Stampa Articolo

Manzoni, la pace e la guerra

Alessandro Manzoni, ritratto di Francesco Hayez (1841), Galleria d’Arte Moderna, Milano

Alessandro Manzoni, ritratto di Francesco Hayez (1841), Galleria d’Arte Moderna, Milano

di Umberto Melotti 

Introduzione

Questo articolo si ricollega alla mia trascrizione in italiano moderno dei Promessi Sposi, un libro bellissimo, ma che i cambiamenti avvenuti nella lingua nei densissimi centottant’anni trascorsi dalla sua edizione definitiva (1840-1842) rischiava di far lasciare sugli scaffali, dopo le parziali letture scolastiche, o, peggio, di far abbandonare alla «rodente critica dei topi» (per dirla con le parole che un grande contemporaneo del Manzoni ha utilizzato a proposito una propria importantissima opera). Ciò non accade in Italia per tanti altri classici dell’Ottocento, che per lo più leggiamo nella loro traduzione in italiano moderno, come, ad esempio, Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas (pubblicato nel 1844, due anni dopo I Promessi Sposi) e I miserabili di Victor Hugo (pubblicato nel 1862, cioè esattamente vent’anni dopo), per non parlare dei grandi romanzi russi, che ben pochi italiani sono in grado di leggere nella loro lingua originale.

Qui però non m’intratterrò su quella mia trascrizione, di cui del resto ho già parlato su Dialoghi Mediterranei (n. 64, 1° novembre 2023), ma su un aspetto particolare del pensiero del Manzoni, che le sciagurate vicende degli ultimi anni hanno reso di tragica attualità: la pace e la guerra.

Manzoni non è stato, ovviamente, l’unico scrittore a occuparsi di tale tema. Basti qui ricordare, fra gli autori dell’Ottocento, Lev Tolstoj, per il suo grande romanzo intitolato proprio Guerra e Pace (1865-1869), ambientato nella Russia del periodo napoleonico. Fra gli autori del Novecento, si possono richiamare, fra i tanti, Ernest Hemingway, per Addio alle armi (1929), ambientato in Italia, durante la Prima guerra mondiale, e Per chi suona la campana (1940), ambientato in Spagna, durante la guerra civile; Erich Maria Remarque, per Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929), ambientato durante la Prima guerra mondiale; e Boris Pasternak, per Il dottor Živago, ambientato in Russia, fra la Prima guerra mondiale, la rivoluzione e la guerra civile che le ha fatto seguito. Fra gli autori italiani vanno ricordati Emilio Lussu, per Un anno sull’altipiano (1936), che racconta le sue esperienze nella Prima guerra mondiale, e Giulio Bedeschi, per Centomila gavette di ghiaccio (scritto tra il 1945 e il 1946, ma pubblicato nel 1963), che racconta le vicende dell’insensata spedizione italiana in Russia durante la Seconda guerra mondiale. A questi si può aggiungere lo straordinario libro di Primo Levi, Se questo è un uomo (1947), sulla sua vita in un campo di sterminio nazista durante la medesima guerra.

Ma, andando più indietro nel tempo, si devono ricordare anche alcune grandi opere che abbiamo tutti studiato a scuola, fra cui l’Iliade e l’Odissea, i due poemi fondativi della cultura occidentale, e il De Bello Gallico, di Giulio Cesare, su cui molti di noi hanno imparato il latino.

La diffusa presenza della guerra e della pace nelle opere letterarie è in realtà un riflesso della loro importanza nella storia dell’umanità. Sulla base dei dati archeologici e delle indicazioni etnologiche ed etologiche, si può asserire l’esistenza di conflitti bellici fra i gruppi umani sin dalla più remota preistoria. In ogni caso, le guerre sono chiaramente attestate nella storia egiziana, nella storia ebraica (ne parla diffusamente la Bibbia), nella storia greca (fra cui la guerra di Troia e le guerre fra greci e persiani, considerate, un po’ miticamente, come le prime espressioni della contrapposizione fra Oriente e Occidente) e nella storia romana (prima le guerre che hanno portato all’espansione di Roma e alla formazione della sua Repubblica e del suo Impero, poi quelle che hanno contribuito alla dissoluzione del suo dominio con le “invasioni barbariche”, come sono state definite da coloro che le hanno subite, e quelle che, quasi un millennio dopo, hanno distrutto anche l’Impero bizantino, con la conquista di Costantinopoli per mano degli islamici, che avevano già conquistato il Medio Oriente, il Nord Africa e, per qualche tempo, la Sicilia, la Spagna e la parte più meridionale della Francia).

2021_12_15_17_05_39_002-scaledMi fermo qui. Ciò basta a rilevare la presenza della guerra nella storia dell’umanità. Si può dire in realtà, che la storia umana abbia visto un seguito di guerre intervallate da periodi di pace più o meno lunghi (per esempio, nella storia romana la Pace Augustea) o, viceversa, dei periodi di pace intervallati da guerre più o meno lunghe e gravi (come, ad esempio, quella dei Trent’Anni). È significativo in proposito che la prima metà del Novecento, a partire dal 1918, sia comunemente definita come il «periodo fra le due guerre» e la sua seconda metà, sino ai primi anni ’90, come il periodo della «guerra fredda», che peraltro fredda non è sempre stata dappertutto. Basti ricordare le guerre della Corea (1950-1953), dell’Algeria (1954-1962) e del Vietnam (1946-1954 e 1955-1975) e, in Europa, quelle dell’ex Jugoslavia (1991-1995, 1998-1989 e 2001) e quella fra Russia e Ucraina (2022, in corso), cui possiamo aggiungere le guerre, scoppiate o riprese fra arabi ed ebrei, dopo la proclamazione dello Stato d’Israele, pur approvato dalle Nazioni Unite col consenso di tutte le maggiori potenze (1948-1949, 1956, 1967. 1973, 2023-2024 in corso).

Ma veniamo al Manzoni. Ciò premesso, risulterà chiaro perché, volente o nolente, abbia dovuto occuparsene. Del resto, ciò si deve anche al periodo in cui è vissuto (1785-1873) e al periodo in cui ha ambientato il suo grande romanzo (1628-1632). 

Il giovane Manzoni 

Da bambino, a sei anni, il Manzoni era stato messo nei collegi dei Padri somaschi, a Merate e, dopo l’occupazione della Lombardia da parte dei francesi, a Lugano, nel Canton Ticino. Poi, da ragazzo, a tredici anni, fu inserito nel collegio Longone di Milano, il “collegio dei nobili” gestito dai padri barnabiti. Uscito a sedici anni da questi ambienti chiusi, autoritari e repressivi, di cui conservò sempre un pessimo ricordo, si diede, per reazione, a una vita disordinata, segnata dal gioco d’azzardo e dalla ricerca di donne dai facili costumi. Ma si trovò anche immerso nel clima culturale e politico di quegli anni, soprattutto quando a vent’anni, nel 1805 (chiamato dalla madre, desiderosa di sottrarlo a quella vita di cui le aveva parlato Vincenzo Monti), andò a Parigi, dove la madre, dopo il divorzio dal suo anziano marito, si era trasferita con il suo ultimo compagno, Carlo Imbonati.

Erano anni ancora fortemente segnati, specialmente in Francia, dalla Rivoluzione che vi era scoppiata nel 1789, con un orientamento inizialmente illuminista, ma era presto degenerata in aspri conflitti interni, che finirono per mandare sulla ghigliottina, dopo il Re, la Regina e tanti aristocratici, anche quasi tutti i suoi principali esponenti, da Hébert a Danton, da Desmoulins a Saint-Just e Robespierre. A quel periodo, detto del Terrore, pose fine la reazione termidoriana (1794), che vide un ritorno a molte pratiche prerivoluzionarie e aprì la strada alla presa del potere da parte di Napoleone (1799).

Enrichetta Blondel, prima moglie del Manzoni, in un acquarello del 1829

Enrichetta Blondel, prima moglie del Manzoni, in un acquarello del 1829

Già a Milano il Manzoni si era alimentato alle idee illuministiche allora diffuse, tanto più che sua madre, Giulia Beccaria (1762-1841), era la primogenita del grande Cesare, l’autore del trattato Dei delitti e delle pene (1764). Giulia era stata anche in relazione con Pietro e Alessandro Verri, due altri importanti esponenti dell’Illuminismo lombardo, fondatori del periodico il “Caffè” (1764-1766), e soprattutto con il loro fratello minore, Giovanni, con cui ebbe una lunga relazione, che indusse molti a ritenerlo il padre naturale del Manzoni. A Parigi, in ogni caso, il giovane Alessandro poté frequentare (grazie alla madre, che vi era stata accolta a braccia aperte proprio perché figlia del già citato Cesare, noto e apprezzato in tutta Europa) il salotto della marchesa Sophie de Condorcet, vedova dell’infelice Nicolas, l’ultimo grande filosofo illuminista, che, pur essendo stato fra i fautori della Rivoluzione, nel periodo del Terrore era stato messo in carcere perché girondino e vi si era ucciso per evitare la ghigliottina. Fra i frequentatori abituali di quel salotto c’erano molti idéologues, filosofi, storici e letterati di originario orientamento illuminista, messi in crisi prima dalla deriva estremistica della Rivoluzione (durante la quale il loro caposcuola Destutt de Tracy era stato messo in carcere) e poi dal crescente autoritarismo del regime napoleonico.

Quelle vicende storiche e quegli incontri concorsero a fargli riconsiderare più criticamente l’Illuminismo, di cui pure non ripudiò mai «le cose utili, vere e nuove», come affermò nella seconda parte, incompiuta e da lui non pubblicata, delle sue Osservazioni sulla morale cattolica (1855). Questo ripensamento favorì anche il suo riavvicinamento alla religione cattolica, che si concluse nel 1810, dopo che la sua prima moglie, Enrichetta Blondel, di famiglia calvinista, si era convertita al cattolicesimo, guidata da Eustachio Degola, un abate con qualche venatura di giansenismo, che poi assistette anche lui.

Le prime riflessioni del Manzoni sulla guerra e sulla violenza in genere risalgono proprio a questo periodo, che vide anche il suo passaggio dal neoclassicismo ancora dominante all’incipiente romanticismo, con il rifiuto, per motivi religiosi e letterari, dei suoi precedenti componimenti poetici, del resto ancora piuttosto scolastici.

Le conquiste napoleoniche avevano favorito in Italia, in parte a imitazione della Francia e in parte per reazione alla sua occupazione, lo sviluppo di orientamenti patriottici e indipendentisti, che divennero ancora più forti quando, dopo la sconfitta di Napoleone, in Lombardia ritornarono gli austriaci, che avevano già ottenuto da lui, con la pace di Campoformio (1797), Venezia e gran parte delle sue dipendenze.

Le posizioni del Manzoni sulla pace e sulla guerra sono sempre più segnate dai suoi sentimenti patriottici, che s’intrecciano peraltro con quelli cristiani, come si vede negli Inni sacri, da lui composti fra il 1812 e il 1822, dopo il suo ritorno in Italia (1810).

Toussaint Louverture in un ritratto francese

Toussaint Louverture in un ritratto francese

Una chiara testimonianza ne sono le sue opere scritte prima dei Promessi Sposi e, in particolare, le canzoni e le odi civili e le due tragedie, nonché i frammenti della terza, lo Spartaco, l’eroe della guerra servile romana, di cui interruppe la stesura per dedicarsi completamente al romanzo, l’«eterno lavoro» che lo avrebbe impegnato per oltre un ventennio. Resta peraltro molto significativa la scelta di quel tema. Va ricordato che a Parigi era ancora vivissimo il ricordo dell’insurrezione di Haiti (1791-1804), che era stata colonia francese col nome di Saint-Domingue: iniziata come una rivolta degli schiavi delle sue piantagioni e terminata con la proclamazione dell’indipendenza, dopo una lunga lotta capeggiata da Toussaint Louverture, il leggendario «Spartaco nero», morto in carcere in Francia. D’altra parte, in quegli anni ferveva in Inghilterra la discussione sull’abolizione della schiavitù, dopo che nel 1807 era già stato proibito il commercio degli schiavi.

Aggiungo che nel salotto della Condorcet aleggiava sempre il ricordo di Nicolas, che era stato un membro influente della Società degli amici dei neri e aveva bollato con parole di fuoco la schiavitù. In ogni caso, dell’intenzione del Manzoni di scrivere qualcosa su Spartaco e «les nègres», cioè gli haitiani, ebbe a parlare ancora nel 1825 il suo amico Claude Fauriel, a lungo compagno della Condorcet.

La canzoni e le odi politiche

Aprile 1814 è una canzone ancora classicheggiante. Scritta in quel mese, in cui giunse a compimento la dissoluzione dell’Impero napoleonico (1804-1814), dopo le sconfitte della Francia nella campagna di Russia (1812) e nella battaglia di Lipsia (1813) e l’abdicazione di Napoleone (1814), esprimeva la speranza che la fine del Regno d’Italia (lo Stato vassallo con capitale Milano, con re Napoleone e viceré il suo figliastro Eugène de Beauharnais) aprisse la strada alla libertà. Ma il ritorno degli austriaci alla fine di quello stesso mese portò invece all’istituzione, sancita dal Congresso di Vienna (1815), di un altro Stato vassallo, il Regno Lombardo-Veneto, soggetto all’Austria.

immagine-5In quella canzone il Manzoni denuncia i mali del dominio francese, le spoliazioni effettuate dagli occupanti, il tributo che gli italiani dovevano pagare loro ogni anno e il sacrificio di tanti giovani mandati a morire nelle guerre napoleoniche. La parte finale esprime però anche compassione per i francesi, a loro volta invasi e occupati, e auspica una pace in grado di assicurare la libertà e il ritorno dei giovani, in una patria con autorità civili e religiose attente ai bisogni della gente.

Il proclama di Rimini, composto l’anno seguente, è un’altra canzone patriottica. Qui il Manzoni prende le mosse dal proclama di Gioacchino Murat (30 marzo 1815), l’ex re di Napoli, cognato di Napoleone, che, anche con l’intento di recuperare il suo regno, dopo la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba (26 febbraio) e il suo rientro trionfante a Parigi (20 marzo), aveva invitato gli italiani a combattere con lui contro gli austriaci. Impressionato da questi eventi incalzanti, il Manzoni inizia a scrivere questa canzone, dai manifesti richiami alla petrarchesca Italia mia benché, che avrebbe influenzato poi anche il Leopardi. Ma la sconfitta di Napoleone a Waterloo (18 giugno) gliela fece lasciare incompiuta. In questo componimento il Murat (che sarebbe stato fucilato pochi mesi dopo a Pizzo Calabro dalle truppe borboniche) è presentato come l’inviato di un Dio

che l’inique spade
frange una volta e gli oppressor confonde;
e all’uom che pugna per le sue contrade
l’ira e la gioia dei perigli infonde.

Contro l’idea delle piccole patrie, allora sostenuta da molti (fra cui l’Alfieri), il Manzoni inneggia all’unità d’Italia, con un icastico verso entrato nella memoria di tutti:

Liberi non sarem, se non siam uni.

La sua poesia più manifestamente politica è però il vibrante Marzo 1821, dedicata a Karl Theodor Körner (1791-1813), «poeta e soldato dell’indipendenza germanica», caduto combattendo contro Napoleone. Una dedica che istituiva un rapporto tra due guerre animate dal sentimento di libertà: quella dei tedeschi contro i francesi e quella degli italiani contro gli austriaci.

L’ode fu scritta nella temperie dei moti europei del 1820-1821, in un momento in cui era lecito sperare che Carlo Alberto, reggente del regno sabaudo, dopo aver nominato al ministero della guerra il patriota Santorre di Santarosa, intervenisse contro gli austriaci. L’ode immagina anzi che l’esercito sabaudo avesse già varcato il Ticino e i lombardi avessero vinto. Un’illusione, cui in Lombardia seguì invece una durissima repressione con la severa punizione di quelli che si erano espressi per la liberazione del Paese.

Alcuni versi, peraltro, sono non solo belli, ma estremamente significativi. Cito i due che esprimono nel modo più icastico la sua concezione della nazione:

una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor.

Una concezione che superava sia quella etico-politica di tipo francese, d’ispirazione illuminista e universalista, culminata poi in Ernest Renan, che l’avrebbe definita come «un plebiscito di tutti  giorni» (1882), sia quella etnico-culturale di tipo tedesco, d’ispirazione romantica e particolarista, già presente in Johann Fichte (1808), inserendola in una visione supernazionale cristiana, che enfatizzava la fratellanza umana e denunciava gli orrori di tutte le guerre. Per il Manzoni quella era la nazione benedetta da Dio, che è amore ma anche giustizia, e «rigetta la forza straniera»:

Ogni gente sia libera e pèra
della spada l’iniqua ragion.
Prefigurando la vittoria dei patrioti, l’ode si conclude con versi diventati proverbiali:
Oh, giornate del nostro riscatto!
Oh, dolente per sempre colui
che da lunge, dal labbro d’altrui,
come un uomo straniero le udrà!
Che ai suoi figli narrandole un giorno
dovrà dir sospirando “Io non c’era”;
che la santa vittrice bandiera
salutata quel dì non avrà.

Le cose, però, come si sa, andarono assai diversamente. Così il Manzoni non la pubblicò, ma se la tenne in petto, vista la sorte di Piero Maroncelli, Silvio Pellico e Federico Confalonieri, del pur moderato gruppo del “Conciliatore” (1818-1819), cui era stato vicino: condannati all’ergastolo o a morte, commutata la pena, furono mandati tutti allo Spielberg. La diffuse soltanto durante le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo 1848), insieme con Il proclama di Rimini, in un opuscolo pubblicato dal Governo Provvisorio, che ne vendette moltissime copie, destinandone i proventi ai profughi veneti.

La sua ode politica più nota è però Il Cinque Maggio, scritta anch’essa nel 1821, in tre giorni (di getto, contrariamente al suo solito), quando gli giunse la notizia della morte di Napoleone, esiliato a Sant’Elena. Un’ode che Goethe, il più grande poeta del tempo, volle subito tradurre in tedesco.

Il Manzoni, vergin di servo encomio e di codardo oltraggio, vi ripercorre le fulminee vittorie (Dall’Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno, etc.) con cui quell’uom fatale ottenne un premio ch’era follia sperar. Si domanda però se la sua sia stata vera gloria lasciando ai posteri l’ardua sentenza. Sulla base delle voci sul suo riavvicinamento alla fede nei suoi ultimi giorni, dà però per sicuro che il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, gli abbia concesso il premio che i desideri avanza. Una vittoria non già di Napoleone, ma della religione cristiana:

bella immortal, benefica
fede ai trionfi avvezza!

s-l1600Le tragedie

Simili motivi sono presenti anche nelle tragedie, Il Conte di Carmagnola (1820) e l’Adelchi (1822), da lui pubblicate con ampie premesse storiche. La prima è ambientata durante la guerra tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano del tempo dei Visconti, conclusa con la vittoria dei veneziani nella battaglia di Maclodio (1427). La seconda è ambientata durante la guerra tra i Franchi e i Longobardi, nell’ottavo secolo, conclusa con la disfatta di questi. La loro trama è storica, ma quel che più emerge sono i problemi morali e sociali comuni alle guerre.

Nel Conte di Carmagnola il protagonista, condottiero prima dei milanesi e poi dei veneziani, pur avendo vinto per conto di questi ultimi, viene da loro condannato a morte come traditore, per aver rimesso in libertà i suoi prigionieri. Il Manzoni si chiede come possa costituire un reato un atto di clemenza, anche se contrario allo spirito della guerra, che vorrebbe l’eliminazione di tutti i nemici (ci viene spontaneo pensare alla questione degli ostaggi presi da Hamàs e alla reazione del governo israeliano all’attacco del 7 ottobre 2023). Nel coro che commenta la battaglia di Maclodio, inoltre, il Manzoni esprime tutta la sua riprovazione per le guerre fratricide e auspica l’unità nazionale, peraltro in una visione cristiana che afferma la fraternità dei popoli, con un patriottismo senza nazionalismi.

Tutto il coro meriterebbe di essere riportato. Nell’impossibilità di farlo, ne riprendo qualche verso:

S’ode a destra uno squillo di tromba;
A sinistra risponde uno squillo:
D’ambo i lati calpesto rimbomba
Da cavalli e da fanti il terren.
[...]
Già di mezzo sparito è il terreno;
già le spade respingon le spade;
l’un dell’altro le immerge nel seno;
gronda il sangue; raddoppia il ferir.
[...]
D’una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti; fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d’essi dal volto traspar.
Questa terra fu a tutti nutrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall’altre ha divisa,
e recinta con l’alpe e col mar.
[…]
Ahi, sventura! sventura! sventura!
Già la terra è coperta d’uccisi;
tutta è sangue la vasta pianura;
cresce il grido, raddoppia il furor.
[…]
I fratelli hanno ucciso i fratelli:
Questa orrenda novella vi do.
[…]
Siam fratelli; siam stretti ad un patto:
maledetto colui che l’infrange,
che s’innalza sul fiacco che piange,
che contrista uno spirto immortal
!

L’Adelchi, intitolata a quel giovane re longobardo, pur basandosi su un’attenta documentazione storica, veicola un implicito confronto fra il passato e il presente (ovviamente il presente dell’autore). Le sventure degli sconfitti e le sorti della gente che era loro soggetta richiamano quelle dell’Italia del suo tempo, divisa e sotto il giogo straniero.

La tragedia è una requisitoria sul dramma del potere, con le sue trame, le sue viltà, le sue astuzie e le sue ingiustizie, contrapposte alla virtuosa figura del protagonista, che si distingue per il suo forte senso morale. Ritornano così temi cari al Manzoni: le contraddizioni presenti nella storia, il destino che grava su chi esercita il potere e la follia delle guerre fratricide e della guerra in generale.

È questa l’opera in cui più chiaramente emerge il pessimismo di fondo con cui il Manzoni guarda alla divisione tra oppressi e oppressori, che gli pare ineliminabile in questo mondo (anche se nei Promessi Sposi sembra che la divina Provvidenza possa assicurare un lieto fine agli oppressi che le si affidino, accettandone gli imperscrutabili disegni). Viene spontaneo un confronto con Marx, che vedeva in tutta la storia umana la divisione tra sfruttati e sfruttatori, di cui però si attendeva un imminente superamento, peraltro sinora non avvenuto anche là dove ci sono state delle grandi rivoluzioni effettuate in suo nome (ma non nelle condizioni cui lui pensava). In ogni caso, centrale nell’uno e nell’altro è il problema dell’ingiustizia presente nel mondo.

Adelchi, sul letto di morte, la denuncia con queste parole:

loco a gentile,
ad innocente opra non v’è; non resta
che far torto o patirlo. Una feroce
forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto! 

In particolare, nel poderoso coro del terzo atto, il Manzoni denuncia l’illusoria speranza di una liberazione per effetto di una guerra fra gli stranieri:

immagine-1I Promessi Sposi

Il romanzo, scritto e riscritto tra il 1823 e il 1842, riprende (rimeditati, rielaborati e rivisti) molti motivi già presenti nei testi sopra citati e altri gliene aggiunge.

Il romanzo è una fabula ambientata in un preciso contesto storico: la Lombardia tra il 1628 e il 1632, durante la dominazione spagnola. La prima parte si svolge sullo sfondo della carestia e della fame, aggravate dall’occupazione straniera e dalla cattiva politica economica; la seconda su quello della guerra; la terza su quello della peste, portata da questa. Tre grandi crisi economiche, politiche e sociali.

La guerra è quella dei Trent’Anni, la più lunga e distruttiva di quel secolo, che dilaniò l’Europa fra il 1618 e il 1648 e si concluse con la pace di Vestfalia, che pose fine alle guerre di religione fra cattolici e protestanti. Alle cause di carattere religioso, non risolte dalla precedente pace di Augusta (1555), che aveva stabilito il principio del cuius regio, eius religio (che riconosceva la libertà di religione ai signori, ma non ai loro sudditi, costretti a seguirne le scelte), se ne erano via via aggiunte altre: le pretese egemoniche delle maggiori potenze; le aspirazioni indipendentiste presenti in molti dei tanti staterelli in cui era allora frantumata l’Europa; le rivalità economiche e commerciali fra le principali città; le ambizioni di alcuni casati e i contrasti anche personali fra i governanti. In questo contesto in Italia esplose la guerra per la successione ai ducati di Mantova e del Monferrato, allora collegati per precedenti vicende: una guerra che vide la contrapposizione di francesi e spagnoli, le disinvolte manovre del duca di Savoia e l’intervento delle truppe inviate dall’Imperatore per risottomettere Mantova al suo vantato diritto eminente. Nei Promessi Sposi si parla sia dell’assedio di Casale (la strategica città fortificata situata sul “cammino spagnolo”, che collegava i possedimenti della Spagna in Italia e nelle Fiandre), sia dell’attraversamento della Valsassina da parte delle truppe imperiali, probabile causa della peste che vi scoppiò e poi si estese in tutta la Lombardia.

Parlando della guerra del Monferrato, il Manzoni ritorna più volte sull’assedio di Casale, che il governatore spagnolo di Milano, don Gonzalo, aveva «messo con gran voglia», senza però ricavarne tutta la soddisfazione che se ne attendeva, perché, come dice il Manzoni con ironia, «nella guerra non sono tutte rose». Il Manzoni non si sofferma sugli errori strategici attribuitigli da alcuni osservatori, scrivendo che, quali che fossero state le ragioni della sua sconfitta, trovava bellissimo che «qualche uomo in meno fosse stato ucciso o storpiato o anche solo fossero state danneggiate un po’ meno tegole» di quella sfortunata città (cap. 7). Che nelle guerre non siano tutte rose ben lo sappiamo in Italia, dove Mussolini dichiarò la guerra alla Francia e al Regno Unito (1940), asserendo con sovrano cinismo che gli occorrevano diecimila morti per sedersi al tavolo dei vincitori. I morti non sono stati diecimila, ma cinquanta volte di più e Mussolini non si è seduto a quel tavolo, ma ha fatto la fine ben nota.

Il Manzoni ricorda il motivo addotto dagli spagnoli per il loro intervento in quella guerra, cui fa seguire un sapido commento: c’era bisogno di un motivo, perché «senza un motivo le guerre sarebbero ingiuste». Ciò ricorda una straordinaria affermazione del Machiavelli: «Mai mancarono ragioni legittime per colorire l’inosservanza» (Il Principe, cap. 18). Il pensiero corre a tante vicende anche contemporanee. Cito per tutte l’invasione russa dell’Ucraina, assurdamente motivata con la necessità di denazificare il Paese, quando invece la Russia avrebbe dovuto osservare gli accordi di Budapest (1994), con cui, assieme agli Stati Uniti e al Regno Unito, aveva garantito la sicurezza, l’indipendenza e l’integrità territoriale di quel Paese, che le aveva consegnato tutte le armi nucleari ricevute al tempo dell’Unione Sovietica.

Alla guerra si possono applicare molte altre osservazioni disseminate nel romanzo. Mi limito a ricordare quella che «è uno dei vantaggi di questo mondo poter odiare ed essere odiati senza conoscersi» (cap. 4).

immagine-6Dopo I Promessi Sposi il Manzoni non scrisse più né romanzi né poesie, ma stese dei saggi di vario argomento, fra cui quello su La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859 (come definiva il  Risorgimento): un «saggio comparativo», che cominciò a scrivere subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861), ma non portò mai a termine. Incompiuta, per la caduta che lo condusse alla morte, lasciò anche la sintesi della parte sull’Italia, che aveva iniziato per la municipalità di Torino, che, nel decennale del Regno d’Italia, gli aveva richiesto uno scritto da pubblicare in una raccolta di «autografi di uomini illustri che avevano cooperato all’indipendenza nazionale».

Sottolineo, in proposito, che il Manzoni, pur essendo un cattolico fervente, come senatore del Regno d’Italia aveva votato senza remore per l’annessione di Roma, conquistata dai bersaglieri sulla punta delle baionette, nonostante la scomunica minacciata da papa Pio IX. Ma Alessandro Manzoni era un cattolico liberale; anzi, qualcosa di più. Starei per dire un cattolico liberale e sociale, data la sua grande attenzione per gli umili, testimoniata anche dal romanzo, i cui protagonisti sono persone del popolo, irrise come «gente perduta sulla terra, […] gente di nessuno», senza neanche un padrone che li proteggesse (cap. 11).

Concludo con un’affermazione tratta dalla seconda parte delle sue già citate Osservazioni sulla morale cattolica: Anche «il sangue d’un solo uomo sparso per mano di un suo fratello è troppo, per tutti i secoli e per tutta la terra».

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Riferimenti bibliografici
Gli scritti del Manzoni citati nel testo sono tutti disponibili nell’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni, pubblicata a partire dal 2000 dal Centro Nazionale Studi Manzoniani di Milano.
La mia trascrizione integrale in lingua italiana moderna dei Promessi Sposi è stata pubblicata nel 2023, in cartaceo e in e-book, dalle edizioni Booksprint, www.booksprintedizioni.it, cui può essere direttamente richiesta.

 _____________________________________________________________

Umberto Melotti, ha insegnato Sociologia e Antropologia culturale all’Accademia di Brera, all’Università di Pavia e, come ordinario, per ventisei anni, alla “Sapienza”. Ha fondato e diretto la rivista “Terzo Mondo” ed è stato a lungo membro della direzione dell’“International Review of Education”, pubblicata in tre lingue dall’Unesco. Fra le sue numerose pubblicazioni: Marx e il Terzo Mondo (Il Saggiatore, 1972), tradotto in inglese, spagnolo e cinese; L’immigrazione: una sfida per l’Europa (Edizioni Associate, 1992); Etnicità, nazionalità e cittadinanza (Seam, 1999); Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche (Bruno Mondadori, 2004), parzialmente tradotto in molte lingue; Marx: passato, presente, futuro (Meltemi, 2019).

_____________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>