Beigua

Ambiente boschivo con percorso neolitico, località Pianale, Valle di Sassello (ph.Massimo Ferrando)

Ambiente boschivo con percorso neolitico, località Pianale, Valle di Sassello (ph.Massimo Ferrando)

CIP

di Lorenzo Lanfranco 

Il mio interesse per il territorio ligure, in particolare Sassello – paese che si situa sull’Appennino in provincia di Savona, alle pendici del Monte Beigua – nasce dalla decisione, un paio di anni fa, di trasferirmici a vivere. Il paese è stato luogo di alcune mie ricerche in passato, specialmente sul tema del rapporto con il bosco all’interno del dualismo “natura-cultura”, come parte di un progetto che aveva come obiettivo la costruzione di una performance live. Nel caso del presente lavoro, il territorio si presenta come spazio fertile per trattare, anche se quasi sfiorandoli, alcuni temi particolarmente attuali. Una premessa importante riguarda le conversazioni che ho avuto con alcuni abitanti del paese di Sassello, queste sono una visione sicuramente parziale della complessità della realtà di narrazioni e conflitti tra le parti presenti sul territorio rispetto a questa frattura. Allo stesso modo, molte altre domande – altrettanto fondamentali – si diramano interrogandoci di questa complessità. Nello scrivere il presente articolo non c’è altra intenzione se non quella di generare ulteriori interessi e volontà di ricerca su un tema e contesto che hanno, oggi più che mai, necessità di “essere al centro del dibattito” politico, accademico ed etico. 

Date queste premesse, la presente ricerca aspira a intrecciare il tema dell’estrattivismo minerario con la consapevolezza di una fetta di popolazione sempre più ampia rispetto agli impatti di questa modalità estrattiva sul cambiamento climatico. La domanda di ricerca si situa all’intersezione tra un’antropologia dei cambiamenti climatici, un’antropologia dei disastri e il filone classico di ecological studies. In particolare, diventa estremamente proficua la lettura all’interno del framework di un’antropologia dei disastri la lotta che da anni è portata avanti contro il tentativo di aprire una miniera di titanio sul Monte Tariné – monte facente parte della catena del Beigua e all’interno del parco naturale regionale, nonché Geoparco UNESCO. 

La miniera comporterebbe il ricollocamento del paese di Urbe, confinante con Sassello, nonché l’inizio di una serie di pratiche estrattive che porterebbero a una modifica totale dell’ambiente e della convivenza con il territorio da parte degli abitanti dell’area. A tutto questo si affiancherebbe un rischio amianto, quindi correlato alla sanità pubblica e una serie di problematiche rispetto al materiale di scarto della miniera. Il giacimento di titanio di Piampaludo ricade nei comuni di Urbe e Sassello (SV) e in gran parte nel territorio del Parco Naturale Regionale del Beigua. Conosciuto e studiato dagli anni ‘70, consiste di masse mineralizzate a rutilo concentrate all’interno di rocce denominate eclogiti [1] che affiorano soprattutto in corrispondenza dei Monti Antenna e Tariné. La riserva accertata è di circa 9 milioni di tonnellate di rutilo, ma fino a 20 milioni secondo alcune stime [2]. Secondo queste valutazioni si tratterebbe di uno dei più grandi giacimenti europei, se non mondiali, di questo minerale. Sono stati concessi nel tempo alcuni permessi per effettuare rilevazioni e ricerche sul giacimento, ma non è mai stata data la possibilità di apertura della miniera [3]. 

Nonostante quella che potrebbe apparire come una situazione abbastanza protetta contro possibili speculazioni, nel corso degli anni ci sono state notevoli mobilitazioni da parte degli abitanti del territorio e delle istituzioni dell’area – in primis i comuni e il parco – per interrompere ed interferire con possibili trattative tra Stato, regione ed enti del settore. Come purtroppo noto, il titanio appartiene a quel gruppo di materie prime ritenute strategiche per una conversione all’elettrico e per una riduzione dell’estrattivismo di carburanti fossili. La questione ambientale, nonché etica, riguarda la possibilità di avere un disastro ecologico locale per obiettivi economici ed estrattivisti globali. Nel caso di un’apertura della miniera, il parco del Beigua, specialmente intorno al giacimento, si potrebbe aggiungere a quelle aree che sono cinicamente definite “Aree di sacrificio” [4]. Leggendo alcuni articoli online e narrazioni che nel tempo si sono costruite a partire dall’interesse per il giacimento, si può già notare come le forze politiche interessate ai potenziali profitti di questo tipo di estrattivismo abbiano portato avanti una campagna narrativa che ha spesso utilizzato parole e riferimenti semantici connessi al sacrificio e al “bene comune” per giustificare l’apertura della miniera. 

Torbiera, località Piampaludo, area Tarinè (ph.Massimo Ferrando)

Torbiera, località Piampaludo, area Tarinè (ph.Massimo Ferrando)

Ritornando all’antropologia dei disastri, possiamo considerare il cambiamento climatico – inteso come iperoggetto [5]  – come un disastro su lungo periodo, che ci obbliga e ci interroga sulla questione delle scale spazio-temporali. È proprio il lungo periodo che richiama concetti quali la slow violence (Nixon, 2013), termine con cui ci riferiamo a un tipo di violenza strutturale (Galtung, 1996; Farmer, 2004) che rimane continuativo nel tempo, una sorta di violenza graduale. Su questa stessa linea, anche riprendendo Marcel Mauss (1923), i disastri si possono considerare come fatti sociali totali, capaci di restituirci interpretazioni della realtà e framework su come la nostra società veda e agisca sé stessa. 

L’estrattivismo minerario [6], in questa cornice, diventa un’attività-modello di questi disastri su lungo periodo. A partire dalla narrazione, come sopra abbozzato, della necessità di continuare a estrarre materie prime, l’estrattivismo penetra all’interno del piano locale per ri-funzionalizzarlo e convertirlo in profitto su un piano globale. In quest’ottica, il locale è solo un oggetto da sfruttare. La netta separazione natura-cultura, riprendendo Descola (2021), è parte della base ontologica della concezione estrattivista. Natura e cultura sono due realtà distinte, l’unico soggetto – l’essere umano – ha il diritto di trattare l’oggetto-natura come qualcosa da controllare e sfruttare. Il locale, in questa visione di sfruttamento estrattivista, non ha alcuna agency, anche se al contempo è fondamentale per la risorsa che “offre” al mercato globale. 

Per spiegare questo sistema e le sue dinamiche, Ulrich Brand e Markus Wissen (2017) hanno creato il concetto di “modo di vita imperiale” che comprende il modo di produzione e consumo dominante, così come le pratiche quotidiane, corporali e culturali della popolazione sotto il sistema capitalista, colonialista, monoculturale e occidentale. Il “modo di vita imperiale” tiene conto delle asimmetrie di potere all’interno della società e fa riferimento al concetto di egemonia di Gramsci, che riconosce che il processo di egemonia del potere non si stabilisce solo a livello istituzionale, ma impregna anche le comunità subalterne a livello narrativo e di strategie utilizzate (Gramsci, 2020). Questo concetto di “modo di vita imperiale” è particolarmente importante in questo contesto perché il conflitto minerario ha due impatti: trasgredisce i modi di vita della comunità e, al contempo, provoca la necessità di un’organizzazione contro una minaccia reale per sviluppare sistemi alternativi. 

Vista della valle di Sassello dal Monte Avzè, area Tarinè (ph. Massimo Ferrando)

Vista della valle di Sassello dal Monte Avzè, area Tarinè (ph. Massimo Ferrando)

Diventa interessante visionare come i soggetti del territorio assediato da queste mire estrattiviste si riallaccino a una serie di “topoi” tipici della lotta al cambiamento climatico. In una rivisitazione quasi gramsciana della subalternità e dell’agentività del subalterno, vediamo come possegga una serie di strategie e spazi di manovra anche nella sua condizione. Uno degli strumenti oggi più utili agli e alle attiviste è quello del linguaggio scientifico. Il campo della lotta tenta di vincere la fondatezza dell’expertise scientifica: ci si riconnette a ricerche accademiche sul cambiamento climatico e al contempo si tenta di unire a un registro emotivo, un registro di legittimità apportato dallo status scientifico. 

Durante una conversazione tra me e un funzionario del comune di Sassello, nel giugno 2022, parlando del nostro rapporto con il bosco o, più ampiamente, con “la natura”, ci si era soffermati sulla parola limite: «La conoscenza del limite è un po’ quello che oggi cerchiamo di evitare, nel senso che da un lato è comodo vivere in un eterno presente perché non ci fa vedere i nostri limiti». Durante la conversazione, l’intervistato aveva più volte usato termini e conoscenze scientifiche rispetto alla condizione di crisi in cui ci troviamo: parole come antropocene, crisi ecologica, necessità di un rapporto diverso con l’ambiente, adattamento e resilienza, eventi straordinari, strategia 2030. Un altro intervistato, abitante del paese, affrontava anche lui la necessità di un cambio di paradigma nel nostro abitare e convivere con l’ambiente [7]. 

Tracce di villaggio neolitico, Monte Tarinè. Fotografia gentilmente prestata da Massimo Ferrando

Tracce di villaggio neolitico, Monte Tarinè (ph. Massimo Ferrando)

Trattando del tema della miniera in particolare, l’enfasi era posta inizialmente sulla questione dei bisogni: davvero necessitiamo di aprire un altro sito così devastante a livello ambientale per una risorsa del genere? Il mio interlocutore è stato attivo nella lotta contro la miniera da quando i primi interessamenti e proposte erano state avanzate. Facendo parte di istituzioni cittadine e del parco, aveva una conoscenza approfondita delle problematiche e delle discussioni che si erano tenute intorno alla questione: 

«L’esempio della miniera è uno di quelli più lampanti. Vent’anni si è fatto su questo territorio una determinata scelta. […] Distruggere da un momento all’altro perché i bisogni lo esigono: no! Ripeto, se questa scelta era fondata allora e riteniamo che sia fondata ancora oggi, va mantenuta. È il discorso che ci siamo fatti all’inizio, è necessario che alcune persone debbano avere due o tre telefonini? […] Forse abbiamo costruito dei bisogni su bisogni che forse non sono. Mi viene anche da dire, se stabiliamo che c’è un numero finito di cellulari non possiamo utilizzare il titanio di quelli dismessi senza dover per forza devastare il nostro sistema e andare a impoverirlo di risorse. Io non lo vedo come un passo indietro». 

Durante la discussione aveva mostrato una notevole consapevolezza del legame esistente tra il sistema economico, l’estrattivismo e i rischi connessi con il cambiamento climatico. Anche se inizialmente il focus si era posto sulle scelte personali e di consumismo – i telefoni – la conversazione era poi continuata: 

«Non stiamo tornando indietro, stiamo ripensando un rapporto più corretto su quello che è la condizione necessaria alla nostra vita. […] Dagli anni 60/70 abbiamo costruito un sistema di crescita senza limitazioni, non è possibile, perché le risorse sono finite. Non significa fare un passo indietro ma accettare che si andando verso l’autodistruzione. Mi devo fermare. […] Noi stiamo consumando molto, c’è poco da girarci intorno. Ambientalisti dovremmo esserlo tutti, perché l’ambiente è la condizione per la nostra sopravvivenza. Una volta che non c’è più niente non ci siamo neanche noi. E quando si arriva al si salvi chi può non si salva nessuno. L’ambiente è stato visto come un avversario e un paletto che dava fastidio. […] Oggi è abitudine provare a fare passo più lungo della gamba. […] Dobbiamo ragionare da un punto di vista scientifico, con dei dati alla mano». 

La centralità del “dato alla mano”, di un discorso scientifico intorno al nostro parlare di questioni inerenti al cambiamento climatico ritorna, trasformandosi quasi in un “parlare-scientificamente-dell’utile”; ma è l’utile che ha cambiato prospettiva. Le intervistate e gli intervistati, almeno a livello di conversazione portata avanti con il sottoscritto, hanno mostrato una notevole consapevolezza della minaccia incombente e determinata dalla miniera, e al contempo sono state in grado di riconnetterla a livello macroscopico con una serie di politiche estrattiviste direttamente implicate con il cambiamento climatico. In questa situazione, la narrazione scientifica e consapevole si è dimostrata più volte un’arma nelle mani subalterne e locali per sperimentare nuove lotte di protezione del parco e del territorio. La prospettiva si trasmuta in una visione che necessita di integrare politiche ecologiche e di convivenza e protezione dell’ambiente in cui si vive. Il parco diventa un modello di resilienza e difesa, anche sul piano legale dei diritti, di un territorio che fa gola a multinazionali e istituzioni estrattiviste. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] Le eclogiti sono rocce metamorfiche di alta pressione (18-22 kbar) costituite prevalentemente da silicati di sodio, calcio, alluminio, ferro e magnesio: pirosseni (omfacite), anfiboli sodici (riebeckite-glaucofane) e granati (piropo-almandino). Il rutilo è il principale minerale accessorio ed è presente in aggregati millimetrici e più raramente centimetrici. I cristalli degli aggregati presentano dimensioni micrometriche (5-100 µm), colore variabile da giallo a bruno e lucentezza metallica. (https://life.unige.it/il-titanio-e-il-parco-del-beigua).
[2] Stime effettuate dal C.E.T. (Compagnia Europea per il Titanio), riportate su alcune testate giornalistiche italiane, come “Il Sole 24 Ore”.
[3] A fronte del potenziale impatto paesaggistico, naturalistico ed ambientale a un territorio abbastanza fragile e composto da una enorme varietà di geo-biodiversità, è al momento difficile che sia accettata un’ipotesi di apertura di attività estrattive. Le attività in questione sono peraltro espressamente vietate dalla legge quadro nazionale sulle aree protette n. 394/1991.
[4] Secondo la definizione data nella conferenza delle Nazioni Unite (ONU) nel gennaio 2002, l’“Area di sacrificio” rappresenta la privazione e la rinuncia a elementari diritti fondamentali, come il vivere in un ambiente salubre e la possibilità di godere di un’aspettativa di vita in salute (United Nation, 2022). Per ulteriori informazioni si consiglia di visionare i lavori di Maristella Svampa e Jaume Franquesa.
[5] Col termine “iperoggetti” Timothy Morton designa entità di una tale dimensione spaziale e temporale da incrinare la nostra stessa idea di cosa un «oggetto» sia.
[6]L’estrattivismo può essere definito come “un modello socio-economico basato sulla ri-funzionalizzazione dei territori a favore dell’estrazione intensiva o estensiva di una specifica risorsa, allo scopo di commercializzarla nei mercati globalizzati” (M. Benegiamo, intervista per rivista online focsiv).
[7] Tutte le interviste si sono svolte tra giugno e luglio 2022, all’interno di una ricerca sul rapporto tra abitanti del paese di Sassello e il bosco circostante. 
Riferimenti bibliografici 
Brand, U., & Wissen, M. (2017), Modo de vida Imperial: Una aproximación crítica a la globalización,  Ediciones Akal.
Descola P. (2021), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina Editore.
Franquesa, J. (2018), Power Struggles: Dignity, Value, and the Renewable Energy Frontier in Spain, Indiana Univ Pr.
Farmer, P. (2004), An Anthropology of Structural Violence, «Current Anthropology», University of Chicago Press, 45, 3: 305-325
Galtung, J. (1996), Peace by Peaceful means: Peace and Conflict Development and Civilization, SAGE Publications.
Gramsci, A. (2014), Quaderni dal carcere, Einaudi.
Morton, T. (2018), Iperoggetti, NERO Editions.
Nixon, R. (2013), Slow Violence and the Environmentalism of the Poor, Harvard University Press.
Svampa, M. (2018), Imágenes del fin: Narrativas de la crisis socioecológica en el Antropoceno, Nueva Sociedad, (278): 151.

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Lorenzo Lanfranco, studente alla magistrale in Antropologia culturale all’Università di Torino, laureato in sociologia a Trento alla triennale; musicista e performer. Gli interessi scientifici e culturali si si collocano nell’intersezione tre ricerca artistica, performance, etnografia e pratiche militanti. Ha frequentato il laboratorio di antropologia dei cambiamenti climatici diretto da Elisabetta Dall’O presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Torino.

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