di Antonello Ciccozzi
Scrivo queste parole per replicare agli interventi suscitati dall’articolo che ho pubblicato sul numero 51 di Dialoghi Mediterranei sul tema dei delitti d’onore, in riferimento al caso della sparizione della giovane Saman Abbas, verosimilmente uccisa dalla famiglia in quello che si delinea come un delitto d’onore ispirato a precetti religioso-tribali di tradizione pakistana (Ciccozzi 2021b). Prendendo spunto da questo caso di cronaca, la tesi che ho sostenuto in quello scritto è così riassumibile: la diversità valoriale di cui sono portatori i migranti non sempre si presenta come un arricchimento, essa può manifestarsi anche nella forma di un’estraneità ostile (verso le persone, i valori, le istituzioni e le norme dei luoghi d’approdo) che rivela un sentimento culturale di rifiuto, disconoscimento, disprezzo verso la società in cui si giunge, e sottende una volontà politica di chiusura etnocentrica da parte dei migranti stessi nei confronti dell’Occidente.
A ciò va aggiunto che, in uno scenario di prevalente polarizzazione tra sinistra immigrazionista e destra sovranista, nel campo della cultura dell’accoglienza le manifestazioni di questa estraneità ostile vengono regolarmente rimosse come assolutamente non pertinenti all’essenza dello straniero; questo a partire da una percezione selettiva condizionata da un bias xenofilo che generalizza l’alterità migratoria nello stereotipo positivo buon-migrante-vittima-risorsa. All’opposto, nel campo della cultura della sicurezza l’estraneità ostile viene esaltata come cifra unica dello straniero, a partire da una percezione selettiva condizionata da un bias xenofobo che generalizza l’alterità nello stereotipo negativo del cattivo-clandestino-carnefice-minaccia.
Gli articoli in risposta al mio testo sono stati otto (Accardi 2021, Aledda 2021, Biuso 2021, Cipriani 2021, Cordova 2021, Nicosia 2021, Pace 2021, Sorce 2021), in una gamma ampia di ambiti disciplinari e di esperienza e autorevolezza degli autori (professori emeriti, professori ordinari, ricercatori, fino a giovani dottorandi o laureati). Alcuni hanno dichiarato consenso e sostanziale apprezzamento per le tesi che ho sostenuto, altri hanno manifestato perplessità o riserve pregiudiziali. Ringraziando gli autori per l’attenzione e il tempo che mi hanno riservato, preciso che, per tenere alto il livello del dibattito e civile lo stile del dialogo ospitato nelle pagine di questa rivista, non tratterò in dettaglio i contenuti dei diversi interventi e mi limiterò a raccogliere e interpretare le critiche ricevute come occasione per chiarire dei malintesi e dei fraintendimenti significativi rispetto a quanto ho espresso, e per precisare ulteriormente alcuni punti e implicazioni del discorso che ho presentato.
Ho notato che le obiezioni che mi vengono rivolte hanno in comune due modalità argomentative. La prima concerne l’uso di dispositivi retorici (metafore, analogie, associazioni) in un finalismo interpretativo orientato a un quadro di percezione selettiva che rimuove il negativo attribuibile alla diversità altermondista migrante. In merito al secondo schema ho constatato che diverse obiezioni che ho ricevuto nei saggi critici che mi sono stati rivolti si basano su una ricorrente alterazione delle mie tesi inquadrabile da un punto di vista semiologico in termini di «decodifica aberrante», ossia come «scarto tra i codici del produttore del testo/messaggio e i codici dell’interprete» (Volli 2006: 127), come un «tradimento delle intenzioni dell’emittente» (Eco 1994: 198). Tale sofisticazione è avvenuta su un piano di logica aristotelica ed è stata messa in atto da tutti gli autori che hanno biasimato la mia analisi: la contestazione è avvenuta per mezzo del fraintendimento o del travisamento dei giudizi particolari che ho espresso, trasformandoli surrettiziamente in giudizi universali. Si tratta di una strategia di ragionamento nota come “argomento fantoccio”, o “argomento dell’uomo di paglia” (straw man argument o straw man fallacy), che consiste nella fallacia logica del confutare un argomento rappresentandolo in maniera distorta (Iacona 2005: 135).
Confondere la critica all’islamismo con l’islamofobia
Nello specifico l’argomento che ho esposto che è stato maggiormente oggetto di una procedura di decodifica aberrante è il giudizio particolare che ho proposto su alcuni usi sociali dell’Islam, inquadrabili in termini di fondamentalismo islamista e di disposizioni politiche orientate alla Sharia. Questo giudizio particolare è stato ricorrentemente adulterato, presentandolo come un giudizio universale di sostanziale avversione all’Islam. Tale malinteso mi stupisce per la sua entità e per la sua ricorrenza, in quanto ho incardinato il mio testo proprio sulla necessità di distinguere l’Islam dall’islamismo, ossia dai suoi usi sociali e politici in termini fondamentalisti. L’ho fatto esplicitando ciò in modo chiaro e ripetuto, spiegando che certi delitti d’onore avvengono in un sincretismo tra una dimensione shariatica e una tribale-tradizionale, e rimandano a una tensione che trova contrarietà anche tra gran parte dei musulmani. In merito ho anche specificato chiaramente che «tutto questo non vuol dire che c’è un nesso di derivazione necessaria tra Sharia e delitti d’onore, ma dobbiamo capire che questi orizzonti culturali intrattengono tra di essi una connessione sfocata e intersezionale che diventa ancora più rilevante proprio dal momento in cui si oppongono all’Occidente».
Non mi sono chiesto e non mi chiedo in un presunto aut-aut binario se l’Islam «c’entri o meno nella determinazione di comportamenti criminosi»; dove, per essere semiologicamente precisi, nella lingua italiana la dicitura “o meno” rimanda a un uso prevalentemente colloquiale e ha il significato di una negazione (https://www.treccani.it/enciclopedia/o-no-o-non-o-meno_(La-grammatica-italiana)/). E non capisco come si possa affermare che vedrei nel «retaggio musulmano» la causa dei delitti d’onore di cui discuto. All’opposto, mi sono domandato in quali casi e in quale misura alcuni reati che presentano il fumus di un condizionamento culturale sono correlabili con alcuni usi sociali dell’Islam, con alcuni modi particolari di incorporare l’Islam (in modalità fondamentaliste, tradizionaliste, islamiste di uso sociale dell’Islam al fine di istituire un orizzonte antropologico culturale individuale e comunitario di operabilità nel valore connesso a una visione politica).
È il caso di ripetere che l’ho fatto e lo faccio nell’idea che si dovrebbe uscire da una semplificazione che non sa trovare percorsi contingenti rispetto alla polarizzazione tra la tentazione generalizzante (“è tutta colpa dell’Islam!”) e le obiezioni di comodo dell’indeterminismo assoluto politically correct (“l’Islam non c’entra nulla!”). L’ho fatto e lo faccio per approdare a un piano di logica in grado di comprendere il continuum e la fuzziness (la sfocatura, la contraddittorietà) insita nelle configurazioni caratteristiche che riguardano i modi particolari un cui, caso per caso, un campo di valori tradizionali – inquadrabile tra la dimensione tribale e quella religiosa – si trasfigura in habitus individuali e valori collettivi. Si tratta di farsi carico della complessità delle singole situazioni, di superare la tentazione di pensare i nessi di causalità culturale in modo binario per comprenderne l’articolazione data “dal perché, dal quanto e dal come” il comportamento individuale è variamente condizionato dal background culturale, in ogni specifica circostanza; questo a partire da una commistione articolata tra elementi ricorrenti e costellazioni locali più o meno inedite. Ho ragionato proprio per decostruire certe semplificazioni binarizzanti che ora mi vedo arbitrariamente attribuite.
Non ho difficoltà a ribadire che non propongo in nessun modo nessi generali tra l’essere musulmani e l’avere un sentimento di estraneità ostile nei confronti dell’Occidente, ma parlo di un nesso particolare che circoscrivo (oltre ad altre categorie extra-religiose) all’essere islamisti, ovvero al fare un uso sociale dell’Islam orientato a una politica di sottomissione del diritto positivo alla Sharia. A partire dal riferimento a Bassam Tibi, ho cercato proprio di evitare l’errore che invece mi è stato attribuito: quello di parlare di Islam al singolare.
La prospettiva che, attraverso il riferimento al contributo di Bassam Tibi (2003), ho delineato è proprio basata sulla comprensione della diversità tra Islam e islamismo. È il caso di specificare che Tibi chiarisce che l’islamismo è una politicizzazione della religione distinta e distinguibile dalla fede nell’Islam; aggiungendo che l’islamismo è incompatibile con la democrazia in quanto si basa su una reinvenzione terroristica dello jihadismo e su una tradizione inventata della Sharia come ordine costituzionale. La cosa più importante è che questo studioso, attraverso una lettura arendtiana, identifica in modo inequivocabile l’islamismo nei termini di un’ideologia totalitaria (Tibi 2012). In uno scenario in cui l’islamismo istituzionalizzato nato dalla deviazione in senso totalitarista delle primavere arabe e l’islamismo jihadista mirano da versanti opposti – quello della strumentalizzazione della rappresentanza democratica e quello della violenza terroristica – al comune obiettivo della conquista del globo, Tibi auspica una riforma islamica in direzione democratica e nel recupero di una vocazione pacifica e all’apertura. Ciò nell’idea che l’europeizzazione dell’Islam sia l’unica maniera per uscire dal rischio di un’islamizzazione dell’Europa (Tibi 2014). È grazie al contributo di questo studioso che possiamo evitare sia l’islamofobia data dalla paranoia dello scontro di civiltà sia l’ingenuità di una islamofilia generalizzata indotta dal dogma della diversità che non farebbe altro che arricchire; la stessa ingenuità che non ci fa capire che l’islamismo è dispotismo, che è una forma attuale di una politica sostanzialmente fascista che usa la religione come mezzo di dominio. Proprio in tal senso è importante non cadere nell’ingenuità xenofila per evitare la paranoia xenofoba.
Di fronte all’islamismo – come di fronte a forme di odio antioccidentale e razzismo antibianco – si tratta di comprendere che, se molte diversità arricchiscono, alcune impoveriscono. E scrivere contro l’islamismo non significa scrivere contro l’Islam e contro i musulmani ma contro un problema di una parte interna all’Islam, che affligge molti musulmani ancora prima che minacciare il mondo intero. Per questo l’islamismo va distinto dall’Islam; e per questo confondere la critica all’islamismo con l’islamofobia – termine che evocato tra le risposte al mio articolo – significa già assumere un posizionamento filo-fondamentalista che impedisce qualsiasi tipo di critica verso l’uso politico dell’Islam, rendendo un grande favore proprio agli islamisti.
Finire in uniforme da conservatore
In merito rilevo che un altro esempio di fallacia logica, data dall’alterazione di un’affermazione particolare manipolata per farla diventare una generalizzazione, riguarda la trasformazione del mio discorso di difesa di alcuni valori occidentali fondamentali in una postura di difesa generalizzata dell’Occidente. Riguardo a questa facilità nell’affibbiare l’etichetta di ‘conservatore’ che mi è stata attribuita in una delle critiche ricevute, direi che si tratta di un cliché – abbastanza comune al galateo della critica postcoloniale – in base a cui, nell’orizzonte morale di questo inesorabilmente binarizzato regime di senso, si comanda essenzialmente che non si può e non si deve difendere nulla dei valori occidentali, pena il passare come difensore assoluto, tradizionalista, conservatore. Non è concesso il minimo scostamento dall’ortodossia che ha intrappolato il progressismo, se non ci si vuole ritrovare con ascritte uniformi di destra. Prima che avvilente nella sua grossolanità, trovo questa posizione rivelatrice della sostanza fascistoide del politically correct, in quanto foriera di un tertium non datur che è la cifra essenziale di ogni dittatura: la modalità totalizzante per cui la divergenza parziale di opinione è tradotta in antitesi, travisata in opposizione polare, in nome di un diktat di allineamento assoluto che non prevede divergenze ma solo ortodossia, servendosi in questo caso della minaccia perpetua della reductio ad hitlerum del disallineamento.
A chi ritiene che la vicenda della povera Saman Abbas ci dovrebbe suggerire che «l’esistenza di istituzioni altre e codificate possa intervenire per regolamentare prassi sociali e perfino vietarle», chiedo se il pluralismo giuridico di questo innesto multiculturalista si possa fermare a un orizzonte shariatico o debba anche contemplare istituti tribali come il karo-kari, per i cui dettagli rimando al saggio che mi viene contestato. Voglio dire che mi pare pericoloso propiziare fittizi sincretismi dati da uno smantellamento unidirezionale delle sole istituzioni occidentali. Uno smantellamento propedeutico ad accogliere istituzioni esotiche alle quali, all’opposto, non si domanda nessun cambiamento, essendo intese come diversità che arricchiscono da preservare nella loro interezza. Insomma, in questo caso il pattern è il seguente: critica, trasformazione, delle istituzioni occidentali e apertura alla Sharia. Un noi aperto, liquefatto accogliente verso un’alterità a cui non si chiede di mutare, ma che può restare chiusa, identitaria, solidamente cristallizzata in un tradizionalismo che non ammette negoziazioni. Aggiungerei che personalmente non escludo che in futuro ci possa essere una (ulteriore) diffusione di sistemi giuridici paralleli in Occidente, o che si possa arrivare a una possibilità, dalle parvenze ora perlopiù ossimoriche, di sincretismi più o meno reali o dissimulati tra diritto positivo e Sharia, ma non credo che questo processo somigli molto alla marcia trionfale che vedo a volte immaginata; e ho vari dubbi sul fatto che uno scenario in cui non si capisce bene se sarà la democrazia a indicare come interpretare il Corano o se sarà la Sharia a delimitare i confini della democrazia si possa tradurre in un arricchimento culturale.
Semmai, sempre nell’idea e nella speranza che si possa recuperare e attualizzare la visione del già citato Bassam Tibi, penso che, se qualcosa di buono potrà venire dall’inevitabile processo di contatto culturale che la storia ci propone, questo dipenderà principalmente dal ruolo e dal peso della parte in qualche modo traducibile come progressista dei musulmani; di quelli in tensione, in contrapposizione rispetto agl’islamisti e alla loro chiusura tradizionalista e etnocentrica; di quelli che intendono l’incontro come reciproco disarmo delle diversità incompatibili e non come unidirezionale richiesta di apertura rivolta solo all’Occidente. Il tutto nell’idea che l’eventualità, di cui si vedono già delle avvisaglie che minacciano ampie capacità di contagio, di un futuro in cui si debba tornare a dover difendere il diritto alla laicità e la laicità del Diritto non sia proprio il massimo della desiderabilità.
Lo dico non senza un certo rammarico in quanto, proprio mentre scrivo queste righe, mi giunge notizia che a Perugia un uomo di religione musulmana è stato assolto dall’accusa di aver minacciato, malmenato, segregato, e costretto al velo integrale la moglie. In merito il giudice ha valutato l’orientamento islamista dell’accusato come attenuante culturale, dando a questo dettaglio una rilevanza dirimente (https://ilmanifesto.it/il-giudice-archivia-per-attenuanti-culturali/). Senza entrare nel merito di un qualche probabile essenzialismo esotizzante che ha indotto il giudice a immaginare un background culturale più radicale di quello che poteva essere ascritto a un uomo di origini marocchine, si tratta di una decisione per molti versi grottescamente xenofila, che insinua un principio di doppiezza giuridica e mette in discussione l’orientamento finora prevalente per cui i principi giudico-costituzionali sono da intendere come sbarramento invalicabile rispetto a consuetudini con essi incompatibili (Cassazione, sent. 45516/2008, 45516/2008). Inutile dire che, in linea di principio, una simile impostazione potrebbe legittimare una serie di condotte violente anche più gravi di queste (già comunque pesanti); e fare della religione o del background culturale esotico (più o meno reale o presunto) uno strumento di esonero normativo, orientato a conferire privilegi di immunità giuridica.
Degna di nota è pure la logica associativa in base alla quale si giudica il mio contributo «pericolosamente affine alla crociata contro l’islamo-gauchisme di attualità in Francia». Anche qui si tende a confondere la critica al radicalismo islamista che ho proposto con una prospettiva più genericamente anti-musulmana, così non mi resta che constatare che questa modalità di decodifica distorta dei miei contenuti è stata variamente messa in atto in tutti gli interventi di dissenso che ho ricevuto. In questo caso però vorrei richiamare un recente testo prontamente derubricato a tabù (AaVv 2018) che ho già menzionato proprio nello scritto oggetto di queste critiche, dove Jonathan Friedman ha spiegato il funzionamento di queste logiche associative, chiarendo che «il politicamente corretto tende a operare per mezzo di classificazioni e catene associative di classificazioni: è come dire che il bene e il male sono pre-definibili tramite una serie di associazioni. Se un intellettuale di sinistra attacca gli studi culturali per il loro gergo e la loro superficialità, è definito come conservatore» (Friedman 2018). Si tratta di un pensiero ossessionato dalla purezza, dalla contaminazione e regolato da una logica in larga parte analoga a quella della magia contagiosa di frazeriana memoria. In quest’orizzonte di senso sostanzialmente primordiale e improntato a una sorta di razzismo epistemico che da anni ha attecchito in ambito scientifico-umanistico, se si proferisce un discorso associabile in qualsiasi modo alle destre si diventa tout-court di destra; per cui per preservare l’integrità conviene muoversi sempre in un terreno di totale ortodossia ed evitare qualsiasi forma di somiglianza con il nemico. Vige così un principio discriminatorio di natura tribale di separazione netta in un sistema di metà che non ammette ibridazioni, sincretismi, meticciato, per cui qualsiasi segno del gruppo nemico è bandito. Anche in questo caso la parte viene confusa con il tutto, il disallineamento circostanziato diventa opposizione polare in nome di un aut-aut binarista e manicheo.
L’Occidente esiste o no? Essenzialismi a corrente alternata
All’opposto di quanto mi è stato attribuito, devo precisare che non ho scritto da nessuna parte, e men che mai suggerito, che l’Occidente sarebbe un soggetto sociale uniforme ed omogeneo. Queste accuse approssimative di essenzialismo rimandano a un ricorrente gioco retorico con cui si vieta di inquadrare un ente, per interdire un discorso su un qualsiasi tema scomodo. Per l’ennesima volta sono di fronte a un argomento fantoccio: mi viene attribuita una semiosi immaginaria per inventare la legittimità della contro argomentazione.
A ben veder questo è uno dei luoghi comuni postcoloniali più à la page, una sorta di dispositivo inverso rispetto all’«essenzialismo strategico» predicato dalla filosofa-guru postcolonial Gayatri Chakravorty Spivak (1987), un’antiessenzialismo selettivo, di comodo, in base al quale le entità fastidiose vengono radicalmente derubricate a costrutti arbitrari. E così l’Occidente non esiste, le opposizioni noi/altri pure. Tuttavia, questo decreto d’inesistenza viene applicato solitamente al bisogno. Infatti vale in merito, in modo tanto implicito quanto rigoroso, un sistema di doppia morale, anch’esso assai comune tra i repertori argomentativi del dogmatismo postcoloniale, che prescrive un funzionamento “a senso unico”: quando si tratta di rappresentare l’alterità subalterna come vittima dello sfruttamento subito dall’Occidente allora il confine noi/altri vale in modo netto in termini di Nord e Sud del mondo, e separa in un muro manicheo i carnefici dalle vittime, in un essenzialismo strategico rigoroso. Viceversa, quando si tratta di rendere conto dell’emancipazione portata dall’Occidente o delle forme di ostilità che gli sono rivolte contro, di questo confine viene postulata l’inessenza. In questo caso l’Occidente smette magicamente di esistere, dissolvendosi nella sua eterogeneità interna per ritrovare la sua essenza solo se deve essere rappresentato in negativo.
Non si tratta di questionare amleticamente sul dilemma se gli enti esistano o meno in modo netto, o di contestare la portata della loro omogeneità/eterogeneità interna per rifiutare d’inquadrarli, di dargli senso, per nasconderli allo sguardo critico. All’opposto si tratta di capire che si accampano fallacie euristiche sia quando si propone una narrativa che occulta differenze reali sia quando se ne propone una che si inventa differenze inesistenti. Ad esempio, dove l’islamismo scava un solco tra credenti e miscredenti, nemici dell’Islam, kuffar (una linea dove finiscono discriminati anche i musulmani liberali), fare finta che questa linea non esiste è un atto omertoso di fiancheggiamento a un totalitarismo emergente. Come scrivevo sempre su Dialoghi Mediterranei, prendendo spunto dalla lezione di Alberto Mario Cirese: «sarebbe bello giungere a un futuro in cui simili opposizioni saranno fenomenicamente dissolte, ma vivere nel noumenico postulato di questa liquefazione propiziata come se fosse già avvenuta è una forma di incoscienza» (Ciccozzi 2021a)
Se postuliamo aprioristicamente che l’opposizione noi/altri non esiste, possiamo finire con l’opacizzare delle differenze reali, mascherandole con una retorica della cultural blindness. Questo avviene, non a caso, se si deve comprendere il senso di azioni come quelle che conducono a fatti dove da anni in Europa delle ragazze vengono uccise dalle famiglie islamiste dopo aver subìto processi sommari, perché apertamente accusate di non essere buone musulmane in quanto desiderose di vivere all’occidentale. Di fronte a una persona caduta nella trappola mortale della famiglia totalmente chiusa nel suo orizzonte culturale del tutto ostile all’Occidente, di fronte a una giovane donna che corre il rischio di superare un confine d’onore netto e pericoloso che la intrappola e paga con la vita questo azzardo, leggo dalle critiche che mi sono state rivolte che, parlando di alterità rispetto all’Occidente, starei usando dei rischiosi «concetti-trappola». Perciò devo precisare che non sto costruendo trappole attraverso un parlare rischioso di opposizioni che mi starei inventando: sto parlando di una vicenda tragica di una ragazza morta ammazzata dalla famiglia, dove c’è chi le opposizioni le riproduce incardinando i propri vissuti su un confine culturale che ritiene sacro, in un’agentività che comanda che la purezza di questo confine vada tutelata nella sua nettezza e invalicabilità da qualsiasi contaminazione con l’Occidente, sentenziando che questo confine debba essere riprodotto e tracciato finanche con il sangue ottenuto dal sacrificio della figlia.
A chi mi biasima evocando un’«antropologia pura» rispondo che a questo punto la mia è un’“antropologia impura”, che rifiuta l’essenzialismo moraleggiante xenofilo che comanda che la diversità dell’altro arricchisce e basta; che rigetta la postura espiatoria secondo cui le colpe dei mali del mondo sono solo e soltanto dell’Occidente. Pratico un’antropologia impura che declina l’ingiunzione disciplinare dello stare pedissequamente nel regime di verità che il paradigma postcoloniale ha implicitamente imposto alle scienze umane in mezzo secolo di egemonia tanto silenziosa quanto pervasiva (come testimoniato d’altra parte anche proprio dall’armamentario terminologico dei giovani che hanno criticato il mio contributo). Lo faccio dal momento in cui ritengo che la critica postcoloniale abbia ecceduto rispetto al merito di aver squarciato il velo su una serie di responsabilità storiche dell’Occidente nei confronti del Sud del mondo, sfociando nel trasformare queste responsabilità ampie ma circostanziate in un senso di colpa generalizzato che fomenta una storiografia espiatoria e manichea. Una storiografia che sussume il Nord del mondo unicamente in una postura sfruttamentista forcludente qualsiasi episodio di emancipazione ascrivibile al progresso, alla tecnologia, alla civiltà; demonizzando questi termini e con essi l’Occidente che ne è portatore. In tal senso penso che il politically correct esista, e non sia altro che il regime di verità scientifico-umanistica comandato dall’egemonia del paradigma postcoloniale.
C’è un dettaglio in questo semplicistico modo di saper e voler intendere gli enti solo inquadrandoli in una logica esclusiva che, in un itinerario interpretativo finalistico interessato a preservare la sacralità di una serie di apriori ermeneutici, ne fa o delle essenze o dei costrutti. Esso rimanda al moto di rovesciamento della vacua pretesa moderna di definire in maniera netta i confini di enti e fenomeni nell’altrettanto vacua pretesa postmoderna di ridurli a un indeterminismo assoluto; un indeterminismo propedeutico a un’etica dell’indifferenza di fronte alla diversità che si manifesta in forme perturbanti. Si tratta di uno sfondo che torna nella vanità di con-fondere i femminicidi occidentali con i delitti d’onore, in nome di una disposizione alla cultural blindness che rimuove il perturbante che si manifesta nell’altro per proiettarlo sul noi a partire da un relativismo semplicistico e di comodo. Qui ritrovo un dogmatismo conformato all’ossequio al politically correct che acceca di fronte alle manifestazioni di realtà che contraddicono il dominio paradigmatico della critica postcoloniale.
Insomma, viene sostanzialmente riproposto il pattern interpretativo cinicamente relativizzante di cui parlavo nel mio articolo, quello che recita che “è un femminicidio come i nostri”. Per me i delitti d’onore di cui discuto non sono femminicidi, non parlo di «femminicidi non occidentali» come ha equivocato qualcuno, non tematizzo sull’opposizione fantoccio tra “femminicidi occidentali” e “femminicidi non occidentali”. Parlo della differenza tra i femminicidi e i delitti d’onore; lo faccio per uno scopo preciso: per rispondere alla diffusa mistificazione mediatica e pseudo-intellettuale che in questi casi comanda l’interpretazione dell’“è un femminicidio come i nostri”. E, all’opposto di quanto mi è stato attribuito, men che mai raffiguro un Sud del mondo in cui «tutti» commetterebbero delitti d’onore «con nonchalance». Al solito, il caso particolare è tradotto arbitrariamente come universale: dire che qualcun altro è problematico viene frainteso come una generalizzazione contro “tutti” gli altri. Ciò che incrina il dogma xenofilo sulla assoluta positività dell’altro viene tradotto in delirio xenofobo generalizzato.
Non ho negato da nessuna parte la matrice culturale dei femminicidi occidentali, ho spiegato il diverso peso del background culturale nell’agire individuale tra i femminicidi occidentali e i delitti d’onore di matrice tribale religiosa come quelli pakistani. Ho chiarito che l’“io malato” di cui parlo si ammala per condizionamenti culturali che sono però in gran parte radicalmente quali-quantitativamente diversi da quelli che informano il “noi obbligato” che commette un delitto d’onore come quelli in questione.
Se rifiutiamo il senso della distinzione tra quell’«io» e quel «noi» ci vietiamo di comprendere che, di solito, se nei femminicidi occidentali c’è un solo colpevole, l’assassino, nei delitti d’onore come quelli pakistani ci sono più colpevoli: c’è l’esecutore o gli esecutori della sentenza di morte e c’è il gruppo che emette tale sentenza a partire da una trama di senso comune che diventa valore e norma. Non possiamo vietarci di comprendere che si tratta di scenari in cui agiscono fattori di condizionamento culturale che rimandano a differenze assai poco commensurabili. Proprio in tal senso, a partire da una mia esperienza di consulenza tecnica in ambito giuridico, ho parlato da tempo della necessità di ragionare in termini di nessi di causalità culturale uscendo dal binarismo con cui abbiamo rovesciato la pretesa proto-culturalista del “è la cultura” nella pretesa indeterminista del “la cultura non c’entra” (Ciccozzi 2019) finendo in tal modo «con l’azzerare la possibilità di comprendere la misura in cui, rispetto a ogni caso particolare, il comportamento individuale può essere in varia misura condizionato dal background culturale del soggetto. E questo condizionamento rimanda a un nesso fuzzy, sfocato, come più o meno sfocato, composito o monolitico può essere il background culturale di riferimento del soggetto. Tutto ciò può essere interpretabile a posteriori e in base a un approccio individuante; per capire, attraverso una descrizione densa dei fatti, quanto, caso per caso, la cultura antropologica conta come sfondo valoriale motivazionale che condiziona l’azione individuale» (Ciccozzi 2021b).
Si tratta di capire che i nessi di causalità culturale non riguardano un semplicistico “on/off” binario ma si manifestano in forma complessa come una gamma graduale e sfocata di condizionamenti. E questo vale anche nel caso che discutevo in quell’articolo. Da un lato c’è chi uccide una donna a partire da un atto volitivo individuale motivato da un delirio di possesso che si alimenta sullo sfondo residuale di una subcultura mascolina tossica del tutto delegittimata a livello ufficiale, giuridico, sempre più demonizzata a livello mediatico, subendo un processo e una condanna per tale atto, in un clima socio-culturale di generale e profonda riprovazione morale. Dall’altro ci sono donne uccise a partire da processi in cui una corte famigliare e un contesto comunitario emettono una sentenza di morte che trova una legittimità ampia e un atteggiamento istituzionale che va dall’omertà al sostegno formale, in un clima socio-culturale generale di prevalente approvazione morale che fa dell’uccisione un sacrificio atto a ristabilire un orizzonte di purezza contaminato da un comportamento giudicato come tabù. In merito nell’articolo che ho scritto ho richiamato il concetto demartiniano di “operabilità nel valore” come segno di distinzione della dimensione culturale da quella psicopatologica. I delitti d’onore sono uccisioni rituali in cui si esprimono valori in gran parte condivisi, e in questo senso sono atti inerenti a una dimensione primariamente culturale. I femminicidi che avvengono oggi in Occidente sono uccisioni pulsionali che attingono da un orizzonte valoriale largamente osteggiato dalla società, e in questo senso sono atti inerenti a una dimensione primariamente psicopatologica.
Viceversa, possiamo accomodarci in facili ma ingannevoli semplificazioni ideologiche, non meno gravi di quelle che separano nettamente ciò che è condiviso. Sono mascheramenti indeterministi e relativizzanti che uniformano nell’indifferenza realtà che invece presentano degli elementi distintivi che andrebbero riconosciuti. Perciò sentenziare seraficamente “è un femminicidio come i nostri!” è un modo per sentirci con la coscienza pulita avendo preservato l’assioma xenofilo della pura bontà dell’altro dal rischio di contaminazione; ma per questo bastano le sentenze televisive di un vignettista engagé: voglio augurarmi che non serva fare percorsi di studi antropologici per arrivare a fermarsi a questo livello.
Retoriche xenofile e percezione selettiva
L’altro stile critico che ha riguardato i contributi di dissenso verso il mio articolo rimanda all’uso di dispositivi retorici come metafore, analogie, associazioni per introdurre dei costrutti emozionali agibili in un finalismo interpretativo orientato a un quadro di percezione selettiva volta a rimuovere il negativo attribuibile alla diversità altermondista. Permane una confusione tra il tutto e la parte, ma in questo caso il dispositivo semiotico è di tipo ideologico; e mi riferisco alla definizione di ‘ideologia’ data da Umberto Eco, sostanzialmente inquadrabile in un atto di selezione di una serie di elementi compatibili con una finalità interpretativa e l’occultamento di altri perturbanti rispetto alla stessa. Per la precisione Eco definisce come ideologiche «tutte quelle forme di propaganda e di persuasione di massa, nonché di asserzioni più o meno ‘filosofiche’ in cui, da premesse probabili che definiscono solo una sezione parziale di un dato campo semantico, si pretende di pervenire a conclusioni da accettare come Vere, coprendo così la natura contraddittoria del Campo Semantico Globale e presentando il proprio punto di vista come l’unico adottabile» (Eco, 1994: 345-346). Metafore, analogie e associazioni sono i dispositivi retorici che meglio si prestano al cherry picking emozionale dato dal ritagliare ideologicamente i contorni di un’enunciazione per presentarla in funzione di uno scenario valoriale di riferimento dato.
In questa strategia retorica si accampa un’analogia sconcertante, sostenendo che la mia affermazione «“non tutto l’Islam è fondamentalista, ma nell’Islam il fondamentalismo è un problema”, corrisponde, nella sua implicita tendenziosità, alla seguente: “Non tutti i siciliani sono mafiosi, ma in Sicilia la mafia è un problema”». In questo caso l’interdizione al giudizio particolare – data dalla modalità di fissazione del ragionamento in un binarismo in cui vige l’aut-aut “o tutto o niente” – porta direttamente al delirio logico, per cui l’unica risposta allo stereotipo “i siciliani sono tutti mafiosi” starebbe nel contro-stereotipo “in Sicilia la mafia non è un problema”. Ciò rivela peraltro come corollario un piano paradossale tanto desolante quanto emblematico: di certo per i mafiosi in Sicilia la mafia non è un problema, come pure per gl’islamisti il fondamentalismo non è un problema nell’Islam. Vorrei sperare che così si intenda forse suggerire inconsciamente un nesso tra mafia e islamismo, un nesso che ha consistenze sanguinarie ben diverse dall’analogia assurda che formalmente propone; ma di fronte a una simile boutade direi che è il caso di riportare le parole di Giovanni Falcone: «credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana […]. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici […]. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere» (Falcone 1991). A queste aggiungo quelle di Pietro Grasso, che inizia il suo libro su Paolo Borsellino precisando che «in Sicilia, e in particolar modo a Palermo, per molti decenni non è esistita solo la legge dello Stato. Ce n’era una parallela, prepotente e feroce, cui molti cittadini hanno obbedito per anni e anni: quella della mafia» (Grasso 2020).
Se da un lato qualcuno degli interlocutori afferma di essere «d’accordo sul fatto che il fondamentalismo islamico sia una forma di moderno fascismo», dall’altro se ne attribuiscono subito le cause e la genesi all’Occidente. Anche qui siamo di fronte a un cliché di derivazione postcoloniale che, in ossequio all’assioma implicito xenofilo di assoluta positività dell’altro, attiva una modalità di percezione selettiva a partire dalla quale si usa l’Occidente come il capro espiatorio in un dispositivo euristico di rimozione-proiezione. Il pattern interpretativo di fondo è sempre lo stesso: “esiste il male? la colpa è nostra!”. Sia chiaro che con questo non voglio sostenere che le politiche estere e coloniali occidentali non abbiano avuto, dal secolo scorso ai giorni nostri, un ruolo nel fomentare la crescita dell’estremismo islamista (Thompson 2020). Ancora una volta si tratta di uscire dalla tentazione di semplificazioni binarie: il punto è che è sbagliato attribuire ciò solo e unicamente all’Occidente, riducendo in tal modo l’islamismo a nient’altro che una reazione difensiva generata dalla nostra aggressione, e rimuovendo così il fatto che le “nostre colpe”, più o meno presunte e tali, non hanno fatto altro che amplificare una disposizione politica di lungo corso e di emergenza attuale all’uso sociale dell’Islam in chiave estremistica presente e attiva in termini di una disposizione aggressiva in cui si manifesta una pulsione imperialistica e colonizzatrice orientata a una volontà di conquista del globo.
In qualche contributo critico è presente un leitmotiv narrativo associativo del neoliberismo come fonte di tutti i mali. Lungi da me difendere il neoliberismo: il punto è che da anni questa parola è diventata un emblema totemico da abbattere, il capro espiatorio, il deus ex machina propinato in ogni convegno con postura paladina in un’associazione elementare con l’Occidente, faticamente pronunciato come segno di appartenenza partigiana e capace di costruire una patria narrativa da usare confort-zone ermeneuticamente comunitaria, come segnale eucaristico che ci indica dove possiamo parlare tra compagni. Se farsi la comunione con la divisa di combattenti contro il neoliberismo ha più di qualche buona ragione, il problema arriva quando si confonde questa causa con tutti i mali del mondo. Ne parlavo proprio nell’articolo su Saman Abbas: siamo arrivati al punto che il rilevare la diversità perturbante dell’altro che si manifesta in forma di estraneità ostile è interdetto da una coercizione indeterminista alla cultural blindness retta da un’implicita doppia morale. Quando l’altro subisce la nostra violenza viene rappresentato come tale, ma se la violenza l’altro la commette verso di noi smette di essere rappresentato nella sua alterità. Se non si vuole passare per sovranisti il fenomeno del negativo altrui va noumenicamente rimosso dalle rappresentazioni dell’alterità migrante. Ciò poiché questo atto di evidenziare il negativo altrui sottenderebbe nient’altro un’attitudine governamentale neoliberale volta a strumentalizzare tali temi per separare i “buoni” cittadini da quelli “cattivi” e inammissibilmente diversi (Gozdecka, Ercan, Kmak 2014). In tal modo si apparecchia un dispositivo di blaming che inibisce dalla possibilità di discussione del negativo che si manifesta in forme eccedenti oltre l’unico negativo ammissibile, quello dato dall’Occidente neoliberista: delitti d’onore, spose bambine, condanne a morte per omosessualità, blasfemia o per apostasia, pedofilia istituzionalizzata e quant’altro non potranno essere più oggetto di critica alcuna. Vale a dire che se vogliamo stare sereni, disciplinarmente comodi, dobbiamo limitarci alla buona pratica di puntare il dito solo contro l’Occidente neoliberista.
La sindrome della Kasbah di Mazara e altre retoriche della rimozione
In uno dei contributi critici si è fatto enfaticamente riferimento alla Kasbah di Mazara del Vallo quale luogo di appagante e pacifica convivenza mediterranea, in una diluizione positiva dei confini tra noi e altri. Direi che questa metafora è interessante dal momento in cui delinea un archetipo di accoglienza perduta e un idealtipo multiculturalista da raggiungere che tracciano una concretizzazione utopistica. Qui la Kasbah di Mazara diventa una sorta di Eden e di Eldorado dell’ospitalità. Siamo di fronte a un topoi di matrice postcoloniale della diversità che arricchisce, e che non fa altro che arricchire. Il mondo promesso da questi frammenti di convivenza pacifica più o meno idealizzata è bellissimo ma adombra il suo lato oscuro. Il punto è che in simili luoghi, fisici e mentali, può finire che ci si vada a rifugiare di fronte alle manifestazioni perturbanti di estraneità ostile; il rischio è che diventino una sorta di nascondiglio ermeneutico in cui recuperiamo serenamente, per intero, senza disturbi di fondo e in tutta la sua purezza, la dogmatica della costitutiva e assoluta bontà dell’altro, scongiurando così la minaccia di contaminazione epistemologica della liturgia del politically correct data dall’alterità migrante che prende forma di estraneità ostile, di fascismo esotico. Questo stringersi in angoli simbolici prima che reali dove l’esperienza dell’altro non è altro che arricchimento, e questo fare di questi luoghi particolari la cifra del mondo in generale, mi pare la quintessenza del rassicurazionismo immigrazionista, inteso come istinto ideologico di rimozione del rischio che può venire dall’altro.
Certamente non si deve finire all’opposto, entro una percezione improntata ad un allarmismo sovranista dove tutto il mondo che eccede da certe configurazioni identitariste immaginate in patrie cristallizzate e omogenee assume le sembianze della casa di Saman, in ossequio al bias che fa dell’altro solo un’incarnazione del negativo. Purtroppo però il mondo non somiglia sempre alla Kasbah di Mazara del Vallo, e illuderci con questa metafora non credo che abbia una valenza propiziatoria di profezia autoadempiente. Penso anzi che la profezia della sineddoche xenofila per cui la diversità arricchisce e basta possa portare all’effetto perverso di autoinficiarsi; ciò in quanto in questo modo non facciamo altro che ignorare dei rischi che, non concettualizzati, non percepiti, diventano sempre più pericolosi proprio a causa di questa rimozione (che proietta tutto il male sull’Occidente «neoliberista», «cannibale», «zombificato», come leggo da uno dei contributi critici che mi sono stati dedicati). All’opposto di luoghi come la Kasbah di Mazara l’Europa e l’Occidente vedono negli ultimi anni crescere le no-go zones che raccontano un rischio di banlieueizzazione, islamizzazione, terzomondizzazione pandemica rispetto a cui credo che il rifugiarsi in arricchimenti immaginari possa fare poco altro oltre al danno di una pericolosa rimozione simbolica di un rischio reale.
Quello che voglio dire in generale sulla questione dell’eventualità dell’estraneità ostile del migrante in tutte le forme con cui si manifesta è che, così come non è un’eccezione rispetto all’umanità, la violenza non è un’eccezione rispetto all’alterità: si combina come continuità con una parte dell’essere altro come pure si oppone come distanza a una parte dell’essere altro. Da un lato ci sono i migranti che portano direttamente violenza; sono una minoranza ma sono fiancheggiati dall’affiliazione numerosa di quelli che si pongono nel luogo di approdo a partire da un rifiuto ad assimilarsi al luogo di approdo sottende la pulsione inversa ad assimilare i residenti ai loro valori, che li fa agire come coloni votati a imporre autoritariamente il loro mondo unidirezionalmente. Il tutto in nome di un contrappasso postcoloniale – dove pretendono che tutto gli sia dovuto quale compensazione per torti subiti – che sottace pulsioni imperialistiche che ci sforziamo di non riconoscere, assorti nel senso di colpa dell’imperialismo che ci viene rinfacciato. Tutto questo forma un orizzonte di estraneità ostile culturalmente connotata, correlata con l’essere migrante, con un suo nucleo violento e un suo orbitale di consenso. Questa diversità non arricchisce, per il suo contenuto; contenuto che prevede anche il modo aggressivo in cui viene portata; chiedendo in fondo, obblighi, costrizioni.
Dall’altro ci sono i migranti che fuggono dalla violenza che subiscono nei loro luoghi di provenienza, a volte anche per causa dell’Occidente, altre a causa del loro mondo. Spesso sono quelli che si pongono in modo aperto, positivo, costruttivo, senza risentimenti o odio verso chi li ospita ma con gratitudine e buona volontà. È questa la premessa perché la loro diversità ci possa arricchire, e non costringere. Loro sono quelli che subiscono sia il peso della presenza dei migranti improntati a una postura di estraneità ostile sia la discriminazione delle destre xenofobe e sovraniste che li confondono con i primi (che a loro volta beneficiano della generalizzazione xenofile delle sinistre immigrazioniste, usandola come velo mimetico).
Ovviamente questo schema non va inteso in un rigido binarismo ma come sguardo che si fa carico di non seppellire una differenza reale e rilevante entro un indeterminismo relativizzante che, accomodandosi nello stereotipo generalizzante positivo del buon-migrante-vittima-risorsa genera lo spazio oppositivo dello stereotipo generalizzante negativo del cattivo-clandestino-carnefice-minaccia. Voglio dire che, più che stare a un gioco in cui si tenta un reciproco annullamento delle ragioni della controparte, bisognerebbe capire che questi stereotipi hanno entrambi un fondo di verità parziale, seppur con pesi differenti rispetto alla generalizzazione con cui si impongono per annullare il dissenso della controparte. Voglio dire che solitamente la diversità che arricchisce è quella che consente la possibilità della varietà (propria e altrui), invece la diversità impoverisce quando costringe all’obbligo dell’identità (propria o altrui).
Quindi non si tratta del fatto che, come si usa dire, non vediamo “l’elefante nella stanza” (modo di dire per indicare l’atto di ignorare un’evidenza ovvia, di rimuovere una verità palese). Non è proprio così: nella stanza ci sono due elefanti, quello della diversità che arricchisce e quello della diversità che impoverisce; la sinistra immigrazionista copre il secondo attraverso l’esaltazione del buon-migrante, la destra sovranista copre il primo attraverso la paranoia per il cattivo-clandestino. Ma, se generalizzare l’altro in termini di estraneità ostile è paranoia, è ingenuo ridurre a paranoia qualsiasi rilevamento di questa circostanza allorché l’altro non si manifesta come diversità che arricchisce.
A partire da questa consapevolezza penso che ci sia qualcosa oltre al posizionamento politically correct dato dal mantenere i paraocchi disciplinari della rimozione per filtrare le manifestazioni di estraneità ostile (mantenendo così intatto lo stereotipo positivo del buon-migrante su cui poggia a sinistra un dualismo posizionale rispetto alle destre). Questo qualcosa è dato dalla possibilità di accogliere la complessità dell’altro in uno sguardo non ideologicamente parzializzante che nell’altro sappia riconoscere e affrontare sia il positivo che il negativo; come tensione da razionalizzare. Preciso questo perché vorrei che si capisse che il riconoscimento dell’eventualità dell’estraneità ostile del migrante è un giudizio particolare che non dovrebbe essere confuso con generalizzazioni xenofobe inerenti a demonizzazioni tout-court dell’alterità, e che rimanda a una necessità progressista primaria. Riprendendo il tema che ho espresso nello scorso contributo su Dialoghi Mediterranei (Ciccozzi 2021c) dico che questa necessità è in ultima analisi la lotta contro il fascismo, intesa come lotta contro tutte le forme in cui il fascismo si manifesta, comprese quindi anche quelle dell’odio antioccidentale, del razzismo antibianco e dell’imperialismo islamista. In tal senso va notato che la rimozione su un piano noumenico-rappresentazionale dell’eventualità dell’estraneità ostile del migrante espone al rischio fenomenico-reale di finire nel dominio di fascismi esotici.
È per questo che penso che sia sbagliato rimuovere simili manifestazioni di estraneità ostile, e proiettarle in un modo o nell’altro sull’unico nemico che la critica postcoloniale concepisce: il noi, l’Occidente. In tal senso affermo che l’eventualità dell’estraneità ostile del migrante non dovrebbe essere generalizzata come costrutto osceno – per rimuoverla nei casi particolari in cui emerge come realtà pericolosa da cui si intravede un dislivello di cultura rischioso – ma venire riconosciuta antropologicamente.
Post scriptum
Al momento della pubblicazione di questo testo è giunta notizia del ritrovamento nel fiume Po di resti ossei probabilmente riconducibili a Saman Abbas, rispetto ai quali si attende conferma attraverso l’esame del DNA. Mi preme in tal senso sottolineare che, ai fini delle argomentazioni qui poste, è in fondo irrilevante se Saman Abbas – per certo scomparsa dopo essere stata accusata dalla famiglia di non essere una buona musulmana – sia stata uccisa o meno. È irrilevante in quanto la vicenda di questa povera diciottenne somiglia, purtroppo, a tante altre che da anni avvengono in Europa e riguardano altre ragazze come lei (e in misura molto minore ragazzi), in una dinamica ricorrente in cui giovani di “seconda generazione” che vogliono essere occidentali vengono variamente perseguitate dalle loro famiglie di migranti. E questa oppressione avviene in nome di un chiuso identitarismo che concepisce solo una configurazione culturale possibile – la loro – e sottende un sentimento di radicale estraneità ostile all’Occidente (ovvero da ciò che essi percepiscono come alterità culturale immorale, da rifiutare e combattere).
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Antonello Ciccozzi, è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si è laureato con una tesi sulla teoria ciresiana dei dislivelli di cultura. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni. Ha svolto ricerche etnografiche nell’Appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti.
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