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“Malfaraggi” e stabilimenti delle tonnare della Sicilia sud-orientale

copertinadi Rosario Lentini

Un nuovo importante contributo alla conoscenza del mondo delle tonnare siciliane è stato pubblicato di recente dallo storico dellʼarchitettura Federico Fazio, edito da Lettera Ventidue, con il titolo I luoghi del tonno. Santa Panagia e le tonnare della Sicilia sud-orientale. È un ulteriore passo avanti della ricerca che, negli ultimi decenni, da diverse angolazioni (etno-antropologica, storico-economica, storico-sociale, architettonica e urbanistica), ha riportato in primo piano una delle attività produttive di antica genesi, tra le più complesse e strutturate. Lo testimoniano le fonti documentarie degli archivi pubblici e privati (manoscritti, immagini, cartografie, registrazioni audio-video), gli edifici, le imbarcazioni specifiche e tutto lʼarmamentario di reti e attrezzi funzionali alla pesca del tonno ancora rinvenibili in Sicilia.

In questo caso lʼautore offre una visione di dettaglio e dʼinsieme sul piano architettonico e urbanistico in un percorso che si sviluppa dal sito di Santa Panagia, a nord di Siracusa, fino allʼestremo sud della tonnara di Capo Passero, analizzando quelle intermedie di Avola (ex Fiume di Noto) e Marzamemi. Operazione impegnativa, ma il risultato è stato pienamente conseguito, grazie a un attento e rigoroso lavoro sui documenti e alle rilevazioni sul campo.

È bene ricordare che lungo questa fascia costiera e in quella meridionale dellʼIsola, nei siti di pesca ‒ convenzionalmente denominati “di ritorno”, con riferimento al percorso compiuto dai branchi, con regolare periodicità ‒ si catturavano e uccidevano tonni post-genetici dalle carni più asciutte e meno grasse, quindi meno pregiati di quelli “mattanzati” alle Egadi e nella costa settentrionale da Milazzo ai mari del Trapanese. Ciò determinava un diverso apprezzamento delle rispettive qualità da parte dei consumatori, ma non per questo minore possibilità di collocamento nei mercati; semmai minori margini di profitto a parità di prodotto e di investimenti per ammodernare impianti e introdurre innovazioni.

Nella seconda metà del Novecento, la fascia costiera oggetto di studio, come sottolinea Paola Barbera nella sua “Introduzione”, è stata segnata da progetti di sviluppo «diversi e spesso incompatibili […]: il sogno dello sviluppo industriale, il miraggio del petrolio, la storia agricola dellʼisola e la sua vocazione turistica si sono intrecciati e sovrapposti generando conflittualità».

La baia di Santa Panagia, sullo sfondo la tonnara (Collezione Maltese)

La baia di Santa Panagia, sullo sfondo la tonnara (Collezione Maltese)

Fazio analizza gli ex stabilimenti delle tonnare «in relazione ai loro contesti fisici, soffermandosi sulle principali fasi di formazione e trasformazione degli stessi nellʼambito del generale assetto della città e del territorio». La parte principale del volume è dedicata al sito di Santa Panagia, un contesto denso di testimonianze archeologiche di cui delinea i tratti salienti, fin dai primi insediamenti preistorici, sia nella contrada che nei pressi della cava e della relativa insenatura di più recente formazione, utilizzata probabilmente come porto-rifugio. È accertata la presenza di un nucleo di pescatori, già nel Medioevo, i quali praticavano anche la pesca del tonno in prossimità di Stentinello, a nord di Siracusa. La documentazione dʼarchivio mostra come, intorno alla metà del Quattrocento, fosse in esercizio una tonnara di proprietà del Demanio regio, che sarebbe rimasta in attività principalmente dal Settecento e fino alla seconda metà del Novecento, nellʼalternanza di periodi di crisi a stagioni più fruttuose.

La cessazione dell’attività determinò, purtroppo, l’abbandono dellʼantico malfaraggio, mentre in parallelo procedeva lo sviluppo urbano tumultuoso di Siracusa, contrassegnato da una nuova ideologia della modernità che alimentava la spinta industrialista e le trasformazioni di carattere edilizio: «In questo quadro, la frammentazione del paesaggio naturale provocata dalla speculazione edilizia e dallo sviluppo del polo petrolchimico nel litorale a nord di Siracusa definì il “volto” della città contemporanea, in cui le tracce del passato ricoprirono un ruolo secondario o – in alcuni casi – vennero completamente cancellate».

L'ingresso della loggia di Santa Panagia (Collezione Maltese)

L’ingresso della loggia di Santa Panagia (Collezione Maltese)

Oggi, un quartiere popolare sorto negli anni Cinquanta del ʼ900, che porta il nome della tonnara di Santa Panagia, in prossimità dello stabilimento abbandonato, è parte integrante di una vasta area degradata.

Fazio si è avvalso di unʼarticolata tipologia di fonti archivistiche inedite (notarili dal ʼ600 al ʼ900, riveli rurali e rusticani, registri del catasto borbonico, carte del fondo Bonanno di Linguaglossa), oltre che delle pubblicazioni a stampa dell’epoca e di una ricca bibliografia, proprio per indagare sulle principali trasformazioni architettoniche della tonnara in questione. In particolare, ha posto la sua attenzione sugli aspetti tecnico-giuridici, economico-finanziari e contrattuali relativamente allʼappalto dei lavori, inclusi quelli sullʼorganizzazione dei cantieri, sulla formazione culturale e sul ruolo e l’attività dei committenti, degli architetti e delle maestranze.

La cava e la tonnara di Santa Panagia (ph. M. Ponzio)

La cava e la tonnara di Santa Panagia (ph. M. Ponzio)

Nel 1655 il giudice Simone Ignazio Calascibetta aveva acquistato dal regio Demanio le tonnare di Santa Panagia, Marzamemi e Vindicari, compreso lo jus luendi (diritto del venditore di riscattare un bene dalle mani del compratore, rimborsandolo della stessa somma spesa per l’acquisto) che gravava sulla tonnara di Fiume di Noto, al prezzo di 9000 onze, ottenendo anche il titolo di barone. A fine Seicento lo sviluppo degli edifici della tonnara di Santa Panagia (alloggio del gabelloto, chiesetta, tettoie, magazzini) e la relativa crescita di importanza dellʼattività ittica e di lavorazione del pescato, si accompagnavano anche alla scalata sociale degli eredi Calascibetta nel cuore dellʼoligarchia urbana.

Quando nel 1693 il terremoto colpì duramente Siracusa (4.000 vittime), danneggiando il malfaraggio (complesso delle architetture al servizio della tonnara), il barone Giuseppe Calascibetta non esitò a ricostruirlo integralmente per consentire la piena ripresa delle attività: «I corpi edilizi comprendevano una “grande sala”, ancora oggi riconoscibile, con copertura a falde in “pileri e recinti di fabrica” detta la Loggia per le arcate all’interno reggenti una serie di travi, che servivano per appendere tramite grosse funi i tonni decapitati e farli dissanguare. La Loggia comunicava con la Camperia, un ambiente dove avveniva la salatura dei pesci e il confezionamento dei barili». A integrazione di questo nucleo produttivo cʼerano i dormitori per la ciurma, i magazzini delle scorte alimentari e del sale, la stanza per lo scrivano, la stanza del gabelloto, il quartino per il barone Calascibetta e una chiesetta con un piccolo campanile, secondo un modello di microcosmo produttivo che accomunava i siti di pesca siciliani più importanti.

Una seconda fase di interventi architettonici si ebbe nellʼintervallo 1764-1782 durante il quale si procedette a importanti lavori di ammodernamento e di trasformazione del vecchio malfaraggio, indotti dallo sviluppo della commercializzazione del prodotto che aveva i suoi principali mercati di sbocco nel Regno di Napoli e a Livorno, da cui procedeva la distribuzione nelle piazze europee. Fazio delinea minuziosamente la sequenza di benfatti, di acconci e ripari effettuati nel diciottennio in parola, avendo anche individuato nominativamente le maestranze impiegate: «Dunque, alla fine del XVIII secolo, la tonnara di Santa Panagia aveva raggiunto la fisionomia di un moderno opificio, simile ad altre realtà come quella di Marzamemi e di Capo Passero amministrate allora dai Nicolaci di Villadorata».

La tonnara di Santa Panagia (ph. L. Morreale)

La tonnara di Santa Panagia (ph. L. Morreale)

Dopo la morte di Giuseppe Calascibetta nel 1747 ‒ il cui cospicuo patrimonio, in assenza di figli, venne ereditato dalle nipoti ‒ le famiglie Landolina, Gargallo e Statella imparentate con i Vigo e i Bonanno di Linguaglossa, si alternarono a vario titolo nella gestione dell’impianto, ma sarà soprattutto Giuseppe Bonanno a prendere le redini di Santa Panagia tra ʼ700 e ʼ800 e poi i suoi eredi ad ampliare l’opificio a inizio ʼ900. Ed è proprio alla fase novecentesca che Fazio dedica un capitolo specifico per illustrare la costruzione dello stabilimento industriale per la lavorazione del tonno sottʼolio in scatole di latta. È questo un passaggio importante per lʼeconomia di quel territorio, così come lo era stato, dalla seconda metà dellʼ800, pure per Favignana, San Giuliano (Trapani), Solanto, San Giorgio (Milazzo) e Capo Passero, dove nei rispettivi stabilimenti i barili in legno e la conservazione del pescato sotto sale erano stati soppiantati da una modalità più propriamente industriale e tecnologicamente evoluta, per poter competere adeguatamente, se non alla pari, con una concorrenza nazionale sempre più agguerrita.

Non vʼè dubbio, come sottolineato dallʼautore, che la figura di Michele Bonanno sia da considerare «di grande spessore sociopolitico a livello locale» e che abbia legato in modo profondo il suo nome alla tonnara di Santa Panagia «di cui fu amministratore generale per più di quarantʼanni dal 1877 al 1922, anno della sua morte». A lui si deve lo stabilimento conserviero del tonno sottʼolio realizzato coinvolgendo lʼimprenditore Fosco Cipollini. Questa sinergia determinò «un importante passo verso lʼefficienza organizzativa emancipando lʼopificio settecentesco ancora legato ad un processo produttivo di tipo artigianale».

Marchio della Tonnara Santa Panagia (da Bontempelli 1903)

Marchio della Tonnara Santa Panagia (da Bontempelli 1903)

Il profilo dellʼindustriale Cipollini, originario di Massa ma residente a Genova, suscita interesse e trova la giusta sottolineatura nel libro perché dotato di competenze e, soprattutto, di visione strategica, necessari al buon esito della moderna impresa “Tonnara S. Panagia, Siracusa”: questa la denominazione riportata nelle scatole di latta e in qualunque tipo di recipiente del prodotto, come convenuto nel contratto stipulato il 14 gennaio 1900, sottoscritto tra i due principali soggetti.

Michele Bonanno e gli altri comproprietari si obbligavano a sostenere le spese dei lavori in muratura e a vendere i tre quarti della pesca giornaliera destinata allo stabilimento. Cipollini avrebbe procurato i macchinari e gli utensili necessari. «Cipollini intuì sin da subito le potenzialità del territorio aretuseo investendo i capitali necessari allo sviluppo della sua impresa. Egli, infatti, intercettò pure “tutta la pesca delle tonnare d’Avola e Terrauzza, concentrando tutta la lavorazione nello stabilimento da lui costruito”».

La tonnara di Santa Panagia, sullo sfondo l'area del petrolchimico (ph. L. Morreale)

La tonnara di Santa Panagia, sullo sfondo l’area del petrolchimico (ph. L. Morreale)

Importanti lavori di ampliamento vennero attuati tra il 1902 e il 1903 e, in particolare, il basamento per la batteria a due fornelli su cui collocare le caldaie mediante le quali il vapore veniva convogliato nella ciminiera, nonché la «caldaia cosiddetta a fornello California» per sterilizzare le latte. Le innovazioni apportate al complesso di Santa Panagia e, ovviamente, il buon andamento delle stagioni di pesca, consentirono di rafforzare la presenza del marchio nel circuito nazionale, grazie anche alla vasta rete di rapporti commerciali già tenuti dal barone Bonanno con le ditte di Nizza, Livorno e Bari. L’inizio della Prima Guerra mondiale, come prevedibile, ebbe conseguenze molto negative e non solo per lʼimpresa di Santa Panagia e gli aiuti del governo al settore della pesca non bastarono ad attenuare la crisi. A ciò si aggiunse nel 1922 la morte del barone Bonanno e il passaggio della gestione ai Gargallo di Castellentini. Con gli anni Trenta la tonnara cessò definitivamente la propria attività.

La parte conclusiva della sezione su Santa Panagia è dedicata allʼanalisi delle vicende costruttive, alle notizie sui materiali impiegati nei cantieri e alla relativa provenienza «come ad esempio i ciottoli di fiume usati per fare il ciacato delle stalle, la pietra cosiddetta dellʼIsola estratta dalle “antiche” cave del Plemmirio […] il pietrisco della cava Fusco-Gargallo impiegato per il calcestruzzo o ancora il legno zappino proveniente di boschi silani per realizzare gli scieri, ossia le robuste imbarcazioni necessarie alle mattanze». Non minore attenzione è, infine, rivolta allʼindividuazione degli architetti e dei capi mastri settecenteschi (Gregorio Amodeo, Saverio Alì, Carmelo Bonajuto, Pasquale Carrubba), fino al progettista principale della seconda metà dellʼ800 e cioè lʼingegnere Gaetano Cristina, dei quali Fazio traccia i profili ben documentati con lʼindicazione dei relativi interventi.

Nellʼ“Appendice”, a fine volume, si trova una selezione di 28 documenti relativi esclusivamente a questa tonnara. Nella seconda parte della monografia, tre capitoli più brevi, ma non meno densi di ricostruzione storica e di informazioni preziose, portano il lettore negli altri siti di pesca a sud di Siracusa.

La loggia della tonnara di Marzamemi (ph. P. Messina)

La loggia della tonnara di Marzamemi (ph. P. Messina)

La tonnara di Avola, di probabile origine seicentesca, denominata anche di Fiume di Noto, venne dislocata in un sito diverso (Mare Vecchio) dopo il terremoto del 1693, con conseguente ricostruzione ex novo del malfaraggio. Ebbe vita più tormentata e diversi passaggi di proprietà (Calascibetta, Conforto, Tornabene, Nicolaci), subendo la vicinanza di quella di Marzamemi, ritenuta più importante. Nella seconda metà dellʼ800, infatti, in potere e gestione dei Nicolaci, la tonnara di Avola venne tenuta appositamente inattiva per rendere più produttiva Marzamemi, anchʼessa di loro proprietà: «di conseguenza, alcuni privati demolirono parecchie strutture e usurparono parte dellʼarea di pertinenza, modificandone lʼassetto originario». Bisognerà attendere il 1895 per assistere alla ripresa dellʼattività di pesca, grazie allʼiniziativa di un affittuario, mentre nel frattempo si provvedeva alla ristrutturazione dei fabbricati e allʼacquisto di macchinari moderni per la lavorazione del tonno sottʼolio.

Dal 1901 al 1940 la tonnara e il relativo stabilimento furono amministrati da un esponente della ricca borghesia agraria avolese ‒ il cav. Carlo Loreto ‒ e per alcuni anni anche dalla ditta dei Fratelli Diana di Sampierdarena (Genova). Alla conclusione della Seconda Guerra mondiale, lʼerede Riccardo Loreto tentò invano di rilanciare lʼattività che ormai generava più perdite che ricavi. La chiusura definitiva dello stabilimento si verificò nel 1958 e nel decennio successivo lʼespandersi dellʼedilizia abitativa comportò il progressivo avanzamento degli edifici al borgo marinaro: «Tale “avvicinamento” ha implicato, comunque, unʼimportante opera di riqualificazione urbana nellʼex area portuale: di recente (2016) i vecchi magazzini di stoccaggio sono stati riconvertiti in bar e piccoli ristoranti divenendo polo di ritrovo della comunità locale. Viceversa, lo stabilimento della tonnara abbandonato da decenni, è ridotto in stato di rudere».

Della tonnara di Marzamemi si hanno notizie certe da quando, nel 1626, Andrea Nicolaci ottenne la concessione regia per poterla calare nellʼarea di mare compresa tra il golfo di Vendicari e lʼisola di Capo Passero; tuttavia, solo a metà del Settecento si avviò la creazione di un borgo di pescatori a ridosso della stessa, per iniziativa del barone Bernardo Calascibetta Landolina. La documentazione relativa mostra non soltanto quanto fosse redditizia e produttiva questa tonnara ma anche il rapido sviluppo dellʼhinterland agricolo la cui produzione veniva imbarcata per “fuori Regno”: «Lʼincremento delle attività rese necessario lʼampliamento della borgata verso sud con un sistema di magazzini disposti lungo lʼinsenatura a ridosso dei pantani, opportunamente convertiti in saline.

Di conseguenza Marzamemi divenne un importante centro logistico per lo smistamento e lo stoccaggio non solo del tonno, ma anche dei prodotti agroalimentari provenienti dai feudi vicini». Non a caso, un imprenditore moderno e dallo spiccato senso degli affari come Vincenzo Florio investì per alcune stagioni di pesca anche su questa tonnara ‒ in assoluto la più produttiva tra quelle “di ritorno” ‒ negli anni Quaranta dellʼ800. Un ulteriore salto di qualità si ebbe nel 1855, dopo lʼacquisizione del sito da parte del principe di Villadorata (Corrado Nicolaci Trigona), cui si accompagnò pochi anni dopo anche la grande trasformazione urbana attigua al borgo marinaro: «Nellʼambito delle opere comunali promosse dal Municipio di Pachino si resero necessarie lʼespansione dellʼabitato (1872), la bonifica del pantano nei pressi del borgo (1885), e la realizzazione di una nuova area portuale in sostituzione del vecchio scalo (1885), divenuto inadatto alle manovre e allʼancoraggio delle grosse navi mercantili». I dati disponibili registrano chiaramente i risultati lusinghieri della produttività del sito di pesca che negli anni Ottanta dellʼ800 si attestava su 3.000 quintali. Ciò avrebbe indotto il barone Nicolaci a compiere il salto di qualità, decidendo di impiantare un moderno stabilimento di lavorazione del tonno sottʼolio e ‒ anche in questo caso ‒ in società con un imprenditore ligure, Carlo Muratorio di Diano Marina (Imperia).

In effetti, lʼimpresa nasceva sotto i migliori auspici perché la tonnara di Marzamemi tra fine ʼ800 e i primi del ʼ900 aveva superato ampiamente il livello dei 4.000 quintali di pescato annuale, venendosi a collocare tra le più importanti del Paese. Questa floridissima attività venne infranta durante la Seconda Guerra mondiale a seguito di un bombardamento dellʼaviazione britannica che a giugno del 1943 distrusse parte dello stabilimento. La lenta ripresa postbellica si interruppe nel 1968 con la cessazione di ogni attività: «Parte del complesso della tonnara, tuttavia, è ancora abbandonato e lasciato allʼincuria. Fanno eccezione alcuni corpi di fabbrica recuperati solo negli ultimi anni, fra cui la vecchia loggia, il palazzo del Principe e le casette dei pescatori, che fanno da cornice alla piazza del borgo, un tempo luogo vitale della forza-lavoro e, ora, polo attrattivo del flusso turistico, specie durante la stagione estiva».

Tonnara di Marzamemi (cartolina d'epoca)

Tonnara di Marzamemi (cartolina d’epoca)

Con il sottotitolo “Un complesso produttivo autonomo a margine di Portopalo”, Fazio sintetizza efficacemente una delle caratteristiche principali della tonnara di Capo Passero cui è dedicato lʼultimo capitolo del libro. Come per i precedenti casi il sito di questa tonnara è variato nel tempo; probabilmente «veniva calata nel tratto di costa vicino le saline Morghella», nei pressi di torre Fano, dove già nel medioevo angioino si era formato un insediamento di pescatori. Dopo il terremoto del 1693 il malfaraggio venne ricostruito nellʼinsenatura a nord di Portopalo ‒ prima denominato Terranobile ‒, un piccolo borgo di contadini e pescatori che nel 1840 fu annesso dal comune di Pachino. A inizio Settecento i Rau, originari di Palermo, presero possesso della tonnara e la gestirono fino alla fine del secolo successivo, intervenendo in modo rilevante nellʼampliamento e ammodernamento del complesso architettonico.

Quando a fine ʼ800 il sito sembrava avviato a un declino inarrestabile, lʼentrata in campo di un nuovo proprietario, Pietro Bruno di Belmonte originario di Spaccaforno (Ispica), fu determinante per il rilancio dellʼattività; non soltanto lavori di miglioramento e ristrutturazione del malfaraggio ma, soprattutto, lʼavvio del confezionamento del tonno sottʼolio. «Il 26 giugno 1896 stipulò un accordo con la ditta Nicolò Durante & figlio di Genova, che avrebbe incrementato la produzione nella tonnara di Capo Passero grazie allʼuso dei macchinari forniti dalla società Langen & Wolf (succursale della casa principale di Vienna specializzata nella fabbricazione di “puleggie in ferro, trasmissioni americane sistema Sellers, macchine idrauliche e motori a gas Otto”».

Il breve profilo di Bruno di Belmonte, che fu anche deputato alla Camera tra il 1895 e il 1897, ci consegna non soltanto la figura del ricco possidente di beni e di proprietario della tonnara, ma anche quello dellʼimprenditore moderno che ha investito cospicui capitali per rendere lo stabilimento di Capo Passero allʼavanguardia sul piano industriale. Alla sua morte nel 1921, il passaggio del testimone ai figli si accompagnò ad un rallentamento della produttività della tonnara, cui si tentò di ovviare «utilizzando una tonnarella a supporto della tonnara fissa, ossia un apparecchio di reti supplementari calato in un luogo meno esposto alle correnti». Sul sentiero già tracciato dal genitore, i fratelli Bruno continuarono a stipulare accordi di commercializzazione con le più rinomate ditte nazionali e, in particolare, con la Angelo Parodi fu Bartolomeo di Genova nel 1923. Anche in questo caso il Secondo conflitto mondiale provocò danni ingenti, cui si aggiunsero i saccheggiamenti dei residenti e le requisizioni delle truppe anglo-americane. La ripresa produttiva post-bellica rappresentò una sorta di canto del cigno, perché la nascita del polo petrolchimico da Augusta a Priolo e lʼintensificazione del traffico marittimo, resero infruttuose le stagioni di pesca e portarono alla chiusura dello stabilimento, oggi ridotto «allo stato di rudere».

Il pregevole testo di Federico Fazio offre numerose indicazioni per analoghe ricerche in altri siti di tonnare siciliane e sollecita almeno le seguenti tre considerazioni. In primo luogo, si conferma in modo evidente la forza attrattiva che la pesca del tonno ha esercitato nei secoli, sia in chi prendeva a gabella per alcuni anni le tonnare, per tentare la fortuna, sia nei proprietari o negli esercenti ‒ aristocratici o borghesi che fossero ‒ i quali tra Otto e Novecento non esitarono a confrontarsi con la concorrenza nazionale nella realizzazione di moderni opifici per la lavorazione e conservazione del tonno.

In secondo luogo, in tutti gli esempi trattati ricorre il leitmotiv della ricerca di soci o partner liguri per finalità commerciali o tecnico-industriali nella consapevolezza che per colmare ritardi e arretratezza si dovessero trovare le opportune sinergie. Ciò dimostra, contrariamente ad una vulgata stantia, che la lungimiranza e la mentalità imprenditoriale in Sicilia era più diffusa di quanto si pensi. Infine, con riferimento alle questioni più pertinenti affrontate da uno storico dellʼarchitettura come lʼautore, va apprezzata la pregevole ricostruzione delle vicende costruttive dei malfaraggi, lʼindividuazione dei diversi protagonisti della progettazione e della realizzazione delle strutture di servizio e degli edifici funzionali alla produzione. E, soprattutto, gli va riconosciuto il merito di aver prestato la necessaria attenzione allʼevoluzione del rapporto tra questi complessi architettonici e i rispettivi territori e gli agglomerati urbani di riferimento, tanto nella fase della massima espansione produttiva, quanto nel periodo del declino e dellʼepilogo.

Come noto, nel corso del Novecento sono cessate tutte le tonnare siciliane, non solo quelle della costa orientale; conseguentemente tutte le preesistenze architettoniche sono state soggette o a interventi di riuso più o meno discutibili, o allʼabbandono e al degrado tout court. Il libro di Fazio riaccende i riflettori su una questione fondamentale, che non riguarda solo un ristretto consesso di specialisti, ma le comunità che tali beni hanno ereditato e di cui spesso ignorano o hanno rimosso il grande valore memoriale e identitario. Tre decenni fa uno studioso attento come Massimo Lo Curzio, che aveva avviato una riflessione approfondita sul tema, scriveva: «La variazione di una tonnara non più operativa non è quindi in alcun modo da considerarsi come una semplice trasformazione dʼuso di un bene, perché riguarda una situazione di preciso equilibrio tra elementi diversi che travalica il semplice rapporto tra un bene da tutelare e le condizioni di fruizione» (M. Lo Curzio, LʼArchitettura delle tonnare, EDAS, Messina 1991: 24). Infatti, è proprio questione di equilibrio da ricercare con il contributo delle intelligenze migliori e delle associazioni culturali locali, che nel nostro martoriato Paese hanno spesso condotto battaglie di salvaguardia del patrimonio e formulato proposte di fruizione più che ragionevoli, contro lʼignavia e lʼinettitudine; tertium non datur

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022

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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Tra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano: La rivoluzione di latta. Breve storia della pesca e dell’industria del tonno nella Favignana dei Florio (Torri del vento 2013); L’invasione silenziosa. Storia della Fillossera nella Sicilia dell’800 (Torri del vento 2015); Sicilie del vino nell’800 (Palermo University Press 2019).

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