Nel richiamare una tradizione orale appresa al tempo della fanciullezza, intorno alla “scellerata setta dei Beati Paoli”, l’erudito palermitano Francesco Maria Emanuele, marchese di Villabianca, così scrive nel 1790 nei suoi opuscoli:
«Di questo calibro così infernale credo che sia vissuto Giuseppe Amatore, maestro schioppettiere, che a 17 dicembre 1704 fu impiccato a Palermo come pe’ miei Diari Palermitani Villabianca, tomo VI, numero 2, foglio 2. Il razionale Girolamo l’Ammirata fu anche di questa scuola, e ne pagò il fio col capestro della forca nel Piano del Carmine a 27 aprile 1723 (Diari Villabianca, loc. cit., foglio 83); e d’altri non so io. Tutti costoro solevano far mal fine, e se non erano uccisi dalla giustizia, lo erano sicuramente dalle mani de’ lor socii. Di questa settaria mala razza di uomini, a’ tempi nostri, grazie al cielo, se n’è perduta la semenza. Detto di l’Ammirata mi si dice essere stato egli razionale dell’Ospedale grande di Palermo» [1].
Il marchese di Villabianca è l’unico autore a identificare Amatore e l’Ammirata come membri dei Beati Paoli e lo fa, come ha osservato Francesco Renda, sulla base di memorie apprese da bambino [2]. Le impiccagioni di Amatore e di l’Ammirata sono riferite anche nell’elenco dei giustiziati di Palermo, redatto dalla Compagnia dei Bianchi:
«A 27 aprile 1723, nel Piano del Carmine, per sentenza della Regia Gran Corte fu impiccato D. Girolamo l‘Ammirata da Palermo, per aver ucciso appostato modo in tempo di notte con colpo di carrubina, commesso nella piazza di Ballarò e calata del Carmine» [3].
Ho avuto la ventura di ritrovare presso l’Archivio di Stato di Palermo due documenti che si riferiscono a Girolamo l’Ammirata. Il primo è un breve memoriale dello stesso e si trova nella Real Segreteria del Regno (Memoriali 1720- 1727, busta 585, Registro dei Memoriali, XIV indizione 1720 e 1721 f.2):
«Don Geronimo L’Ammirata espone a V. E. che dubitandosi per l’avvenire di essere imputato di qualche sonnato delitto e perché la G. C. C. M. del Re nostro Signore che Dio guardi concesse a tutti i suoi fedelissimi vassalli l’indulto generale ricorre per tanto l’esponente alla grazia di V. E. si degni restar servita ordinare che l’esponente godesse dell’indulgenza di detto indulto generale e non potesse l’esponente per tutti e qualsivoglia delitti che forse per l’avvenire si potessero insorgere essere molestato che il tutto lo riceverà a gratia ut Altissimus. Panormi ottavo ottobris 1720 M. C. V. D. Hieronimus Baffico et Riggio».
Nel registro segue l’annotazione:
«Eodem quod pro delictis occultis in judicis non deductis et non exceptis gaudeat indultis generalis Ill. Spett. De Amico Baffico et Riggio».
Il 29 settembre 1720 erano iniziati a Palermo i festeggiamenti per l’acclamazione del nuovo sovrano di Sicilia, l’imperatore d’Austria Carlo VI, e precedentemente il comandante delle truppe austriache, il conte di Mercy, aveva concesso l’indulto generale. Don Girolamo aveva chiesto una sorta di indulgenza preventiva, per delitti dei quali evidentemente prevedeva di essere accusato in futuro, nonché – presumibilmente – per delitti di cui era stato già accusato. E l’ha ottenuta.
Non sappiamo se dopo questo indulto l’Ammirata sia vissuto in stato di arresto o in libertà. Comunque è certo che i suoi guai con la giustizia non si siano azzerati perché tre anni dopo un altro documento si occupa di lui. È conservato nella Real Segreteria Registri dei dispacci “Remissioni”, è firmato da Don Pedro Pasqual Cano, indirizzato al Presidente della Gran Corte civile e criminale su richiesta del vicerè e datato Palermo, 9 aprile 1723. Nel documento si ordina al Presidente del Tribunale di esaminare e trattare la causa di Don Geronimo l’Ammirata entro la settimana, indefettibilmente, mercoledì o sabato; si precisa che anche se per qualche accidente o impedimento dovesse mancare qualcuno dei ministri non per questo si manchi di definire la causa entro la settimana. Questa pressione del vicerè alla rapida conclusione della causa, il prevedere e prevenire assenze dei magistrati inducono a supporre che l’Ammirata non fosse un criminale qualunque e che potesse contare sul sostegno di qualcuno dei ministri. Il 27 aprile 1723 l’Ammirata penzolò dalla forca rizzata per lui nel piano del Carmine di Palermo.
A questi due documenti bisogna aggiungerne un terzo, un memoriale di Francisca l’Ammirata, moglie di don Girolamo, inviato all’Imperatore Carlo VI, conservato presso l’Archivio di Stato di Vienna (Italien Spanischer Rat, Liber diversorum Siciliae 1723 – 1724, I° Fz. 37) e pubblicato da Giovanni Gibilaro in Sicilia Austriaca 1720 – 1735, s.e., s.l.,1996: 94:
«Sire, Donna Francisca l’Ammirata ai piedi di V.C.C.M. umilmente espone che il Dr. Don Michele Arini, giudice ad interim della città di Palermo per certi inesplicabili fini, pretese inquisire don Gerolamo l’Ammirata, marito della supplicante, per la morte di Don Antonio Buccolaro quando che tale delitto fu macchinato da Giuseppe Barracato per causa d’onore e dal detto Giudice consaputa la perpetrazione di tale delitto contro ogni legge e statuto tralasciò di pigliare li testimoni locali nella piazza di Ballarò dove accadde, ma dopo due mesi e giorni fece deporre contro detto suo marito detto Barracato, principale delinquente, e pigliando altri testimoni di quella piazza e poiché questi non facevano prova volle ammetterne uno falso e de iure inammissibile a deporre per essere stato condannato in galera per ladro e dopo tre mesi dal delitto un altro pure inabile e noto per essere stato carcerato per infamità ed è stata tanta la malizia di detto Giudice che nella cattura di dette informazioni non volle mai conferire con i colleghi la prova e volendo disprezzare l’Indulto Generale concesso dalla clemenza di V.C.C.M. per diffamarlo fece dire ai testimoni che Don Gerolamo era uomo di malavita e che aveva fatto delitti nei tempi passati quando che se di tali fosse stato nulliter prosecuto per detto indulto non se ne deve fare alcuna menzione e con tanta iniquità per lo spazio di un anno l’ha ritenuto stretto in carcere per farlo forse morire essendo detto don Gerolamo infermuccio e debole di complessione ed insieme di anni 53, persona civile e professore di contatoria. Have tanto afflitto detto Giudice tutta questa città di Palermo per lo spazio di anni tre quando invece detta giudicatura da molti secoli in qua non ha durato più di un anno, qui ha fatto ciò che ha voluto a suo piacimento ed ha riportato una universale indignazione ed in questa causa ha voluto fare il giudice, il Fisco e la parte, quando in questo delitto mai commesso da detto don Gerolamo non c’è parte che lo provasse e perché il S.C.C.M. tutti li naturali oriundi di questa città di Palermo godono il Privilegio che il Fisco non possa principaliter essere contro li medesimi supplica l’afflitta esponente, moglie del detto don Gerolamo, che come fedelissimo Vassallo e cittadino godesse tale privilegio concesso e confermato da tutti li suoi predecessori molto più che è innocente e non ha facciprova di delitto alcuno, che lo riceverà la supplicante dalla clemenza di V.C.C.M. ut Altissimus».
Il Gibilaro riporta anche il provvedimento dell’imperatore:
«Da Praga in data 13 luglio 1723 Carlo VI dava disposizione al Vicerè di Sicilia Marchese di Almerara affinchè il Tribunale competente amministrasse giustizia a Donna Francisca La Ammirata».
Donna Francisca riuscì dunque a far pervenire la sua supplica fino all’imperatore e ad ottenere risposta, ma la risposta positiva viene firmata quasi tre mesi dopo l’esecuzione del marito. È probabile che il viceré abba accelerato le procedure – come abbiamo visto nel secondo documento – proprio per evitare interferenze da parte della corte imperiale. Il quadro che si intravede è di scontro fra cordate di burocrati e funzionari che si servono del caso de l’Ammirata (probabilmente inserito in una di queste fazioni) per un regolamento di conti.
Infatti è molto difficile immaginare la signora Francisca come una donna isolata; la supplica dovette essere composta da un giudice o da un avvocato ed è nella sostanza un atto d’accusa, formulato quasi a nome della città di Palermo, contro il giudice Michele Arini. Non conosciamo la data di stesura della supplica, la disposizione del sovrano è successiva alla esecuzione. Non sappiamo come si sia conclusa la vicenda con il fisco.
Poi, il primo maggio del 1723, il nobile Francesco Perino, banditore della felicissima città di Palermo, venne mandato in giro a gridare, nei soliti luoghi pubblici, un lungo Bando e Comandamento del Capitano e del Senato della Città (cfr. Archivio Storico Comunale Palermo, Bandi 1722-1723). Il Bando in 69 capitoli riassume e proibisce tutte le attività del sottobosco criminale e peccatore palermitano. Esso inizia con la proibizione del portare armi rivolta a qualunque persona di qualsivoglia stato, grado e condizione privilegiata tanto cittadina quanto forestiera: la proibizione vale dunque anche per i familiari dell’ Inquisizione, ma nel capitolo 53 si ordina a tutti ‘servienti e provisionati’ della corte capitaniale e pretoriana di portare le armi, poiché non hanno potuto eseguire gli ordini dei superiori proprio per il loro andare in giro disarmati, e nel capitolo 22 si ordina agli alabardieri di non mancare al servizio di guardia; si proibisce alle femmine di partito, ritirate, meretrici e cortigiane o in altro modo chiamate, di andare in giro per il cassero in cocchio o in seggetta colme di gioie d’oro sopra oro e vesti ricamate entrare e sedersi in chiesa e seguire le processioni accompagnate da creati e garzoni; si proibisce alle donne di andare in giro di giorno e di notte vestite da uomini e agli uomini di vestirsi da donne e si proibisce a carrettieri e seggettieri di trasportarle; si proibisce il gioco dentro e fuori la città, la baratteria e l’assistere al gioco; si proibisce la resistenza a qualsivoglia ministro di giustizia; si proibisce di estrarre armi ed insultare in chiesa; si proibiscono le bestemmie a Dio, alla Madonna e ai Santi e la santificazione del Demonio sotto pena della perforazione della lingua e l’esposizione del colpevole in un luogo pubblico con una mitra in testa per tre ore; si proibisce agli esercenti di taverne, posate e fondachi di lasciar dormire in un unico letto, in una sola camera, due giovani sbarbati; si proibiscono canti e serenate notturne; si proibiscono le lanterne segrete; si proibisce a facchini e tavernari di dar da mangiare ai giovani sbarbati in camere o luoghi segreti; si sfrattano i vagabondi dalla città; si ordina a medici e barbieri di rivelare i nomi dei feriti da loro curati; si proibisce agli schiavi di portare armi; si proibisce di consegnare in pegno, di vendere o di incaricare della vendita di lana, lino, panno, cotone, seta, oggetti d’oro e d’argento, di rame o di stagno agli schiavi e agli infedeli turchi mori o giudei e agli schiavi cristiani, anche se schiavi di persone privilegiate e si proibisce di acquistare merci dagli schiavi figliuoli; si proibisce ai giovani sbarbati ed affemminati di entrare nelle case da gioco; si proibisce di tenere in casa più di cinque rotoli di polvere da sparo; si proibisce alle donne libere e scandalose di trattenersi in tempo di notte nelle chiese, nei cimiteri e nei luoghi santi; si ordina ai tenutari di locande e di fondachi di donne di non affittare vestiti e scarpe alle donne; si proibisce ai tenutari di fondachi di alloggiare donne e giovani sbarbati; si proibisce di entrare con armi nel carcere della Vicaria e di consegnare armi ai carcerati; si proibisce ai beccamorti di seppellire le persone assassinate senza avvertire il capitano di giustizia; si proibisce agli indagati per furto di uscire di notte.
Si può immaginare qualche rapporto tra questo provvedimento e la precedente impiccagione de l’Ammirata? È possibile che qualche capitolo contenga riferimenti alla causa de l’Ammirata. Comunque il documento restituisce uno spaccato della vita quotidiana a Palermo estremamente vivido, costellato da comportamenti contrari al diritto e alla morale dell’epoca. Riporto qui il capitolo 14:
«ordiniamo provedemo e comandamo che quelle persone che si troveranno andare travestiti o vero con li facci tinti o barbi contra fatti in tempo insolito ed incompagnate e massime di notte portando armi offensivi siano in pena di remigare per anni cinque sopra le reggie galere ed essendo nobili di stare per l’istesso tempo in un castello e di perdere l’armi cossi offensive e difensive et anche che fossero fidati ed anco li vestiti che si trovassero di sopra e se venissero a fare qualche delitto siano in pena della vita giusta la forma delle pragmatiche di questo regno».
E il capitolo 54:
«E perché lo sparare che s’ha fatto l’instrumento di fuoco in tempo di notte in questa città hanno successo molti inconvenienti e danno al pubblico e quieto vivere ed alle volte succedino delitti con sparare detti instrumenti di fuoco et… e ministri di giustizia immaginandosi non essere stati sparati a’ malfine poco curandosi informarsi di detti scopettati dal chè ne insulta la facilità di connentione delitti con detti instrumenti di fuoco alle persone facinorosi e la difficoltà di prendere procurar li delinquenti e provere detti delitti alli officiali e ministri di giustizia e volendosi sopra ciò provvedere d’opportuno rimedio da parte dell’Illustre Capitano, Eccellentissimo pretore Spettabili Giurati s’ordina provede e comanda che nessuna persona di qualsivoglia stato grado e condizione che sia quanto si voglia privilegiata presuma ne ardisca dal giorno della publicattione del presente bando sparare in tempo di notte cioè dall’hora dell’Ave Maria alla Salutattione Angelica nella Maggiore Chiesa di questa città archebuggi, scopetti ne nessuna altra sorte d’instrumento di fuoco con artificio di fuoco sotto pena di onze 45 da applicarsi all’Illustrissimo Capitano o 4 tratti di corda».
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] F. M. E. marchese di Villabianca, Storie letterarie di varia erudizione sacra e profana spettante la gran parte alla Città di Palermo e al Regno di Sicilia, “Opuscoli Palermitani”, manoscritto conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo ai segni Qq. E 90, n. 3 (trascrizione di Fabio Marino, supervisione di Salvatore Pedone).
[2] F. Renda, I Beati Paoli. Storia, letteratura, leggenda, Sellerio Editore, Palermo 1991: 52. Per l’approfondimento antropologico, letterario e storico della leggenda dei Beati Paoli si rimanda anche a S.M. Ganci, I Beati Paoli in “Orizzonte Sicilia”, II, 2/3 (gennaio-giugno) 1980; R. La Duca, Storia e leggenda dei “Beati Paoli” in L. Natoli, I Beati Paoli, Flaccovio Editore, Palermo 1972; F. P. Castiglione, Il segreto cinquecentesco dei Beati Paoli, Sellerio Editore, Palermo 1999.
[3] Il manoscritto originario è andato perduto, ma si trova trascritto da Antonino Cutrera, Cronologia dei giustiziati di Palermo 1541 – 1819, Scuola Tipografica Boccone del Povero, Palermo 1917, ora disponibile nella copia anastatica curata da I Buoni Cugini Editori, Palermo 2020: 249.
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Mario Basile, dopo la laurea in Lettere classiche all’Università di Palermo, ha frequentato la Scuola di specializzazione in Archeologia classica all’Università di Catania. Diplomato in Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Palermo, ha prestato servizio per decenni presso la Sovrintendenza archivistica per la Sicilia. Ha pubblicato articoli scientifici su varie riviste riguardanti soprattutto la storia antica mediterranea.
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