di Valeria Dell’Orzo
I riti di passaggio segnano il cambiamento di status sociale, culturale, esperienziale di un individuo all’interno del nucleo comunitario nel quale è attore e che con lui vive la nuova condizione; mettono in scena la trasformazione, attraverso il cambiamento si perdono i consueti punti di riferimento, e subentra la naturale crisi della perdita di sicurezza e stabilità socio affettiva; si costruiscono sulla base di un impianto culturale e quindi funzionale che traccia invisibili ma precise linee di demarcazione del Noi. Il momento del passaggio rompe gli argini che perimetrano le porzioni concettuali e spaziali della propria realtà personale e del proprio posto nella società.
Formati e formatisi sulla base della difficoltà ma al tempo stesso della funzionalità e della possibilità di realizzazione territoriale e socio culturale della prova, i riti di passaggio si plasmano, si ri-plasmano, sull’humus delle condizioni comunitarie. La prova si adatta nella forma per mantenere, al mutare profondo della realtà circostante, la durezza, la difficoltà, il dolore e quindi l’importanza collettivizzante della sua funzione e del suo superamento a opera del singolo che, oltre al sé, incarna al tempo stesso anche il nucleo d’appartenenza che collettivamente, empaticamente, condivide il suo percorso con timore e aspettative.
«La douleur, trouble-fête, porte atteinte à la personnalalité de l’individu, retire le souffrante de la coscience extérieure, le concentredans lui-même, le réduit à sa souffrance, qu’il n’arrive pas à objectiver, provoque «une rupture entre l’individu et le monde, une restructuration du sujet dans la doleur». Et quand il en est délivré il renat, transformé, avec une nouvelle identité. Selon les anatomistes la douleur effectue une réadaptation dans le comportament. Et c’est exactement cela dont le rite de passage a besoin pour qu’il réussisse à assurerque a personne-en-soi se réadapte auxexige ances du nouveau statut. La douleur, la peur, l’humiliation, détruisent la personnalité sociale biendans sapeau et lui imposent une révision de son image de soi qui ouvre la voie vers cette réadaptation souhaitée… Le souvenir de cette douleur attache l’individu à son passage accompli… C’est cela qui garantit l’intégration morale dans le nouveau status». [1]
In un mondo occidentale che si affanna a dichiarare il proprio indignato rifiuto alla concettualizzazione della sofferenza fisica, immagine ideale respinta come efferata vessazione che toglie il privilegio a altre forme di diffusa mortificazione corporale esteticamente promosse, la sofferenza interiore prende campo fino a divenire una doverosa tappa evolutiva, personale e comunitaria, dell’homo patiens [2] che ha educato se stesso a affrontare con dignità un dolore non solo suo, ma per amore di qualcuno, per il bene di un equilibrio minacciato, di una economia asfissiata, di una realtà sociale e familiare stretta nella morsa dell’impossibilità di evolversi; «L’esecutore di un’impresa atroce deve immaginare di averla già compiuta, deve imporsi un avvenire altrettanto irrevocabile del passato» [3], si vede come dolore «uno stato psichico, oggettivabile in alcuni comportamenti umani e collettivi, che registra un’interruzione di equilibrio immaginato antecedente a un evento spiacevole. In tal senso, il dolore appartiene al dominio della memoria» [4]; è qui che l’homo patiens si spinge oltre i rassicuranti baluardi del sé, li supera infliggendosi le innumerevoli difficoltà di una condizione altra, per abbandonare infine, a seguito di un complesso e faticoso percorso iniziatico, il narcisistico antropocentrismo infantile e trasformarlo in un altruistico senso etico della propria funzione sociale.
Prendono corpo nuove figure apolidi, escono, così, strappate e strappandosi dal grembo di una Madre Terra e Cultura profondamente legata ai suoi campanili spaziali e affettivi. Dal radicarsi profondo si diramano, per costrizione sociale, arterie di rami dai frutti stanchi, slanciati verso un altrove di speranza, l’altrove del tentativo di sfuggire all’imputridirsi indotto da una statica, svilita, attesa di vita.
Per tentare di accedere al mondo lavorativo, quindi a quello di una matura autonomia socioeconomica finalizzata alla crescita personale e sociofamiliare, giovani e meno giovani si trovano oggi a muoversi sulle rotte della migrazione, pressati da un sistema che non consente loro di emanciparsi e di partecipare attivamente al benessere della comunità se non attraverso la via del distacco e della ricostruzione del sé.
Lo strappo della migrazione, la preoccupazione nei confronti di chi resta, la perdita dei propri codici culturali, dei propri spazi geografici, linguistici, alimentari, si estremizza nel dolore sordo e nello smarrimento, carico di famelica speranza, di un allontanamento che spesso, stretti nel frastuono interiore dell’io annichilito dallo sradicamento come dalla paura di un ritorno che potrebbe, alla luce della realtà di partenza, rappresentare l’amaro concretizzarsi di un fallimento, di un rito di passaggio compiuto e abortito, franato in un inutile tentativo che mantiene i soli tratti del dolore e del rammarico ma che non ha consentito di compiere il salto di status, un passo incerto e sospeso che lascia le sole cicatrici delle asperità incontrate.
La via della migrazione, imposta implicitamente come occidentale tappa evolutiva di chi è doverosamente in cerca di autonoma dignità, spinge l’uomo sociale al livello di una monade [5], strappa la comunità e ne estrapola particelle isolate, unità puntiformi e non più divisibili, cariche ancora, però, della capacità di percezione e di rappresentazione intima di un più grande orizzonte, dell’universo socio affettivo che lo comprende. Il rito della migrazione impone così il trasformarsi sul piano dell’individualismo, sottrae dalla comunità elementi isolati, viaggiatori inquieti soffocati da un opprimente vuoto sociale carico di aspettative che inscena il riproporsi del mito primitivo della formazione della collettività.«Is there not a central disclosure of the hidden meaning of individualism… that absence of collective life? of family ties? of a local community? of anything that does not serve the self, and the indvidual will?…all of them are nomadic monads, restless travellers; they exist in the social void, without parents, wives or children; they are wholly self-enclosed… If primitive myth is defined by the lack of them? And do these absence express, no doubt inconsciously, the real psycological and social structure of individualism?».[ 6]
La migrazione, che credevamo essere fenomeno di pertinenza dei popoli del Sud del mondo, a guardar bene, è oggi rito di passaggio che investe anche tanta parte del mondo giovanile occidentale, producendo una cesura dalla condizione socialmente stabilita come normale e provocando una sofferta transizione, una sfida in precario equilibrio su uno scabro filo spinato, un difficile varco tra le strozzature della vita, nella ricerca di una via stretta tra speranze e responsabilità, tra costrizioni e volizioni, tra necessità e soggettività.