di Marcello Carlotti
In tanti oggi parlano di un ritorno alla terra senza sapere bene di cosa si tratti, infatti non si può sapere se veramente si vuol fare un determinato mestiere se non lo si pratica almeno per un anno. Tornare alla terra non significa banalmente tornare alle cose semplici, quanto tornare a faticare facendo. E quando fatichiamo davvero, scopriamo la necessità di semplificare per economizzare tempo, risorse ed energie. Questo per fortuna lo si impara in meno di una settimana di lavoro, mentre si verifica il proverbio che la terra è molto in basso (generalmente sotto i piedi) e che per questo merita molto rispetto. Rispettare chi sta più in basso di noi ci insegna l’umiltà. Se siete disposti a chinare davvero la schiena, allora siete sulla strada che discrimina il contadino postmoderno dal fighettino radical-chic, e vi sarà in breve chiaro che l’ecologia non è libertà ma sudore e abnegazione. Il lavoro inizia con lo sfrigolare della caffettiera e il fischio del vento. Fuori il gallo dorme ancora.
Il primo giorno, data la novità, tutto sembra bello e interessante. Alzarsi presto. Fare colazione, prepararsi il panino per metà mattina, vestirsi, mettere in moto la macchina e raggiungere il terreno che, ovviamente, essendo incolto e abbandonato necessiterà per prima cosa di essere ripulito. La prima cosa che si impara è che, essendo questo mestiere molto più complesso e sofisticato di quanto credessimo, rimarremo spesso perplessi e, sorprendentemente, senza un valido maestro non sapremmo da dove iniziare. Il mio maestro ha 80 anni, si chiama Giuseppe ed è tranquillo come il tronco di una quercia. Tutto quello che fa, lo fa con la cura e la pazienza tipiche di chi sa quel che fa e soprattutto di chi sa che sarà molto dura. Dopo una settimana di lavoro, ho i calli alle mani ma finalmente l’ansia mi ha abbandonato e con essa lo stress e il reflusso. Ho scoperto che bere un goccio di vino nostrano nella pausa di mezzo mattino assieme al pane e alla mortadella mi ricarica le batterie molto più di ogni intruglio omeopatico. Ho capito che il sangue, quando circola per davvero, fa rumore e genera benessere.
Le prime parole con cui familiarizzo sono cisto e salsa pariglia. Il primo è un arbusto infestante che si annida ovunque, mette radici tenaci, è dotato di un legno elastico ed è arduo da estirpare. La seconda non è una bevanda texana, ma un rovo dotato di spine fastidiose e dolorose, che, come i politici, non serve a nulla ma cresce ovunque con la tendenza ad arrampicarsi sui tronchi sani. Giuseppe non ha mezze misure e mentre mi passa la roncola mi dice che quella razza va sterminata e io, non senza un’intima soddisfazione, obbedisco. La roncola, contrariamente a quanto pensassi, non è facile da usarsi. È uno strumento di precisione molto bilanciato. Come tutto nella vita del contadino, anche la roncola ci mostra che la forza, la concentrazione e le energie per eseguire il lavoro devono essere giuste e appropriate. Né poche e neppure troppe. Nel primo caso ripeti l’operazione inutilmente, e la salsa pariglia sembra ridere di te, piegandosi e storcendosi senza rompersi né mollare la presa. Nel secondo la distruggi ma rischi anche di mozzarti una gamba da solo. La distruzione della salsa pariglia dev’essere invece chirurgica. Si deve capire dove colpire, si deve imparare a prendere la mira e poi tirare un stoccata secca, aiutando l’avambraccio con un colpo netto di polso.
Diverso il caso del cisto. Anzitutto, si comprende che le cesoia da sole non bastano, e che la roncola non taglia il legno. Servono le forbicione da giardiniere chiamate troncarami, con le braccia lunghissime e la lama corta, per sfruttare ogni grammo di pressione. Tuttavia, così come accade con le cattive abitudini e i baroni all’università, il cisto non va potato, e neppure raso al suolo. La cura prevede di andare in profondità. Devi sradicarlo del tutto, mi dice Giuseppe coi suoi modi laconici ma chiari, prima di passarmi il picco. Le estremità del picco sono eterogenee. Da una parte è una sorta di pungolo che penetra, dall’altra una mano che smuove. Dunque, prima si penetra la terra, poi la si smuove e infine si afferra la pianta del cisto e la si tira via, curando che non rimanga nulla del terreno, altrimenti ricresce e te la ritrovi esattamente dove pensavi di non rivederla mai più.
Dopo due settimane, mi sono familiarizzato anche con un terzo nome: l’erba di santa Maria, che cresce stagionalmente ma con una velocità innaturale. Si diffonde e per eliminarla del tutto bisogna scassare il terreno con un trattore da almeno 150 cavalli e un aratro che scende ad un metro di profondità e rivolta il terreno come fosse purè granuloso. Ovviamente io non so guidare un trattore.
La campagna è un’ottima filosofia, mi dico da solo nelle pause che consumo in silenzio all’ombra di Giuseppe, che mi offre il suo vino, rosso, biologico e corposo. Lo sorseggiamo meditando mentre mastichiamo lenti il pane. In quella mezz’ora che ci prendiamo verso le dieci, dato che non sono ancora un contadino, ho la brutta abitudine di riflettere inutilmente. Quel che penso, fondamentalmente, sono sempre e solo due o tre concetti. Penso, ad esempio, che la terra, a differenza degli uomini ma anche del mare, non ruba mai, non imbroglia e non si fa prendere in giro. Soprattutto, alla terra non puoi rubare, perché prima o poi ti presenta il conto. La terra, invece, è onesta, se ne sta lì, si fa fare di tutto ma ti restituisce qualcosa solo se non sbagli. Se tu fai quel che devi, lei si ricorda e, ammesso non accada un qualche imprevisto, al momento opportuno ti darà una ricompensa, che in verità non è mai eccessiva, perché la terra non regala mai nulla. Tu puoi ingannare un altro uomo, puoi ingannare anche un animale, e di fatto tutti provano sempre ad ingannare tutti, ma non puoi ingannare la terra, perché è peggio che mentire a se stessi. La terra, insomma, chiude quel famoso divario tra ciò che è e ciò che pensiamo che sia. Nel rapporto con la terra noi possiamo solo essere. Tuttavia, con la terra possiamo aspirare a migliorarci e a crescere, se comprendiamo che migliorarci e crescere non significano arricchirci.
Fare il contadino ti permette di coniugare fantasia e pratica, soprattutto ti consente di vedere sotto una luce totalmente nuova una serie di cose che ti parevano scontate. Soprattutto, ti fa scoprire che i problemi, se ci sono, sono davvero problemi, e in quanto tali puoi escogitare delle soluzioni creative. Mentre il resto delle normali preoccupazioni rimane quel che è: fumo che ci intossica la mente. Sentire i muscoli che cominciano a sprizzare vita, affondare il picco, dissodare con la zappa, ammucchiare col rastrello, riempire una carriola con la pala e scegliere il posto giusto dove depositare la terra in eccesso, sono tutte operazioni che si considerano facili e noiose solo se le si approccia in teoria. Abbiamo a disposizione 4 ettari, ma Giuseppe ha stabilito che faremo un orto di soli 500 metri quadri. Quando dico «così piccolo!?» Giuseppe ride sotto i baffi, e mi offre un bicchiere di vino. Anzitutto bisogna pareggiare il più possibile i dislivelli, mi dice, ma prima di qualunque altra cosa bisogna recintare il tutto per evitare che i cinghiali, scavando con il loro muso, distruggano nottetempo il nostro lavoro. Recintare significa fare tanto lavoro, e in effetti un rettangolo di 500 metri quadri ha due lati da 25, e due da 20, per un totale di 90 metri. Se non si vuole recintare costruendo un muretto a secco di pietre (che è tanto bello quanto complesso e arduo da tirar su), allora ogni 5 metri bisogna fissare un palo di cemento alto oltre due metri, del peso superiore agli 80 kg, scavare un fosso di oltre 50 cm, farci cadere dentro il palo, bloccarlo con delle pietre, far scivolare dentro della terra argillosa e, con una mazza, battere la terra in modo che il palo non balli. È un’operazione che, da soli, è praticamente impossibile realizzare.
Per questo la campagna ci obbliga alla cooperazione. Dopo aver ripetuto l’operazione per 17 volte (dato che è un rettangolo il primo palo è anche l’ultimo) si passa a creare una traccia profonda circa 5 cm perimetrale all’intero rettangolo. In questa traccia si tenderà il filo spinato, che serve a scoraggiare ogni velleità da parte dei cinghiali di scavare per penetrare all’interno dell’orto. Il passaggio successivo è quello di posare la rete metallica, le cui maglie devono essere medie. Si prende, pertanto, un rotolo di rete metallica sufficientemente lungo (e dunque particolarmente pesante) e si procede srotolando e fissando la rete sia ai 17 pali, sia al filo spinato sottostante. Per realizzare queste operazioni, specie per quanto concerne la manipolazione del filo spinato, è fondamentale l’uso di guanti spessi, pinza e tenaglie. Quando si è terminato con i novanta metri di rete, è necessario rinterrare il filo spinato e battere la terra soprastante, in modo che la rete risulti tesa sia verso i pali di cemento, sia verso il basso, per scoraggiare, qualora fosse necessario, animali di taglia più grossa dei cinghiali quali mucche e asini (un ulteriore strumento di dissuasione è dato dal creare un contatto con la rete metallica e una batteria di una macchina, ma questo è un sistema da usarsi solo raramente, ricordandosi di scollegare il contatto prima di aprire la porta).
Rimane, infine, da realizzare la porta di accesso al nostro orto. Per questo ci occorrono delle assi di legno da cantiere, un martello e dei chiodi. Si costruisce un rettangolo largo il necessario ed alto 1,5 mt. come generalmente è alta la rete. Il rettangolo è poi di norma rinforzato da due assi diagonali. Una volta realizzata questa struttura, la si fissa con chiodi e fil di ferro alla rete con cui è cinto l’orto, nel punto nel quale abbiamo intenzione di realizzare il passaggio. Nel portare a compimento questa operazione dobbiamo tener conto di quanto è largo ciò che abbiamo intenzione di far entrare nell’orto e se il lato del rettangolo nel quale pratichiamo la porta di accesso è quello più facilmente raggiungibile da mezzi su ruote quali: carriola, motocoltivatore, etc.
Normalmente, iniziando la mattina presto e con del bel tempo, queste operazioni richiedono un’intera giornata di lavoro silenzioso e concentrato, al termine del quale le mani del contadino postmoderno saranno particolarmente indolenzite, le dita gonfie al punto da non potersi agevolmente chiudere a pugno, per non dire del fatto che, quasi sicuramente, i pantaloni saranno stati strappati in più punti dal filo spinato che vi sarete ostinati a voler maneggiare senza aver la più pallida idea di quanto sia micidiale provare a tenderlo attorno ai 17 pilastrini di cemento. Per contro, Giuseppe, nonostante i suoi 80 anni, è fresco come una rosa e potrebbe andare a ballare alla festa del paese. Eppure, andando a letto, il contadino postmoderno sarà colto da una straniante e nuova sensazione: quella di essere riuscito a fare qualcosa di veramente utile.
Non esiste nessun contenitore migliore, nessun interfaccia più efficace per sperimentare e sentire del corpo umano. Per quanto la tecnologia dei materiali e le scienze informatiche lavorino alacremente, per quanto si sfornino tutti i giorni nuovi strumenti, nuovi tablet, nuovi computer e nuovi sistemi di network, nessuno di essi possiede l’efficacia sensibile e la perizia computazionale del nostro corpo e del nostro cervello.
Insomma, non ci possiamo mettere nei panni di un contadino senza essere contadini, o, nel mio caso, non posso provare a diventare un contadino senza diventarlo per davvero. E quando lavori in questa direzione, quando cominci a fare cose col tuo corpo, con le tue mani e con la tua intelligenza, non è che smetti di essere un antropologo per diventare un contadino. Diventi progressivamente un antropologo che diventa un contadino. Sembra un gioco di parole, ma non lo è.
Se i primi giorni, nel prendere un picco, una zappa o una pala ero impacciato e non riuscivo a coordinare lo sforzo, le energie, la respirazione e l’obiettivo da raggiungere, ora, dopo un paio di settimane, oltre ad essermi indurito le mani, oltre ad aver riscoperto di avere dei muscoli vivi e pulsanti distribuiti su tutto il corpo, non solo comincio a pensare in termini proiettivi, ma quando prendo uno strumento, in modo automatico, il mio corpo si dispone all’azione, calcola le forze e produce uno sforzo appropriato.
Con Giuseppe abbiamo dissodato il terreno per l’orto accatastando una tale quantità di pietre che, in alcuni momenti, ho pensato mi sarei sentito impartire l’ordine di costruire un nuraghe. Dato che ci troviamo in Gallura e che il terreno è particolarmente basico a causa della natura rocciosa e dell’orografia granitica, prima di pareggiarlo lo abbiamo disseminato di calce agricola, di letame e della cenere ottenuta bruciando la legna ricavata disboscando alcune macchie arbustive e una minima parte del sottobosco di querce, ulivi e sughere disseminati nei quattro ettari a disposizione. Meglio tenere pulito per l’estate, quando potrebbero partire dei veri incendi, mi dice Giuseppe mostrandomi come si accende un fuoco di pulizia e come lo si tiene sotto controllo. Per ripristinare il corretto pH del terreno del nostro orto – il pH ideale è 6,5 – bisogna stare molto attenti e dosare con perizia gli interventi. Un terreno è composto normalmente di: argilla; sabbia e ghiaia; humus; calcare; microflora e macrofauna; azoto; fosforo; potassio; ferro; magnesio; boro; acqua; aria; e anidride carbonica.
Il compito successivo è quello di gettare nel terreno del nostro futuro orto il maggior numero possibile di lombrichi e di interrarli dolcemente di modo che possano contribuire alla fertilità del suolo. Un terreno basico e carente di calcio, mi dice Giuseppe, è inadatto alle colture che ci accingiamo a seminare e piantare. Per dirne una, i pomodori coltivati su un simile terreno patiscono di marciume apicale, ovvero sono perfetti per metà e marci nell’estremità più distante dalla pianta. Letteralmente marci, sottolinea Giuseppe mentre io dissemino il suolo di lombrichi.
Dato che comunque rimango pur sempre un antropologo, per quanto mi sforzi di diventare un contadino postmoderno a tutti gli effetti, mi son comprato un libro scritto da un giapponese, Masanobu Fukuoka, che spiega un metodo naturale e naturalistico per coltivare il terreno. Così propongo al mio maestro di sperimentare quelle tecniche in un pezzo del nostro orto. Mentre avanzo la mia proposta e mi preparo a spiegare le teorie di Fukuoka per realizzare un orto sinergico, Giuseppe mi ferma e mi dice che ci deve pensare e, ovviamente, nulla aiuta la riflessione meglio di un buon bicchiere di vino nostrano. Specie se dobbiamo riflettere sulle teorie agricole di un giapponese in mezzo alla terra degli stazzi galluresi.
Al rientro verso casa, colgo l’occasione per raccontare a Giuseppe delle idee di Masanobu Fukuoka, il rivoluzionario del filo di paglia. Gli dico che Fukuoka era figlio di agricoltori e che, dopo alcuni anni vissuti da ricercatore universitario, esperto di patologie delle piante e rinomato microbiologo del suolo, aveva deciso di abbandonare la carriera accademica per tornare alla fattoria di famiglia e coltivare mandarini. La ragione alla base di questa scelta, dico a Giuseppe, era da ricercarsi nei dubbi sempre più forti che Fukuoka nutriva circa i preconcetti della scienza agricola. Fukuoka, infatti, contro i principi che regolano la concezione intensiva dello sfruttamento agricolo della terra, aveva cominciato a teorizzare la possibilità di un’agricoltura biologica ed ecocompatibile, il cui risultato doveva essere quello di minimizzare quanto più possibile gli interventi dell’uomo. L’agricoltore, secondo Fukuoka, dovrebbe limitarsi ad accompagnare un processo naturale, e per fare ciò dovrebbe osservare la natura (che in sé è sempre rigogliosa e fertile), comprenderla e abbandonare le tecniche agricole, sia tradizionali sia moderne, perché tanto le une quanto le altre sfruttano il terreno impoverendolo. A Giuseppe, tuttavia, questa storia che l’agricoltura possa incentrarsi sul taoismo e soprattutto sulla filosofia del “non fare”, non torna, non lo convince, mi dice. Il Taoismo, insisto, è una filosofia che sostiene che tutto, nell’universo, avviene spontaneamente senza un perché, e che se accettiamo questo principio allora il miglior modo di agire è proprio la non azione, lasciando campo libero al meccanismo di autoregolazione che può manifestarsi soltanto se non gli si fa violenza. Tuttavia, se questo è vero in generale, allora, come dice Fukuoka sarà vero anche per quel che riguarda l’agricoltura, la quale, nella sostanza, deve obbedire anch’essa a orologi interni ed esterni, atmosferici, e il cui vero motore è la natura.
E come funziona questo taoismo? mi chiede Giuseppe dopo un paio di minuti di pensoso silenzio. Voglio dire, secondo questo giapponese, non dovremmo piantare nulla, giusto? Domattina potremmo starcene tranquillamente a dormire, no? Sai quanti taoisti conosco allora qui in paese? conclude Giuseppe, uscendo dalla macchina. In effetti, non è che uno non debba fare proprio nulla, gli dico raggiungendolo, anzi, c’è comunque un sacco di lavoro da fare per riportare la terra alle sue condizioni naturali. Il terreno non viene arato e la germinazione avviene direttamente in superficie, se necessario avendo preventivamente mescolato i semi con argilla e fertilizzante. Se usi l’argilla fertilizzante, dico mentre scarichiamo la legna per il fuoco, puoi ridurre il numero di semi necessari. Nel terreno intatto, dove idealmente sono state fatte crescere piante poco invadenti che fissano l’azoto, come ad esempio il trifoglio, piante cioè che trattengono il terreno e impediscono lo sviluppo di infestanti, viene coltivata simultaneamente la coltivazione voluta. Animali antagonisti vengono introdotti per combattere infestazioni tipo le anatre per combattere le lumache, le coccinelle e le rane per afidi e formiche. Il terreno poi deve rimanere sempre coperto, riducendo così l’impoverimento per erosione superficiale, e la parte aerea delle piante annuali, dopo il raccolto, deve essere utilizzata per una pacciamatura. Anche la mancanza di aratura, o comunque di aerazione artificiale del terreno, riduce la necessità di concimazione, in quanto i batteri che fissano l’azoto nel terreno sono anaerobi.
Giuseppe mi guarda come se stessi bestemmiando in chiesa, ma io non demordo e continuo. Il metodo di coltivazione di Fukuoka, che si realizza essenzialmente su piccola scala, è particolarmente adatto a piccoli possedimenti, avvalendosi più dell’attenzione al dettaglio che del ricorso al lavoro intenso, richiedendo comunque esperienza e una notevole abilità. Il tempo totale di lavoro viene notevolmente ridotto, fino all’80% rispetto ad altri metodi. E poi è stato fatto molto per adattare il suo metodo alle condizioni europee e, tra i contributi, va ricordato quello del coltivatore francese Marc Bonfils, gli dico nella speranza di incuriosirlo. Secondo le affermazioni dello stesso Fukuoka, il suo metodo di coltivazione ha prodotto in Giappone rendite per ettaro simili a quelle medie ottenute con tecniche che si avvalgono della chimica. Giuseppe, concludo, sembra fatto a posta per noi. Ma Giuseppe non è della stessa opinione. Non esiste agricoltura senza aratro, sentenzia mentre carica la legna dentro la stufa.
Dopo la cena, mentre ci beviamo un meritato bicchiere di acquavite nostrana, tuttavia, quest’uomo di 80 anni mi stupisce e mi dice che la vita dell’uomo, durante tutta la sua lunga storia, è caratterizzata da esperimenti, e che non aprirsi al nuovo è andare contro natura, e che forse Fukuoka non ha tutti i torti con questa cosa del taoismo che asseconda la natura. Faremo così, conclude tra un sorso e l’altro, facciamo metà orto alla gallurese, e metà alla giapponese. Sono ancora senza parole, quando Giuseppe, con un mezzo ghigno, mi guarda e sibila che lui però le cose che gli piacciono le metterà ovviamente nella sua metà. Ma intanto domani ho il permesso di tirar su tre bancali nel nostro terreno recintato, e di ricoprirli di paglia. Passerò tutta la notte a studiare cosa metterci dentro, perché Fukuoka, osservando la natura, ha scoperto che le piante sono come gli esseri umani, ci sono piante che sentono simpatia reciproca e altre che non possono proprio stare vicine o finiscono per rubarsi il cibo a vicenda.
Mentre Giuseppe zappetta i suoi filari tradizionali predisponendoli alla monocoltura di patate, peperoni, pomodori, zucche, cetrioli, zucchine, melanzane, angurie e meloni, io, nonostante la temperatura polare e il taoismo, sto sudando e sbuffando come un vecchio locomotore a vapore in salita. Giuseppe, ogni tanto, si ferma e mi osserva: armato di picco, zappa e vanga sto tirando su, con parecchia fatica, i bancali. In buona sostanza, Fukuoka, accortosi che finché sta sotto i nostri piedi la terra sta davvero molto in basso ed è arduo raggiungerla, ha pensato che nulla ci vieta di coltivare le cose sollevando dei bancali di terra di circa 40 cm di altezza e di circa un metro e venti di larghezza, lunghezza e forma a piacere. Alla faccia dell’assecondare la natura, mi dice Giuseppe tra una pausa e l’altra, appoggiandosi alla sua zappa. Ho pensato di tirar su tre bancali lunghi circa dieci metri, ma, come sempre, una cosa è pensare di fare, un’altra è farla. Disegnare lo schema su un foglio bianco è facilissimo, quanto a metterlo in pratica, beh, lasciamo perdere.
Mentre io sono ancora all’inizio del mio primo bancale, e mi consolo pensando che per fortuna i bancali li si fa una volta sola e che comunque alla fine del lavoro avrò tonificato tutti i miei muscoli, Giuseppe si gode il suo ottimo bicchiere di vino nostrano e azzanna il suo panino con la lentezza di un monaco tibetano. Il mio bancale non ne vuole sapere di rispettare le misure che avevo prestabilito in nottata, quelle cioè contenute nella bibbia di Fukuoka. Il mio metodo di procedere, in verità, è proprio tipico di chi ha passato la vita sui libri, ai margini della vita vera. La mattina presto, in una rivendita di materiali edili, mi sono procurato 4 paletti di ferro e del nastro rosso e bianco. Con i 4 paletti ho misurato 10 metri di lungo, per 1,20 di largo e ho delimitato il perimetro con il nastro rosso e bianco. Giuseppe, ridendo divertito, mi ha detto di aver visto tanto nastro solo quando un carabiniere maldestro aveva cercato di delimitare la zona dove uno come me aveva rovesciato un trattore.
Mi sa proprio, mi dico mentre ascolto le salaci battute del mio maestro, che vuole farmi una guerra psicologica per vedere se mi scoraggio o se resisto. Ma io sono un mulo! Comincio a picconare e poi zappare la terra, seguendo al dettaglio il mio piano per la realizzazione del bancale. Infine, con la pala, getto la terra entro il rettangolo che ho tanto pedantemente perimetrato. Quando, ormai esausto, finisco la gettata della terra, prendo il metro per verificare di aver rispettato l’altezza del bancale, 40 cm, e scopro di aver fatto un piccolo errore: è alto circa il doppio!
Giuseppe, intanto, è passato ad interrare le sue patate nel suo primo filare, e dopo averle coperte, smuove ancora un pochino la terra sovrastante e poi la monda delle pietre col rastrello. Durante tutta la mattina, e senza essermi fermato neppure per il solito spuntino, io sono a malapena riuscito a terminare il primo bancale, mentre Giuseppe ha finito tutto il suo lavoro e si sta dedicando alla ricerca degli asparagi. È ormai ora di tornare a casa per sistemare la legna, e, contrariamente alla tabella di marcia che avevo stabilito, non sono riuscito a fare praticamente nulla. Altro che seminare, o piantare in modo sinergico!
Mentre saliamo in macchina, sul volto del mio maestro è dipinto un sorriso leonardesco, so che mi sta per dire qualcosa, mi preparo, e invece nulla, Giuseppe non fiata, semplicemente si rimira il suo bel mazzo di asparagi freschi e selvaggi, e soppesa l’ortica con cui pregusta di farsi un’ottima frittata nostrana. Rientriamo a casa, sistemiamo la legna, carichiamo la stufa, ci mettiamo ai fornelli e, dopo aver apparecchiato la tavola, dopo aver bevuto un buon bicchiere di rosso autoprodotto, ci predisponiamo ad azzannare la frittata di ortiche.
Proprio mentre sto per addentare il mio primo boccone, Giuseppe mi fa: certo che allora è proprio vero anche in Giappone quel detto che il far nulla stanca da morire, no? La costruzione dei tre bancali mi prende una settimana piena di lavoro, durante la quale faccio solo questo: piccono la terra, la zappo e, con la pala, la getto nello spazio delimitato da pali e nastro. Nel frattempo, Giuseppe fa i lavoretti di fino, tipo strappare erbacce, concimare con letame di capra, gallina e cavallo, occuparsi della sua vigna zappettando i filari e scalzando la terra alla base delle sue viti, giusto per mettere fuori un pezzetto di radice. Nei momenti in cui fa pausa (cosa che io, da buon contadino postmoderno, non riesco più a fare), Giuseppe si porta il panino e il vino vicino al cantiere aperto dei miei bancali e, dopo avermi ammonito che non fa bene lavorare e basta come un somaro, mi spiega che esistono 5 tipologie di potatura delle viti: 1) ad alberello; 2) alla Guyot; 3) a cordone orizzontale speronato; 4) con cortina centrale; 5) alla Sylvoz, Casarsa, e che lui ha scelto il sistema a cordone orizzontale speronato. Quando finiremo qui, mi dice usando il plurale anche se lui ha già finito da un paio di giorni, mi insegnerà qualcosa della potatura.
Dopo aver gettato l’ultima palata di terra sul bancale, rimango incredulo: mi giro in modo che il mio sguardo abbracci tutto quel sudore e quello sforzo, e provo una strana sensazione. Per un verso, sono conscio di aver fatto un lavoro immenso, soprattutto per me che non avevo mai usato picco, pala e zappa. E mi sento grande e forte come non mi ero mai sentito prima. Per l’altro, mi dico che un piccolo escavatore avrebbe fatto quel lavoro in una o due ore al massimo. E mi sento piccolo e fragile pensando a quanto incoscientemente grandi ci fanno sentire le macchine. Il risultato finale è che sono felice. Per festeggiare questa emozione con me, Giuseppe dice che ci dobbiamo bere una buona acquavite nostrana fatta da un suo amico pastore. Riempie due bicchieri, e buttiamo giù. Sarà che sono le due passate e che sono a stomaco vuoto, ma sento l’arsura dell’alcol e gli afrori di viti e terra scendere bellicosi lungo l’esofago e scaldarmi tutto con un vero brivido caldo.
Domani dovrò pacciamare, e ho deciso che in un bancale farò uno strano esperimento postmoderno: pacciamerò con paglia e alghe. Ovviamente, a Giuseppe questa cosa che uno se ne vada in spiaggia a prendere delle alghe secche da mettere sulla terra, mescolate alla paglia, per tenere al caldo e all’umido il bancale d’inverno e per tenerlo al fresco d’estate, sembra, più che strana, assurda, ma oramai mi ha accettato per quel che sono e si limita a non battere ciglio.
Mentre torniamo verso casa, mi racconta che, da bambino, in famiglia avevano le api e che gli sarebbe sempre piaciuto tornare ad averne: del resto, senza api non ci sarebbe vita sul pianeta, mi dice. Mentre il fuco scricchiola di legna verde e Giuseppe, un occhio chiuso e l’altro aperto, guarda la tv per capire se questa versione del commissario giovane vale quella del commissario vecchio, io, essendo un aspirante contadino postmoderno, libro sul leggio e computer acceso, ho realizzato tre disegni del bancale e, seguendo le istruzioni del nostro amico giapponese, mi accingo a pianificare la distribuzione delle piante e la semina. Giuseppe ha già incamerato, durante la mattina, la prima vittoria del metodo gallurese su quello giapponese. Entrando nell’orto dopo di me, che procedevo schiacciato dal peso del sacco pieno di alghe e paglia, mi ha fatto notare, richiamando la mia affaticata attenzione con un fischio, che nel suo orticello tipico e non sinergico, i semini della lattuga e dell’indivia cominciavano a germogliare, le foglioline minuscole hanno bucato con prepotenza la terra e hanno iniziato la fotosintesi clorofilliana, respirando l’anidride carbonica e restituendo con orgoglio l’ossigeno. «Ecco la vera ecologia!», mi ha detto Giuseppe guardando con malcelata diffidenza i miei bancali spogli.
La mattina mi è andata via in operazioni di pacciamatura. Ho tenuto a bagno le alghe per due giorni, per lavarle dall’eccesso di sale, e poi, dopo averle fatte sommariamente asciugare scolandole, le ho mischiate alla paglia e distribuite lungo tutta la superficie dei bancali. Prima, però, avevo irrigato i bancali con il macerato di ortica e di equiseto. Per ogni chilogrammo di ortica e di equiseto freschi, occorrono dieci litri di acqua, in un rapporto uno a dieci, per quanto concerne l’irrigazione della nuda terra; in un rapporto uno a cento se si vuole, invece, procedere a rinforzare radici e fusto delle piante, ricorrendo, ovviamente, ad un nebulizzatore. Tanto l’ortica, quanto l’equiseto, si lasciano a macerare in acqua limpida per dieci giorni, coprendo con una rete il secchio, affinché nessun animale, spinto dall’odore, ci finisca dentro: il preparato è letale e spesso, ove non lo si protegga, al momento di procedere al filtraggio, capita di rinvenire dei cadaveri di curiosi topolini di campagna o di lucertole che vanificano il processo. Dovendo irrigare tre bancali, ho preparato trenta litri di macerato di ortica e altri trenta di macerato di equiseto, e questa mattina, prima di pacciamare, ho provveduto a bagnare i bancali con questi preparati.
Ogni tanto, mentre le mie alchimie si dipanavano non senza goffaggini, Giuseppe si fermava, mi guardava e poi, silenziosamente, scuoteva la testa, pensando che anche questo gli è stato dato in sorte di vedere. «Era meglio il commissario anziano» mi dice Giuseppe quando il film è finito e il caso risolto. «Voi giovani avete un grosso dono, il tempo, ma a differenza nostra vi ricordate troppo di rado che il tempo, come ogni cosa, prima o poi finisce. Nulla cresce all’infinito, tranne l’anima e l’amore» sentenzia il mio maestro. «E il sapere!» chioso io. Giuseppe mi guarda come se avessi scoreggiato al primo appuntamento, e mi fulmina «Il sapere? Quale sapere è possibile senza amore e senza anima? Quello che vediamo tutti i giorni portarsi via un pezzetto di mondo?». Bastonato come un cane in chiesa, mi taccio e torno al mio disegno ed al mio lavoro di progettazione dei bancali. Ai margini estremi dei bancali è necessario mettere della menta, dato che la menta, recita il libro di Fukuoka, è un portentoso antiparassitario: tiene lontane le formiche! Il bancale va diviso in tre zone: i lati lunghi, i due lati corti e il centro. Ogni posizione richiama una tipologia di pianta, ogni pianta ha delle piante amiche, che vuole vicino, e delle piante antagoniste. Ad esempio, i pomodori non possono stare affianco ai cetrioli, ai fagioli, ai finocchi, alle patate, e ai piselli. Ma adorano stare vicino all’aglio, al basilico, alle carote, ai cavoli, alla cicoria, alla cipolla, all’insalata, alla lattuga, al mais, al porro, al prezzemolo, al ravanello, allo spinacio ed al sedano. Ho deciso che seminerò e pianterò fagioli, melanzane, sedano, pomodoro, prezzemolo, cetriolo, basilico, peperoni, fragole, cavoli, finocchio, ceci, aglio, fagioli nani, lattuga, carote, insalata, spinaci, bietola, piselli e zucchine.
Dopo aver riempito i bancali seguendo lo schema, sono andato in una rivendita a comprare novanta metri – 30 per bancale – di tubi forati per l’impianto di irrigazione a goccia, che ho provveduto a sistemare in modo da tenere costantemente umido il bancale, in previsione dell’afa estiva. E infine, mentre Giuseppe risaliva a casa per dei non meglio precisati affari da svolgere, ho provveduto a predisporre una struttura a capannetta di canne legate laddove crescono piante rampicanti come i fagioli, i piselli e i ceci, o necessitanti di sostegno come nel caso delle piantine di pomodoro, melanzane.
Un contadino postmoderno è facilmente riconoscibile perché, a differenza di tutti quelli che ha frequentato fino a due mesi prima, lui, ormai, anche se è inverno ha il volto abbronzato e rilassato. Si sentirà spesso chiedere in quale paradiso tropicale sia stato rintanato, o se si tratta per caso di sole di montagna, e incontrerà volti misti di fastidio, sorpresa, incredulità e invidia quando, mostrando con orgoglio i palmi callosi delle mani, racconterà di quel che sta facendo da alcuni mesi. Per rilassarsi, per ritrovare il sorriso e la serenità – racconterà a degli amici e conoscenti che ascoltano con crescente tensione – non serve mica andar lontano. Basta poco, dirà il contadino postmoderno, cercando di non complicare col suo racconto la semplicità del mondo che sta scoprendo attorno a lui. Parliamo di acqua, ad esempio. Con Giuseppe, per attivare l’impianto a goccia, abbiamo dovuto far scavare un pozzo: 62 metri di fondo e circa 10mila litri di acqua al giorno. Abbiamo dovuto chiamare un rabdomante, che si è presentato con un ciondolino per individuare la vena più gonfia, e poi tre uomini e due macchinari, un camion con un motore a pressione e uno con la trivella per scavare il granito. Gli operai ci hanno detto che ogni sezione che aggiungevano alla trivella, innestandola dall’alto, era lunga due metri: ne hanno innestate 31. L’operazione è cominciata alle 7 del mattino ed è andata avanti fino alle tredici. Il granito è tosto, ma alla fine ha ceduto, l’acqua è zampillata verso l’alto, uno scroscio potente, alto almeno 7-8 metri e io, che non ho mai visto una balena, ho avuto la sensazione che là sotto la terra di Gallura, a sessanta metri di profondità, si fosse nascosta Moby Dick.
Certo, la tecnologia e le macchine aiutano. In meno di mezza giornata, è stato carotato un pozzo che, a mani nude col piccone, avrebbe richiesto almeno un anno di lavoro. Senza acqua, in campagna, non si può far nulla. Non esistono rubinetti. Non esistono contatori. Non esistono interruttori. Devi portarceli tu. In questo caso ce li ha portati Giuseppe per me. In questo terreno, mi dice, non ci faceva orti da decenni proprio per l’assenza di acqua. Tanti anni fa, mi racconta, quando ancora si poteva, lui irrigava con un motorino che pompava l’acqua dal fiumiciattolo che passa perimetrale al terreno. Poi le leggi sono cambiate, l’età è avanzata, e ha smesso di fare orti per dedicarsi solo alla vigna. Oggi è un gran giorno, dice infine mentre l’acqua schizza ancora verso il cielo. La vita in campagna ruota attorno ai cinque elementi: terra, fuoco, aria, acqua e api. Devi dosarli questi elementi, devi scoprire nuove formule sperimentando un poco alla volta, mi fa mentre si avvia a prendere una bottiglia di vino nostrano per festeggiare con gli operai il varo del pozzo a fine giornata.
Mentre rientriamo a casa, parlando più per sé che per me, Giuseppe dice che ormai mancano solo le api. Ma non sa ancora che cosa ho combinato. Le api, infatti, arriveranno domani sera.
Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
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