di Sergio Todesco [*]
La morte di Luigi Lombardi Satriani, che ha insegnato in anni ormai lontani alla Facoltà di Magistero di Messina, ha prodotto un ulteriore vuoto nel novero degli studiosi meridionali che dal dopoguerra in poi si sono interrogati sulle condizioni del Mezzogiorno d’Italia e sui meccanismi che in esso determinavano le forme di cultura storicamente espresse dai ceti subalterni. Con questa persona fuori del comune, in cui la prospettiva scientifica non è stata mai disgiunta dalla passione civile, ho avuto la fortuna di intrecciare un rapporto amicale, nutrendomi del suo alto magistero e da lui assorbendo suggestioni che hanno contribuito in maniera determinante alla mia formazione e alle mie scelte professionali.
Dopo la laurea in Filosofia ero approdato alla Facoltà di Magistero senza l’intenzione di conseguire un secondo titolo ma unicamente per poter assistere alle sue lezioni, che subito mi resero chiare alcune cose. Si trattava certamente di una persona che aveva saltato il cono d’ombra della sua condizione sociale, tanto che chi non lo amava lo definiva il Barone Rosso; in realtà cominciai a capire come Luigi Lombardi Satriani fosse tra i pochi studiosi in Italia dopo de Martino a comprendere che nello studio della cultura popolare non si dovesse più teorizzare l’esistenza di due storie, quella dei dominanti e quella dei dominati, la prima protesa verso le magnifiche sorti promesse dal capitalismo del dopoguerra e la seconda sempre più resa muta e votata a una romantica quanto illusoria Arcadia, ma si dovesse aver presente un’unica storia al cui interno le condizioni di subalternità altro non erano che l’esito di una prassi basata sullo sfruttamento e l’esclusione. In ciò, egli si poneva sulla scia demartiniana, ritenendo che fossero da superare le concezioni romantiche di Giuseppe Pitrè e dei folkloristi otto-novecenteschi.
Lombardi Satriani mi insegnava che le tradizioni popolari sono “popolari” in quanto proprie di fasce sociali cui è stata storicamente preclusa la fruizione di beni culturali resi disponibili e fruiti da altre fasce sociali. In questa presa di coscienza si venivano coniugando in modo originale l’antropologia culturale americana, il marxismo, la letteratura meridionalista, lo storicismo gramsciano e la lezione di Ernesto de Martino.
Di de Martino Lombardi Satriani mi sembra ancora oggi essere stato il continuatore più fedele, certamente per la convergenza delle rispettive aree di ricerca (il folklore e la storia religiosa del Sud, l’interesse per le culture subalterne e i fenomeni eccentrici ancora in esse persistenti) ma in misura ancora maggiore per l’impegno politico e civile, per l’ampio ventaglio di prospettive “umanistiche” che le rispettive indagini dispiegavano, in breve per il desiderio di tornare a praticare la cura verso comunità sempre più schiacciate da una cultura, quella dei consumi e del profitto, che prosperava proprio sul genocidio dei loro universi simbolici, come profeticamente avvertiva negli stessi anni Pier Paolo Pasolini.
Non a caso antropologi come Lévi-Strauss e lo stesso de Martino avevano posto l’accento sul coinvolgimento di chi si accosti a culture altre e sulla necessità che nella pratica etnografica alla costruzione di modelli si accompagnasse l’umana simpatia che deve intercorrere tra osservante e osservato. In un’intervista rilasciata negli ultimi anni lo stesso Lombardi Satriani raccontava come proprio l’esperienza di indagine sul campo condotta insieme ad Annabella Rossi gli avesse dischiuso le ricchezze ermeneutiche scaturenti dall’incontro “fisico” con i portatori storici di quella cultura folklorica da lui prima studiata solo a tavolino. A tale impegno civile io aggiungerei quella che mi sento di definire un’etica dell’estetica, la cura della parola scritta e la continua ricerca di una nitidezza letteraria corrispondente a quella ideologica.
In tema di scrittura della propria esperienza di antropologo Lombardi Satriani adotta uno stile rispettoso delle soggettività. Nelle sue narrazioni infatti gli elementi soggettivi della ricerca sul campo, sia di se stesso in qualità di ricercatore che delle persone facenti parte dei gruppi da lui esaminati, non sono mai ignorati, divenendo viceversa elementi fondanti – seppur dialetticamente e consapevolmente assunti nei loro dislivelli – di un’esperienza etnografica e di una prassi antropologica che intende prendere le distanze da qualunque tentazione oggettivante, reificatrice della persona e delle sue specificità esistenziali.
Nella sua lunga e feconda produzione mi pare possano individuarsi due fasi, certamente non disarticolate l’una dall’altra ma sempre tesaurizzando linee interpretative, reti di pensiero e quadri di riferimento già collaudati. Nella prima fase Lombardi Satriani ha rivolto le proprie indagini muovendosi tra antropologia culturale, folklore e un forte desiderio di cambiamenti sociali, quello stesso che poi sarebbe sfociato nel Sessantotto. Oltre a riflettere sui rapporti tra le due discipline egli forniva un discorso rigoroso – tra i pochi dopo Gramsci e le intuizioni demartiniane – sui rapporti tra intellettuali e popolo, ragionando al contempo sulle mutazioni cui la cultura popolare andava incontro di fronte a una modernità capace di fagocitare anche il folklore utilizzandone gli elementi conservativi e narcotizzanti pure in esso presenti.
Si possono qui citare Il folklore come cultura di contestazione, stampato proprio qui a Messina nel 1966, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna del 1968, Analisi marxista e folklore come cultura di contestazione, in “Critica marxista” dello stesso anno, Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura del 1973, ma ricordo anche Reggio Calabria, rivolta e strumentalizzazione del 1971 e la bella introduzione scritta per il libro di Bachisio Bandinu, Costa Smeralda del 1980. In Antropologia Culturale i suoi interlocutori sono il Marx dell’Ideologia Tedesca e Gramsci, sociologi e antropologi a lui contemporanei come Catemario, Ferrarotti, Cirese, Lanternari e Tentori, ma anche esponenti dell’antropologia e sociologia straniere, da Kluckhohn a Herscovits, da Radcliffe-Brown a Banfield, per poi applicare chiavi interpretative antropologiche a realtà culturali a lui vicine, e quindi compulsando Pitrè, Salomone Marino e Serafino Amabile Guastella.
Agli aspetti contestativi del folklore (per posizione, come li definisce) può pure collegarsi il volume antologico, da lui curato con Mariano Meligrana, su Diritto egemone e diritto popolare del 1975. E le indagini sviluppate in Folklore e profitto costituiscono un coerente corollario alle riflessioni pasoliniane poi apparse negli Scritti Corsari. Il folklore viene infatti come elemento di messa in discussione delle assise sulle quali poggia la cultura borghese. In questa fase si inserisce anche la curatela di un volume, Santi, streghe e diavoli. Il patrimonio delle tradizioni popolari nella società meridionale e in Sardegna del 1971, forse pensato come omaggio allo zio Raffaele, e frutto di un lascito familiare e di un ancoraggio sentimentale al folklore meridionale, e della Calabria in specie, che non lo abbandonerà mai, affinandosi successivamente in opere come Calabria 1908-10. La ricerca etnografica di Raffaele Corso, scritto a quattro mani con Annabella Rossi, del 1973, Lo sguardo dell’angelo. Linee di una riflessione antropologica sulla società calabrese del 1992, Santità e tradizione. Itinerari antropologici-religiosi nella Campania di fine millennio e Madonne pellegrini e santi. Itinerari antropologici-religiosi nella Calabria di fine millennio, entrambi del 2000, ma anche nell’affettuosa partecipazione al volume curato da Francesco Faeta e Marina Miraglia sull’attività di fotografo, amatoriale ma evoluto, del padre Alfonso (Sguardo e memoria. Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile della Calabria del primo Novecento del 1988).
Il secondo momento della lunga parabola scientifica di Luigi (una parabola mai disgiunta da quella umana, esistenziale, di impegno politico ma ancor più di un’attenzione costante rivolta verso gli uomini, le loro sofferenze e il loro finire) mi pare coincidere con un ruolo sempre più da lui assunto, quello di farsi, in aggiunta al resto, anche “antropologo della modernità”. Nella sua scrittura sempre più preponderante diventa l’io narrante a cospetto del mondo che lo circonda. Un io che non intende celarsi ma porre in evidenza le esigenze della propria soggettività, con un continuo fecondo dialogo con l’esperienza antropologica di Ernesto de Martino. L’influenza demartiniana pare anzi costituire una sorta di fil rouge che attraversa e tiene insieme in una rete coerente l’intera sua produzione, senza contare la sua introduzione alla ristampa di Furore Simbolo Valore, del 1980, e la curatela delle trasmissioni radiofoniche demartiniane del 1953-54 (Ernesto De Martino. Panorami e spedizioni) del 2002.
Sono qui da menzionare Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, del 1974, Il silenzio, la memoria e lo sguardo, del 1979, e in collaborazione con Mariano Meligrana Il ponte di San Giacomo del 1982, un testo organico sull’ideologia della morte nel folklore meridionale che si sostanzia tanto di indagini sul campo quanto di puntuali ricognizioni su tutta la letteratura esistente. È plausibile che Lombardi Satriani abbia preso progressiva confidenza con le tematiche demartiniane attraverso il rapporto amicale, e in qualche caso di ricerca, con Annabella Rossi. Con questa atipica “allieva” di de Martino ricordo, ad esempio, l’indagine congiunta svolta a Serradarce, insieme a Michele Risso, su Giuseppina Gonnella e il culto extraliturgico del Beato Alberto da lei gestito, i cui esiti vennero dapprima presentati nel 1968 a un convegno in Germania e poi resi disponibili in italiano in un’antologia curata da Diego Carpitella (Folklore e analisi differenziale di cultura, del 1976). Si ha l’impressione che questi testi, pur suffragati da un robusto impianto teorico, mostrino anche il segno di un’attività di ricerca che si dispiega ormai sul campo, nutrendosi non solo delle sempre aggiornate acquisizioni sugli sviluppi del discorso antropologico in Italia e fuori, ma anche di passioni e reazioni scaturenti da incontri con persone, con gruppi umani di cui sempre più impara a decriptare i miti e i riti ma anche i sogni e le speranze.
Valga l’esempio delle sue incursioni finalizzate all’incontro con le realtà liminari, fluide, in qualche misura “misteriose” e lo sforzo di dispiegare nei loro confronti uno sguardo non pregiudizialmente laico, illuministico, ma nutrito di un’antropologia storica matura, consapevole del lascito demartiniano de Il Mondo Magico, secondo il quale lo stesso concetto di realtà va di volta in volta decriptato tenendo conto del suo contesto storico che ne determina la specificità, ed è quindi una chiave epistemologica sempre di nuovo da negoziare. In questa sfera di interesse possono esser fatti rientrare, anche se di alcuni anni successivi, Come una ladra a lampo del 1996 e De Sanguine del 2001.
Dal rapporto con l’al di là alla produzione artistica, dalle norme giuridiche alle forme di religiosità “eccentriche” Lombardi Satriani è venuto declinando in tutte queste opere le modalità di contestazione degli assetti che caratterizzano la società capitalistica. Una contestazione che viene esaminata attingendo alle varie forme che la cultura popolare ha storicamente assunto per resistere e mantenere una propria, sia pure sofferta, identità a fronte di una modernità onnivora, pronta a cancellare al suo passaggio, come una macchina schiacciasassi, ogni diversità. Ne Il silenzio, la memoria, lo sguardo egli scrive ad esempio: «Anche nella cultura folklorica, infatti, la follia rappresenta la negazione della normalità, lo spazio altro nel quale le regole del noto sono sospese».
Le altre articolate sue scritture toccano temi come il teatro popolare (Pulcinella del 1992, con Domenico Scafoglio), l’alterità, l’amore, il dolore (La stanza degli specchi del 1994), gli itinerari contraddittori che contrassegnano la modernità (Nel labirinto del 1992; La sacra città del 1999, Il sogno di uno spazio del 2004), l’Aids (Il volto degli altri. Aids e immaginario del 1995, in collaborazione con Maricla Boggio e Francisco Mele), le esperienze mistiche (Natuzza Evolo. Il dolore e la parola del 2006), fino a un testo assai recente, Vaghe stelle dell’Orsa. Il passato è il futuro del 2019, in cui appare evidente la sua decisione di fornire al lettore, crocianamente, dei “contributi alla storia di se stesso”, tanto in costante riferimento all’impegno civile di fondo sotteso alla sua produzione quanto in relazione alle iniziative didattiche, politiche, sociali che il suo discorso antropologico ha posto in essere.
In tutti questi scritti Lombardi Satriani mostra una capacità di dialogo con le correnti più vivaci del pensiero contemporaneo. In Menzogna e verità ad esempio nel saggio iniziale sulla scena, il teatro popolare e il “discorso tollerato” appare evidente il suo fecondo rapporto dialettico con autori, pure da lui distanti, come Michel Foucault. Sempre più compaiono tra i suoi interessi i temi della Piazza, della memoria dei vinti, degli ultimi come categoria antropologica. E negli scritti degli ultimi anni sempre più forte riaffiora il tema già presente in opere degli anni ’80 – Un villaggio nella memoria (1984), Chi ha voce. La figura e l’opera di Raffaele Lombardi Satriani, con Elena Bertonelli (1984) – delle patrie culturali e dell’esigenza di trovare ancoraggio in un campanile, la sua Calabria ma anche la Città del Sole, la società a misura d’uomo da lui sempre sognata.
Ma, volendo prescindere dall’esigenza di delineare delle tappe nel percorso di questo studioso, esercizio labile ove pretenda di segmentare artificialmente lo sviluppo unitario, coerente e fluido di un pensiero, a me preme in conclusione di questo intervento parlare del Prof. Lombardi Satriani come docente mai banale, sempre rispettoso del proprio ruolo in rapporto a quello degli studenti e degli allievi via via “simpatizzanti”, sempre più affascinati dal suo eloquio e dagli orizzonti che le sue lezioni andavano schiudendo a quanti si accostavano a quelle discipline, e al contempo “maieuta” in senso socratico, e forse anche “psicopompo”, in grado di accompagnare gli allievi a muoversi senza sentirsi spaesati nei labirinti dei miti, delle ritualità, degli usi e costumi che apparivano realtà arcaiche ma che, come lui insegnava, chiedevano ancora a gran voce di poter avere diritto di cittadinanza anche nel tempo di quella modernità che per affermarsi aveva cercato di rimuoverli etichettandoli come desueti pettegolezzi di un’umanità ormai scomparsa.
Le lezioni di Lombardi Satriani mi permisero la conoscenza della cultura popolare meridionale, che avevo già iniziato a scandagliare un paio di mesi dopo la laurea, quando suggestionato dalla lettura de La terra del rimorso mi ero recato per dieci giorni nel mese di giugno a Galatina al fine di sperimentare una mia modesta e solitaria esplorazione etnografica. Ma adesso nelle parole e nelle suggestioni di Lombardi Satriani avvertivo come quell’interesse, fino ad allora mantenuto su un piano conoscitivo, richiedeva un passaggio cruciale che dalla mera conoscenza si traducesse in impegno civile, il passaggio decisivo da una historia rerum gestarum a una historia gerenda, dall’analisi scientifica di una realtà sociale al desiderio di lavorare – nel mio contesto storico – per una trasformazione della stessa.
L’Istituto di Storia dell’Arte, nella sede del Magistero in Via Concezione, che comprendeva anche la Cattedra di Storia delle Tradizioni Popolari, era fortemente segnato dalla sua presenza. Pur essendo egli un pendolare riusciva a intrecciare proficui rapporti dialogici con le migliori forze intellettuali della città, e al contempo a essere sempre disponibile e amabile con chiunque gli si rivolgesse per un quesito o un consiglio, guidando i laureandi nelle indagini finalizzate alla stesura della tesi e iniziandoli progressivamente a cogliere aspetti prima ignorati del proprio territorio.
Ricordo che in Istituto era stata incollata a una parete una vignetta apparsa su “Repubblica” nella quale si ironizzava bonariamente sul messaggio veicolato dalle sue opere. Non è improbabile che lui stesso l’avesse affissa, per aggiungere all’ironia del giornale una riflessione ironica su se stesso. Ricordo i suoi interventi fuori dal coro in un convegno palermitano in cui, presentandosi in completo di lino bianco alquanto sgualcito, riusciva in poche battute a incantare l’uditorio, sempre mantenendo un rigore e una signorilità che rendevano ancora più incisive e appassionanti le ferme posizioni da lui assunte per accelerare una sprovincializzazione degli studi demologici innestandoli in una più ampia prospettiva umanistica, prima ancora che antropologica. Da qui, la sua continua curiosità in direzione dei giovani, della politica, delle zone d’ombra della modernità nelle quali continuava a intravedere spinte e aneliti positivi di riscatto e di liberazione.
Questo è stato Luigi. Un appassionato ricercatore di umane dimenticate istorie e al contempo la testimonianza vivente di una tensione continua volta a tenere insieme in unità coerente la chiarezza scientifica e il desiderio di poter tornare a ri-sillabare discorsi elementarmente umani.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
[*] Il testo è la relazione tenuta dall’Autore nelle Giornate di studio in onore di Luigi M. Lombardi Satriani, che si sono svolte a Messina il 12 e 13 Aprile 2023.
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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