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Luogo contro impero. Comprendere l’anticolonialismo indigeno in Canada

Misconoscimento come forma di violenza statale contro i popoli indigeni canadesi

Misconoscimento come forma di violenza statale contro i popoli indigeni canadesi

di Linda Armano

Nel suo rivoluzionario testo intitolato God is Red del 1972, il filosofo Lakota Vine Deloria Jr. afferma che una delle differenze più significative tra la metafisica indigena e la metafisica occidentale ruota attorno all’importanza centrale della terra ai fini dell’elaborazione di un’idea di persona e della sua etica: 

«Fundamental difference is one of great philosophical importance. American Indians hold their lands – places – as having the highest possible meaning, and all their statements are made with this reference point in mind» (1972, Vine Deloria Jr. in Dene Nation, 1977). 

Dall’affermazione di Vine Deloria Jr. si nota quindi che, in generale, gli indigeni del Nord America fanno derivare la loro idea di entità umana dai luoghi, mentre nella cultura occidentale l’idea di persona tende a trarre significato in termini storico/evolutivi, ponendo così il parametro del tempo come struttura portante per costruire l’immagine e l’identità di individuo.

Nel richiamare l’attenzione sulla distinzione tra la comprensione del mondo indigena basata sulle categorie di luogo e quella occidentale orientata sugli assi temporali, Deloria non intende semplicemente ribadire l’osservazione piuttosto ovvia che la maggior parte delle società indigene ha un forte attaccamento alle proprie terre d’origine, ma tenta invece di spiegare la posizione che la terra occupa come quadro ontologico per decodificare le relazioni. Visto attraverso quest’ottica, è un profondo malinteso pensare alla terra semplicemente come un oggetto materiale di cruciale centralità per le culture native (sebbene ovviamente lo sia). Più specificatamente, la terra dovrebbe essere intesa come un campo di relazioni in cui le cose si intrecciano tra di loro.

Membri della comunità Dene Northwest Territories

Membri della comunità Dene Northwest Territories

I luoghi diventano così dei modi di conoscere, di sperimentare e di relazionarsi con il mondo, e questi modi di conoscere spesso guidano le forme di resistenza nei confronti di posizioni di potere che minacciano di cancellare o distruggere i sensi del luogo per gli indigeni. Questa visione è precisamente la comprensione della terra e/o del luogo che non solo àncora la critica di molti popoli indigeni nelle relazioni di forza e di dominio coloniali, ma costruisce anche le visioni di quale possibile relazione post-coloniale di pacifica coesistenza potrebbe nascere tra le comunità aborigene e i governi.

Esistono innumerevoli esempi, anche linguistici, che spiegano l’intimo rapporto tra indigeni e il loro territorio. Si può citare il caso delle Nazioni Dene dei Northwest Territories canadesi, per le quali lo stesso appellativo “Dene”, o “Weledeh”, significa “terra”. Per la comunità, quest’ultima assume un significato relazionale in quanto non comprende solo il territorio materiale, ma anche gli esseri viventi (persone, animali, piante) e non viventi (le rocce, le montagne, i laghi e i fiumi).

2-god-is-red-1972Visti da questa prospettiva, gli indigeni canadesi sono parte della terra come qualsiasi altro elemento. All’interno di questo intreccio di relazioni, gli esseri umani non sono gli unici ad incorporare l’azione e ad avere uno spirito. Eticamente, ciò significa che le comunità indigene canadesi hanno determinati obblighi nei confronti della terra, degli animali, delle piante, delle montagne, dei laghi nella stessa misura in cui li hanno verso le persone. In generale quindi, secondo le popolazioni native del Canada, se tali obblighi fossero rispettati da tutti, la terra, i laghi, gli alberi, gli animali ecc. sarebbero “ricambiati” per la loro esistenza ed adempierebbero, a loro volta, ai loro obblighi verso gli umani, garantendo così la sopravvivenza e il benessere di tutti nel divenire del tempo. La seguente storia raccontata da George Blondin, un elder Dene molto rispettato nella comunità, mette in evidenza l’etica indigena della reciprocità basata sul luogo. George narra un’esperienza di suo fratello Edward durante una battuta di caccia ad un alce: 

«Edward was hunting near a small river when he heard a raven croaking, far off to his left. Ravens can’t kill animals themselves, so they depend on hunters and wolves to kill food for them. Flying high in the sky, they spot animals too far away for hunters or wolves to see. They then fly to the hunter and attract his attention by croaking loudly, then fly back to where the animals are. Edward stopped and watched the raven carefully. It made two trips back and forth in the same direction. Edward made a sharp turn and walked to where the raven was flying. There were no moose tracks, but he kept following the raven. When he got to the riverbank and looked down, Edward saw two big moose feeding on the bank. He shot them, skinned them, and covered the meat with their hides. Before he left, Edward put some fat meat out on the snow for the raven. He knew that without the bird, he wouldn’t has killed any meat that day» (intervista a George Blondin, settembre 2019). 

Il racconto di George Blondin non solo descrive la coscienza e l’azione individuale del corvo, ma enfatizza anche la relazione tra il cacciatore e l’uccello come reciprocamente interdipendente. La cooperazione mostrata tra Edward e il corvo fornisce un chiaro esempio dell’etica della reciprocità e della condivisione nella comprensione dei Dene alla base del loro rapporto con la terra.

A partire soprattutto dagli ultimi sessant’anni, è diventato evidente a numerose persone appartenenti alle comunità indigene canadesi che gli imperativi organizzativi dell’accumulazione di capitale coloniale hanno rappresentato un affronto a questa comprensione della vita basata sulla terra la quale abbraccia le relazioni tra le persone, tra gli esseri umani e il loro ambiente e tra gli individui e le istituzioni di autorità. Sebbene questa etica basata sul luogo sia stata consumata da decenni di usurpazione coloniale, per molti indigeni essa serve ancora come immaginario simbolico capace di guidare e plasmare visioni per un corretto rapporto politico ed economico tra indigeni e non indigeni basate sui principi di reciprocità e di mutualità obbligatoria. 

Peter Kulchyski, nel suo libro intitolato Like the Sound of a Drum: Aboriginal Cultural Politics in Denendeh and Nunavut (1988), mette bene in luce come l’elemento spaziale impregni la lotta indigena. Facendo un parallelismo tra le lotte di classe operaie in Europa e le lotte indigene nel nord America contro i colonizzatori, l’autore afferma: 

«It is possible to argue that precisely what distinguishes anti-colonial struggles from the classic Marxist accounts of the working class is that oppression for the colonized is registered in the spatial dimension – as dispossession – whereas for workers, oppression is measured as exploitation, as the theft of time» (Kulchyski, 1988: 88). 

6-peter-kulchyski-like-the-sound-of-a-drum-aboriginal-cultural-politics-in-denendeh-and-nunavut-1998Riprendendo quindi le parole di Kulchyski, è possibile affermare che i modi indigeni di pensare alle relazioni sono spesso espressi anche con questo referente spaziale in mente. Un esempio concreto è dato dalle testimonianze dei partecipanti indigeni alle manifestazioni contro la realizzazione della Mackenzie Valley Pipeline Inquiry negli anni Settanta. In tale occasione il primato della terra era stato sollevato come il più importante elemento critico allo sviluppo coloniale-capitalista. La Mackenzie Valley Pipeline Inquiry è stata istituita nel 1975 dal governo del Canada per indagare sugli impatti ambientali e sociali potenzialmente posti dalla costruzione di un enorme gasdotto per il trasporto di gas naturale da Prudhoe Bay in Alaska, a sud lungo la Mackenzie River Valley fino ai mercati del sud Canada e degli Stati Uniti. In tale occasione, una delle dichiarazioni più forti contro tale progetto è stata pronunciata da Philip Blake, un Dene di Fort McPherson il quale introdusse anche l’importanza della terra per i nativi: 

«If our Indian nation is being destroyed so that poor people of the world might get a chance to share this worlds riches, then as Indian people, I am sure that we would seriously consider giving up our resources. But do you really expect us to give up our life and our lands so that those few people who are the riches and most powerful in the world today can maintain their own position of privilege? That is not our way. I strongly believe that we do have something to offer your nation, however, something other than our minerals. I believe it is in the self-interest of your own nation to allow the Indian nation to survive and develop in our own way, on our own land. For thousands of years we have lived with the land, we have taken care of the land, and the land has taken care of us. We did not believe that our society has to grow and expand and conquer new areas in order to fulfill our destiny as Indian people. We have lived with the land, not tried to conquer of control it or rob it of its riches. We have not tried to get more and more riches and power, we have not tried to conquer new frontiers, or out do our parents or make sure that every year we are richer than the year before. We have been satisfied to see our wealth as ourselves and the land we live with. It is our greatest wish to be able to pass on this land to succeeding generations in the same condition that our fathers have given it to us. We did not try to improve the land and we did not try to destroy it. That is not our way. I believe your nation might wish to see us, not as a relic from the past, but as a way of life, a system of values by which you may survive in the future. This we are willing to share» (Blake, 1977: 7-8). 

8-indian-actQuando Blake suggerisce, nella sua testimonianza, che il “popolo indiano” deve rifiutare la spinta patologica all’accumulazione destinata ad alimentare l’espansione coloniale-capitalista, basa tale affermazione su una concezione dell’identità Dene che colloca le persone indigene come parte inseparabile di un sistema espansivo di relazioni interdipendenti riguardanti la terra e gli animali, le generazioni passate e future, così come tra le varie persone, indigene e non-indigene, e le comunità. Questa concezione di sé implica che gli indigeni seguano norme etico-politiche basate sulla condivisione, sull’egualitarismo, sul rispetto della libertà e dell’autonomia sia nei confronti degli individui che dei gruppi e sul riconoscimento degli obblighi nei confronti delle persone e del mondo naturale nel suo insieme.

A seguito delle premesse fin qui esplicitate, il presente contributo mira ad analizzare le dinamiche teoriche che possono sostenere il riconoscimento indigeno delle comunità canadesi. Negli ultimi decenni, un numero crescente di studiosi e attivisti ha iniziato a sostenere che le rivendicazioni territoriali, i modelli di autogoverno e le iniziative di sviluppo economico attuate dalla Corona con il pretesto del riconoscimento continuano a riprodurre le relazioni coloniali tra i gruppi indigeni in Canada. Questo articolo mira quindi a discutere come la governance coloniale può essere ridotta attraverso pratiche quotidiane di autodeterminazione radicate nelle ontologie indigene place-based 

Riconoscimento indigeno come forma di land based

Riconoscimento indigeno come forma di land based

Diritti dei popoli autoctoni: politiche di riconoscimento per l’autodeterminazione 

Gli ultimi decenni hanno segnato una nuova era per le relazioni tra Stato e comunità indigene in Canada. Con il supporto della Corona Britannica, il governo canadese si è mosso verso la conciliazione delle rivendicazioni indigene per l’autodeterminazione in un rinnovato rapporto basato sul riconoscimento reciproco (Coulthard 20072014). Attualmente la relazione tra le comunità indigene canadesi, il governo e la Corona, è inquadrata legalmente ai sensi dell’Indian Act, ossia la legge primaria che il governo federale utilizza per amministrare lo status indigeno, i governi locali delle Prime Nazioni e la gestione delle riserve. Nota Glen Coulthard (2010), studioso appartenente alla comunità Dene e professore di scienze politiche alla University of British Columbia, come il governo canadese abbia applicato, nel corso degli ultimi due secoli, diverse pratiche di potere che hanno seguito una traiettoria caratterizzata da tre principali linee di assoggettamento delle comunità native. In particolare, secondo lo studioso, si è passati da una politica basata sull’eliminazione attraverso l’eliminazione, passando poi ad una politica di eliminazione attraverso l’assimilazione, per giungere all’attuale politica che abbraccia l’eliminazione attraverso il riconoscimento. A tale proposito, la Dene Nation stilò, nel 1975, la seguente dichiarazione formativa: 

«We the Dene of the NWT [Northwest Territories] insist on the right to be regarded by ourselves and the world as a nation. Our struggle is for the recognition of the Dene Nation by the Government and people of Canada and the peoples and governments of the world» (Dene Nation, 1977: 3–4). 

Vent’anni dopo, nel 2005, la più grande organizzazione aborigena del Canada, l’Assemblea delle Prime Nazioni, dichiarò: 

«A consensus has emerged […] around a vision of the relationship between First Nations and Canada which would lead to strengthening recognition and implementation of First Nations’ governments» (Coulthard 2010: 18). 

large-1La visione racchiusa in tale affermazione espande i principi fondamentali delineati nel Report of the Royal Commission on Aboriginal Peoples del 1996 in cui viene sottolineato il rapporto diretto tra le comunità indigene e la Corona Britannica, il riconoscimento dell’uguale diritto delle First Nations all’autodeterminazione, il riconoscimento dell’obbligo fiduciario della Corona di proteggere i diritti inscritti nei trattati aborigeni, il riconoscimento del diritto intrinseco delle comunità native canadesi all’autogoverno e il riconoscimento infine delle First Nations di beneficiare economicamente dell’uso delle loro terre e delle risorse presenti nel loro territorio. In questa ottica, sembra quindi che il riconoscimento dei popoli aborigeni del Canada sia un’espressione egemonica dell’autodeterminazione all’interno del movimento per i diritti degli indigeni.

L’aumento di richieste di riconoscimento avanzate dai nativi e da altre minoranze emarginate negli ultimi trent’anni, ha determinato una nuova ondata di produzioni intellettuali che hanno iniziato ad interrogarsi sul significato etico, politico e giuridico di questo tipo di rivendicazioni. Le varie dinamiche di potere così attuate hanno inevitabilmente determinato accesi dibattiti che si sono articolati principalmente lungo due filoni di pensiero: da un lato molti leader politici e teorici sostengono il fatto che le iniziative basate sul riconoscimento ed appoggiate dal governo condurranno, in quanto sottoposte all’Indian Act, all’autonomia dei popoli indigeni (Taylor 1994; Kymlicka 2001); dall’altro, un crescente numero di studiosi ha cominciato a contestare tali affermazioni sostenendo che una politica di riconoscimento come quella attualmente presente in Canada altro non riproduce che le vecchie dinamiche di potere coloniale tra i popoli indigeni e lo Stato (Coulthard 2007, 2010). Queste ultime discussioni hanno ulteriormente attirato l’attenzione di vari scienziati sociali che hanno cominciato ad esaminare le pratiche coloniali e la politica che governa la cosiddetta indigeneità generando domande sulle possibili alternative agli approcci basati sul riconoscimento indigeno tramite l’autodeterminazione.

In linea generale comunque, gran parte della letteratura prodotta su tale argomento, è stata influenzata dal saggio di Charles Taylor del 1994 intitolato “The politics of Recognition” che ha determinato la tendenza a concentrare i vari studi sul riconoscimento delle differenze culturali della società non-indigena da un lato e le possibilità di libertà di autogoverno indigeno dall’altro. Alcuni studiosi hanno ulteriormente sostenuto che questa sintesi teorica ha anche costretto il governo federale a concettualizzare nuovamente la sua relazione con i popoli aborigeni (Cairns 2000, 2005).

Prima dell’insediamento coloniale, i popoli indigeni dei Northwest Territories esistevano come gruppi distinti definiti dalla collocazione sulle (o meglio nelle) loro terre ancestrali, dalle relazioni di parentela, dalle strutture di regolamentazione sociale e dalle reti economico-commerciali (Napoleon 2013). Sostiene Coulthard (2007) che, partendo dall’organizzazione sociale, culturale e in senso lato tradizionale indigena, è possibile oggi sfidare l’idea che la relazione coloniale tra i popoli indigeni e lo Stato canadese possa essere radicalmente trasformata attraverso una politica di riconoscimento. Secondo Richard Day (2001) una “politica del riconoscimento” comprende una vasta gamma di modelli di pluralismo liberale che cercano di conciliare le rivendicazioni indigene di nazionalità con la sovranità della Corona attraverso una rinnovata relazione con lo Stato federale canadese. Come sottolinea l’autore, tali modelli tendono ad essere molto diversi tra di loro sia dal punto di vista teorico che pratico. Ciononostante, essi sono accomunati dal fatto di considerare la terra come un capitale su cui lo Stato federale può esercitare un potere politico nei confronti delle comunità indigene. Di fronte a tali presupposti, alcuni autori convengono che, invece di inaugurare un’era di pacifica convivenza fondata sull’ideale hegeliano di reciprocità, la politica del riconoscimento, nella sua forma attuale applicata in Canada, promette di riprodurre le stesse configurazioni di potere coloniale contro cui le richieste di riconoscimento dei popoli indigeni hanno storicamente cercato di trascendere (Coulthard 2010; Napoleon 2013).

fanonUtilizzando, come base teorica, il pensiero dell’antropologo psichiatra francese Frantz Fanon (1967) si può notare che la riproduzione di una struttura coloniale di dominio come quella del Canada si basa sulla capacità di invogliare le comunità native ad identificarsi, in maniera più o meno esplicita, con le forme di riconoscimento profondamente asimmetriche e non reciproche imposte o concesse loro dallo Stato coloniale e dalla società in generale. Nello specifico Fanon sviluppò per la prima volta questa intuizione nel suo libro Black Skin, White Mask (1967) in cui ha sfidato, in maniera persuasiva, l’applicabilità della dialettica del riconoscimento di Hegel (1977) in contesti coloniali. Andando oltre l’astrazione di Hegel, Fanon ha sostenuto che in contesti di dominio coloniale non solo i termini di riconoscimento sono solitamente determinati e costruiti nell’interesse del colonizzatore, ma anche le cosiddette pratiche psico-affettive relazionate a tali forme di riconoscimento dettate dal padrone rappresentano un elemento essenziale affinché venga mantenuta la struttura economico-politica destinata a determinare la relazione colonizzatore/colonizzato. 

La struttura di potere padrone/schiavo 

La narrativa padrone/schiavo di Hegel può essere letta attraverso almeno due prospettive che continuano ad informare le teorie contemporanee basate sul riconoscimento del pluralismo liberale. Una prima lettura considera la dialettica di Hegel una teoria della formazione dell’identità che contrasta con la visione liberale classica del soggetto in quanto colloca le relazioni sociali al primo posto della soggettività umana. Per tale motivo, le relazioni di riconoscimento sono ritenute costitutive della soggettività in cui il soggetto diventa tale solo in virtù dell’essere riconosciuto da un altro soggetto (Fraser, Honneth 2003). Questa intuizione della natura intersoggettiva della formazione dell’identità è alla base dell’affermazione spesso citata da Hegel secondo cui l’autocoscienza esiste in sé e per sé quando, e per la ragione in cui, esiste così per un altro soggetto; cioè esiste solo quando viene riconosciuto (1977).

Nella seconda lettura, la dialettica va oltre la natura relazionale della soggettività umana. Da questo punto di vista la narrativa colonizzatore/colonizzato può essere letta come una storia normativa in quanto suggerisce che la realizzazione di sé stessi come agenti autodeterminati richiede non solo di essere riconosciuto come tale, ma anche di essere riconosciuto da un’altra autocoscienza anch’essa riconosciuta come autodeterminata. È attraverso questi processi reciproci e scambi di riconoscimento che emerge la possibilità di essere uomini liberi (Pippin 2000). Questo punto viene considerato da Hegel quando discute il destino ironico del maestro in un contesto di riconoscimento asimmetrico. Dopo che la lotta per la vita e la morte tra due autocoscienze si è temporaneamente bloccata nella relazione gerarchica padrone/schiavo, Hegel descrive una svolta sorprendente degli eventi in cui il desiderio del padrone di essere riconosciuto come un essere essenziale per sé stesso è ostacolato dal fatto che lui è riconosciuto solo dalla coscienza non essenziale e dipendente dello schiavo (Hegel 1977).

In altre parole, lo schiavo non riconoscerà mai un padrone. Nel racconto di Hegel, in questa relazione diseguale e unilaterale, il maestro non riesce ad acquisire la certezza dell’essere per sé come verità di sé. In realtà, la sua verità e la sua azione sono forme di coscienza non essenziali. In tali condizioni, lo schiavo, attraverso il suo lavoro di trasformazione, diventa cosciente di ciò che veramente è e lavora per realizzare la sua indipendenza. In questo modo, la coscienza indipendente e lo status di attore autodeterminato si realizza attraverso la prassi dello schiavo, ossia attraverso il suo lavoro trasformativo nel e sul mondo. Tuttavia, qui è importante notare che per Hegel la rivoluzione dello schiavo non consiste semplicemente nel sostituire il padrone mantenendo l’ineguale riconoscimento gerarchico, in quanto invertirebbe solo temporaneamente la relazione. Come ricorda Robert Williams (2001), il progetto di Hegel era quello di andare oltre i modelli di dominio e di disuguaglianza che caratterizzano le relazioni asimmetriche di riconoscimento.

Patchen Markell (2003) ha suggerito che una delle differenze attuali più significative relative al riconoscimento della relazione padrone/schiavo di Hegel riguarda il ruolo delle istituzioni statali come mediatrici delle relazioni sociali. Per esempio, a proposito delle politiche volte a preservare la diversità culturale, Markell scrive: 

«Far from being simple face-to-face encounters between subjects, a` la Hegel’s stylized story in the Phenomenology’, multiculturalism tends to ‘involve large-scale exchanges of recognition in which states typically play a crucial role» (Markell 2003: 25). 

taylorTaylor, ispirandosi a Hegel, osserva che gli attori umani non sviluppano le loro identità in isolamento, piuttosto si formano attraverso un dialogo complesso con gli altri, in accordo o in lotta con il loro stesso riconoscimento (Taylor 1991). Tuttavia, dato che le nostre identità sono formate attraverso queste relazioni, ne consegue che esse possono anche essere significativamente costruite a monte. Questo è ciò che intende Taylor quando afferma che le identità sono modellate non solo dal riconoscimento, ma anche dalla sua assenza: 

«Often by the misrecognition of others. A person or a group of people can suffer real damage, real distortion, if the people or society around them mirror back to them a confining or demeaning or contemptible picture of themselves. Nonrecognition or misrecognition can inflict harm, can be a form of oppression, imprisoning one in a false, distorted, and reduced mode of being» (Taylor 1994: 25). 

Per dare un’idea del fatto che le relazioni asimmetriche di riconoscimento possono impedire la libertà umana e la prosperità imprigionando qualcuno in una relazione distorta, Taylor spiega come le forme denigratorie di riconoscimento possono infliggere ferite alle loro vittime, sviluppando anche sentimenti di odio verso sé stessi e determinando un forte danno a coloro a cui è negato tale riconoscimento. In particolare, il misconoscimento ha la capacità di danneggiare attraverso vere e proprie forme di oppressione, alla pari di ingiustizie come disuguaglianza e sfruttamento. In questo modo, sottolinea Taylor (1991), il riconoscimento è elevato allo status di bisogno umano vitale.

A questo punto, cominciano a rivelarsi le implicazioni pratiche della teoria di Taylor. Nei suoi lavori più descrittivi, lo studioso osserva che in Canada le popolazioni indigene esemplificano tipi di minoranze che dovrebbero essere considerate ammissibili per una qualche forma di riconoscimento in grado di accogliere la loro specificità culturale. Per tali popolazioni, ciò potrebbe implicare la richiesta di una delega per l’autonomia politica e culturale attraverso le istituzioni di autogoverno (Taylor 1993). Specificando ulteriormente, lo studioso afferma che ciò potrebbe significare la creazione di una nuova forma di giurisdizione in Canada in cui, accogliendo le istanze indigene, si consentirebbe, almeno idealmente, alle comunità native di preservare la propria identità e quindi evitare il disorientamento psicologico e la conseguente mancanza di libertà associata a modelli strutturali di non riconoscimento sociale. Pertanto, l’istituzionalizzazione di un regime liberale di riconoscimento reciproco consentirebbe ai popoli indigeni di realizzare il loro status di attori autodeterminati.

Se è vero che la dimensione normativa del progetto di Taylor costituisce un netto miglioramento rispetto alle passate tattiche di esclusione, di genocidio e di assimilazione attuate in Canada (Day, Sadik 2002), è importante anche evidenziare come il riconoscimento è concepito come qualcosa che viene concesso (Taylor 1994) ad un gruppo subalterno da parte di un’entità dominante. Tale meccanismo prefigura dunque l’incapacità di modificare in modo significativo l’ampiezza del potere in gioco nelle relazioni coloniali. 

Assemblea delle Prime Nazioni, 1075

Assemblea delle Prime Nazioni, 1975

Il problema del riconoscimento nei contesti coloniali 

Taylor riconosce il fatto che Fanon sosteneva la lotta violenta come mezzo principale per superare la subordinazione instillata, da parte dei colonizzatori, nei confronti di soggetti subalterni attraverso il misconoscimento. La preoccupazione di Fanon per il rapporto tra libertà umana e uguaglianza nelle relazioni di riconoscimento implica anche un riconoscimento a lungo termine di un sistema creato da un governo coloniale basato sull’interiorizzazione delle forme di riconoscimento razzista imposte o elargite alla popolazione indigena dallo Stato coloniale attraverso la forza bruta. In questo modo, la longevità di una formazione sociale coloniale dipende, in maniera significativa, dalla capacità di trasformare la popolazione colonizzata in soggetti del dominio imperiale. Per Fanon, il colonialismo opera in modo duale in quanto include non solo le storiche interrelazioni, ma anche gli atteggiamenti umani che consentono di perpetuare queste condizioni. È bene sottolineare che questi comportamenti sono costituiti da una miriade di atteggiamenti che favoriscono il dominio coloniale e che si instaurano tra colonizzatore e colonizzato attraverso lo scambio ineguale di modelli di riconoscimento istituzionalizzati ed interpersonali tra la società coloniale e la popolazione indigena.

Fanon, a tal proposito, mette in luce come nel tempo le popolazioni colonizzate tendano ad interiorizzare le immagini dispregiative imposte loro dai padroni coloniali e, come conseguenza di tale processo, queste immagini, insieme alle relazioni strutturali con le quali sono intrecciate, vengono riconosciute o subite come più o meno “naturali”. Quest’ultimo punto è reso dolorosamente chiaro nel pensiero di Fanon. L’autore afferma inoltre il fatto che gli innumerevoli modi in cui l’imposizione dello sguardo del colonizzatore si attua sul colonizzato, è capace di infliggere un danno alla società indigena sia a livello individuale che a livello collettivo. Di qui il suo concetto di “socio-diagnosi” secondo cui un complesso di inferiorità è l’esito di un doppio processo, in primo luogo economico, incorporato nel soggetto. Fanon ha quindi correttamente collocato lo sfruttamento e il dominio coloniale-capitalista accanto al misconoscimento e all’alienazione come fonti fondamentali dell’ingiustizia coloniale. Attraverso una interpretazione marxista, è utile evidenziare il ruolo che l’economia capitalista gioca nella sovra-determinazione delle relazioni gerarchiche di riconoscimento. In questo modo, il colonizzatore instaura la sua guerra sia a livello economico che soggettivo.

Negli ultimi anni, un numero consistente di studiosi ha ripreso il pensiero di Fanon (Rorty 2000; Bannerji 2001; Day 2001; Day, Sadik 2002; Barry 2002; Fraser, Honneth 2003). Per esempio, Fraser e Honneth (2003) hanno sviluppato il loro lavoro verso la discussione di una nuova politica del riconoscimento capace di inglobare anche la dimensione più prettamente culturale. In questo modo, le strategie che mirano alle ingiustizie associate al misconoscimento tendono a concentrarsi sul cambiamento culturale tentando di cancellare anche l’insieme dei saperi e delle attività tradizionali, oltre che cerimoniali, di una popolazione nativa. Di qui la possibilità di riconoscimento e di riaffermazione di identità precedentemente disprezzate, attraverso per esempio la decostruzione di modelli di rappresentazione dominanti, le quali potrebbero cambiare l’identità sociale di tutti.   

Cultura indigena basata sulla terra

Cultura indigena basata sulla terra

Auto-riconoscimento e responsabilizzazione anticoloniale 

In Canada risulta evidente l’applicabilità delle intuizioni di Fanon. Infatti, il discorso liberale sul riconoscimento è stato vincolato e regolamentato dal governo federale, dai tribunali, dagli interessi corporativi e dai responsabili politici i quali consentono di preservare lo status quo coloniale. Per quanto riguarda la giurisdizione, negli ultimi trent’anni la Corte Suprema del Canada ha costantemente rifiutato di riconoscere l’autodeterminazione dei popoli aborigeni sulla base dell’adesione al mito della supremazia bianca secondo cui le comunità indigene sono troppo primitive per assumere i diritti politici davanti alle forze coloniali (Tulli 2001). Pertanto, anche se la Corte Suprema ha assicurato un grado di protezione in relazione alle pratiche culturali all’interno dello Stato, ha comunque rifiutato di contestare l’origine razzista della presunta autorità sovrana del Canada sui popoli nativi e sui loro territori (Coulthard 2014).

Generalmente la resistenza a questo potere totalizzante è vista come un progetto intrinsecamente reazionario (Barry 2002). In effetti, Fanon ha affermato che il percorso per l’autodeterminazione giace in una forma quasi nietzschiana di autodeterminazione. Piuttosto che rimanere dipendenti dai loro oppressori per la libertà e l’autostima, Fanon ha sostenuto l’importanza per i colonizzati di lottare per rivendicare e rivalutare criticamente il valore delle proprie storie, tradizioni e culture contro il richiamo assimilativo del riconoscimento coloniale. Secondo lo studioso, questo processo autoiniziatico è ciò che attiva un cambiamento di fondamentale importanza nell’equilibrio psico-sociale ed affettivo del colonizzato (Fanon 2005). Per Fanon i colonizzati devono avviare un processo di decolonizzazione riconoscendo sé stessi come uomini liberi e, in quanto tali, come persone non tanto giuridiche quanto naturali. È interessante notare come lo studioso si ispiri su tale questione alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel che vedeva come indispensabile la necessità da parte degli oppressi di allontanarsi dalla loro dipendenza dal padrone e lottare sulla base del riconoscimento dei loro valori.

Direi che la chiamata di Fanon nei confronti di un distacco dal colonizzatore, lungi dall’esporre una visione rigidamente dualistica dei rapporti di potere, riflette invece una profonda comprensione della complessità implicita per il riconoscimento degli indigeni in contesti coloniali. A differenza della lotta tra forze opposte relativa alla vita e alla morte di Hegel, Fanon ha aggiunto a tale dialettica un aspetto razziale e culturale multidimensionale, sottolineando la multiforme rete di relazioni di riconoscimento che è alla base della costruzione delle identità e delle le condizioni necessarie per la libertà umana e per la prosperità. Riprendendo il pensiero di Fanon, Althusser (1994) analizza come il processo di interpellanza delle popolazioni aborigene ha sempre assunto la forma di un fondamentale misconoscimento utile a riprodurre negli individui le caratteristiche e i desideri specifici che li impegnano nella loro posizione di classe subordinata. Larrain (1996) a sua volta, ispirandosi al lavoro di Fanon, afferma che la violenza sarebbe servita come una specie di psicoterapia degli oppressi, offrendo una forma primaria di agency attraverso la quale il soggetto si sposta dal non essere all’essere e da oggetto a soggetto. In questo senso, l’atto di violenza rivoluzionaria offre un mezzo efficace per trasformare le soggettività del colonizzato, nonché per rovesciare la struttura sociale che aveva prodotto soggetti colonizzati. 

Abitare le terre ancestrali, Nuova Scozia (Archives Mikmaw Community)

Abitare le terre ancestrali, Nuova Scozia (Archives Mikmaw Community)

Conclusioni 

Le lotte contemporanee indigene in Canada sono attualmente orientate verso la decostruzione del potere coloniale corporativo instauratosi nelle terre ancestrali. Evidenziando le origini politiche delle loro privazioni culturali, sociali, politiche ed economiche, i gruppi indigeni canadesi stanno, da oltre trent’anni, esprimendo una lotta per l’autodeterminazione e l’autogoverno tentando di veicolare ideologie che vadano al di là di istanze prettamente legali e concettuali. In particolare, le lotte indigene in Canada hanno iniziato a basarsi anche sull’istituzionalizzazione della cultura come strumento politico nella gestione della relazione con il governo federale. In tal modo, le comunità native sottolineano l’importanza di una politica anticoloniale incorporata nelle loro stesse cosmologie, una strategia che rifiuta la semplificazione della conoscenza aborigena così come è invece imposta dai colonizzatori.

Nel sottolineare l’importanza di comprendere in profondità le lotte indigene, Coulthard (2014) indica il cruciale compito degli studiosi nell’aiutare i gruppi nativi a comprendere le linee geopolitiche che caratterizzano la governance canadese. Attraverso un approccio marxista, lo studioso mette in luce l’operazione del potere di insediamento coloniale nei territori delle Prime Nazioni caratterizzata dalla privazione di qualsiasi compensazione materiale concreta nei confronti degli indigeni. Ciononostante, per Coulthard è proprio in questa lotta per il riconoscimento che prendono attualmente forma in Canada i movimenti indigeni contemporanei che devono fare i conti con la parvenza di riconciliazione e riconoscimento dettata dal governo. Pertanto, secondo l’autore il riconoscimento dovrebbe assumere una forma di auto-riconoscimento critico basato su obblighi ancestrali e pratiche politiche mirate a ristrutturare totalmente il rapporto tra gruppi nativi e Stato.  Coulthard riflette infine sul concetto classico marxiano di accumulazione primitiva per individuare la natura di sfruttamento e di violenza causata da forme di sfruttamento capitalistico.

Attingendo ai lavori di Coulthard, Wright (2018) sottolinea come nei movimenti indigeni si stia assistendo anche ad un rifiuto al dialogo come forma di resistenza e pratica per reindirizzare le logiche coloniali e capitalistiche. In questo modo, sottolinea lo studioso, il rifiuto al dialogo diventa una forma di dialogo affermativo per le popolazioni native. Ancora una volta viene, a tal proposito, sottolineata l’asimmetria di potere riguardo le gerarchie sociali di classe, razza, genere, età. Pertanto, un dialogo attualmente costruito tra gruppi aborigeni canadesi e il governo federale altro non può essere che abilitativo e generante solo per il potere capitalistico e governativo. In questo modo, in accordo con Coulthard, anche Wright ammette come, ora come ora, il rifiuto del dialogo possa significare per i nativi un rifiuto ad abbandonare il loro background culturale. A tal proposito, sottolinea Simpson: 

«The dialogue itself is a political and ethical stance that stands in stark contrast to the desire to have one’s distinctiveness as a culture, as a people, recognised. Refusal comes with the requirement of having one’s political sovereignty acknowledged and upheld, and raises the question of legitimacy for those who are usually in the position of recognising: What is their authority to do so? Where does it come from? Who are they to do so? » (Simpson, 2014: 11). 

Il rifiuto, quindi, diventa non solo un ritiro dal dialogo, ma allo stesso tempo una pratica importante per rifiutare le logiche coloniali e capitaliste. 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.

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