per minette
di Renato Cavallaro
La notizia della scomparsa improvvisa di Maria Immacolata Macioti mi ha raggiunto nella mia casa sul mare. È un luogo in cui lei, negli anni passati, si soffermava tutte le volte che le capitava di transitare per andare in Salento o sul Gargano. E adesso, attonito e addolorato, mi accingo a ricordare e a narrare alcuni percorsi che si sono intrecciati nella nostra lunga e variegata biografia. Credo che questa modalità narrativa lei l’avrebbe sicuramente gradita.
Fu nel novembre del 1970, laureando presso la Facoltà di Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, che mi recai nella sede dell’Istituto di Sociologia, in via Vittorio Emanuele Orlando 75, per definire con il mio relatore (Franco Ferrarotti) alcune questioni relative alla tesi di laurea che avrei discusso nell’anno successivo.
Mi accolse molto cordialmente una giovane donna in evidente stato di gravidanza, che mi disse di essere un’assistente di Ferrarotti e mi chiese cosa desideravo. Risposi che dovevo concordare alcune questioni relative alla mia tesi e che avevo alcuni capitoli da sottoporre e da lasciare al professore. Molto cortesemente mi condusse verso lo studio di Ferrarotti, purtroppo momentaneamente impegnato. Per questo motivo mi soffermai nella stanza della giovane assistente, che si informò del mio lavoro e dimostrò anche un certa curiosità e un sincero interesse per l’argomento che trattavo, sia da un punto di vista teorico (il tema era quello dell’associazionismo volontario), che con l’ausilio di una indagine empirica che stavo ultimando nel Molise. La conversazione si interruppe quando Ferrarotti mi chiamò.
Un anno e mezzo dopo, a giugno del 1972, divenuto anche io assistente volontario e addetto alle esercitazioni presso la Cattedra di Sociologia di Franco Ferrarotti, mi trovai seduto nella Commissione d’esame insieme a Maria Immacolata, che oramai da molti mesi chiamavo anche io Minette. L’affettuoso vezzeggiativo francese adoperato, quando lei era bambina, dalla nonna di origini olandesi, ma che da allora era rimasto sempre in uso tra i familiari e tra gli amici. Fu nel corso di questi lunghe sessioni di esame che uscendo assieme dall’Istituto per ritornare a casa, scoprii che lei abitava a Villa Bonelli, nei paraggi della mia abitazione. Le offrii allora un passaggio con la mia vecchia FIAT 500 e questo successe per molte e molte volte.
Così, man mano i legami professionali di reciproca stima, per via della progressiva e continua frequentazione, si trasformarono in legami di amicizia. Molto spesso, accompagnandola a casa, mi invitava a pranzo. Aveva una colf molto solerte di nome Rosa, a cui comunicava di mettere a tavola un piatto in più. Conobbi in questo modo suo marito Aymone, i figli Antonello e Fiamma e gli incontri divennero sempre più intensi e frequenti, soprattutto qualche anno dopo il mio matrimonio. Minette, infatti, si legò di amicizia con mia moglie Gabriella con cui condivideva alcuni interessi culturali sulla letteratura e sulla pittura. E mia moglie, lettrice di gialli, li dava spesso a Minette, che li gradiva molto come lettura di evasione.
Le sollecitazioni intellettuali di Franco Ferrarotti con cui collaboravamo, ci videro insieme nella parte iniziale dei lavori del gruppo di ricerca sulla “Valle dell’Inferno”, ossia Valle Aurelia in cui, oltre a Ferrarotti, Minette e a me, vi erano anche Maria Michetti, Roberto Cipriani, Paola Bertelli ed altri. Purtroppo, dopo un lungo periodo di contatti con la borgata, di incontri e di dibattiti alla Casa del Popolo, sia in giorni feriali che in giorni festivi e ad una prima raccolta di biografie, io fui costretto ad abbandonare il progetto per via di improrogabili impegni di insegnamento all’estero. Intanto maturavano e si intensificavano i dibattiti e gli incontri per discutere delle potenzialità dell’indagine qualitativa nella ricerca sociologica adoperando le storie di vita come strumento fondamentale della ricerca. E così in molti pranzi e in molte cene si raffreddarono spesso le pietanze, per via di calde, intense e accanite discussioni sull’indagine empirica con materiali qualitativi: dalle biografie alle fotografie!
Insieme a Minette, i primi anni Ottanta ci videro coinvolti nelle battaglie per la casa in un quartiere proletario di Roma: “La Magliana Nuova”. Qui i “palazzinari” romani, avevano edificato le abitazioni al di sotto del livello del Tevere, che scorre a poche decine di metri dalle palazzine, provocando danni enormi per via delle infiltrazioni di umidità. Gran parte degli abitanti che avevano occupato le case, proveniva dalla borgata romana di Prato Rotondo, dove un sacerdote – sospeso a divinis dalla Chiesa come sobillatore di anime – si era mobilitato per fare assegnare le case della Magliana a questi baraccati. Il sacerdote di origine belga, divenuto poi nostro collega all’Università in cui insegnava Psicologia sociale, era Gerard Lutte. Gerard aveva fondato alla Magliana un Comitato di lotta alle cui riunioni e alle cui attività Minette ed io prendemmo parte con particolare intensità e partecipazione. Furono anni di grande impegno sociale, furono anni incredibili!…
Da sempre interessata allo studio delle forme del sacro, assai vasta è la produzione dei contributi che Minette ha dato alla Sociologia della Religione, a partire dal suo primo volume: Religione, Chiesa e strutture sociali (Liguori, Napoli, 1974), si incuriosì molto per alcuni miei brevi studi sulla cosiddetta “religiosità popolare”. Si trattava di una passione e di un interesse che coltivavo sin dagli anni universitari e che poi ho potuto confrontare con autorevoli studiosi, divenuti nel tempo colleghi e anche miei amici: Tullio Tentori, Diego Carpitella, Vittorio Lanternari, Luigi Lombardi Satriani ed altri.
Fu così che ci trovammo assieme con Minette, nel periodo 1970-2000, nel Lazio (Vallepietra, Viterbo), in Campania (S. Angelo dei Lombardi, Morcone, Nola), in Abruzzo (L’Aquila) e nel Molise (Campobasso, Larino, Montorio nei Frentani, San Martino in Pensilis), in Sicilia (Catania) per seguire dal vivo, insieme a ristretti gruppi di studenti, feste devozionali di particolare interesse socio-antropologico. Il tema di cosa fosse la cosiddetta “religiosità popolare” a partire dagli scritti di Gramsci, costituiva all’epoca le basi di un agguerrito dibattito, che vedeva coinvolti antropologi, etnologi, storici delle religioni, sociologi tra cui è giusto ricordare Piergiorgio Solinas, Alberto Sobrero, Alfonso Di Nola, Arnaldo Nesti, Sandro Portelli e tanti altri. Un dibattito che era stato animato sin dal 1966 da Lombardi-Satriani, con un libretto provocatorio: Il folklore come cultura di contestazione. E queste animate discussioni servivano poi per analisi e studi che confluivano in seminari e gruppi di studio. Dai vari dibattiti e convegni a cui partecipavamo, scaturì ad esempio nel 1976 un volume composito: A. Carbonaro, R. Cavallaro, R. Cipriani, F. Ferrarotti, G. Guizzardi, M. I. Macioti, L. Mazzacane, G. Milanesi, A. Nesti, E. Pace, G. Riccamboni, Religione e politica – Il caso italiano (Coines Edizioni, Roma, 1976).
Fu così che nel 1977, l’interesse di Minette per le religioni e la mia curiosità intellettuale per le modalità del sacro nelle classi sociali contadine, provocarono incontri e intense discussioni, anche con la partecipazione di Ferrarotti. Alla fine, per via della amicale, ma energica insistenza di Minette, mi sono ritrovato ad essere insieme a lei uno dei soci fondatori (unitamente a Maria Michetti e a Roberto Cipriani) dell’AsfeReCo: “Associazione per lo Studio del Fenomeno Religioso Contemporaneo”, che tra i suoi ultimi presidenti ebbe l’antropologo Tullio Tentori.
Nella metà degli anni Novanta, Minette mi suggerì di trasformare in volume un mio studio su un noto Santo della tradizione cristiana, venerato ovunque in Italia e in Europa. Era rimasta colpita dalle tracce che avevo individuato e incrociato per svelare il mistero che collegava la figura cristianizzata ad ascendenze molto strette con il mito e con altri culti molto antichi. Lo inserì poi come primo volume nella collana da lei diretta presso le edizioni SEAM, intitolata Alla ricerca del divino; volle poi presentarlo insieme a Ferrarotti in un noto bar romano di via del Babuino. E così, sempre insieme a lei, ho anche girovagato per l’Italia (dal Piemonte alla Calabria) per osservare da vicino alcune note “sette religiose” e soprattutto per intervistare persone che ne erano fortunatamente uscite. In tal modo la convivialità, che sovente ci univa, si amalgamava con fervide discussioni legate ai temi del sacro e delle sue infinite sfaccettature, che intessevano poi – con intensa vivacità – i dopo pranzo o i dopo cena.
Lavorando assieme a Ferrarotti, fummo entrambi coinvolti, con i rispettivi progetti di ricerca, nell’intenso, complesso e controverso dibattito sull’indagine empirica qualitativa. Tra i sociologi si era addirittura creato, nei primi anni Ottanta, un improduttivo – a volte prestestuoso – conflitto, che contrapponeva i cosiddetti “qualitativisti” ai “quantitativisti”. Il risultato della diatriba era il negare quindi la libertà di scelta allo studioso nella selezione di un “metodo” di ricerca, rispetto ad un altro, a seconda del tipo di indagine che si stava per affrontare. Con Minette avevamo fatto parte – negli anni Settanta – di vari gruppi di ricerca, come quella sul “potere” a Roma diretta da Franco Ferrarotti, in cui si lavorava su dati assolutamente quantitativi, ma bisogna ammettere che l’indagine qualitativa ci catturò. Cominciammo allora ad investigare in profondità e con tale metodo le tematiche di nostro interesse: Minette sul sacro, sul mondo del paranormale, sull’emigrazione che trasformava l’Italia in Paese di immigrazione, sui rifugiati, sulle donne, io sulla teoria dei gruppi sociali, sulla partecipazione, sulla religiosità popolare, sull’emigrazione italiana all’estero. Non soltanto le biografie furono i nostri strumenti di studio, ma anche i documenti degli Archivi e le fotografie vennero utilizzati come strumento fondamentale dell’indagine empirica e integrati e amalgamati in molte interessanti ricerche.
Un giorno di marzo, nei primi anni Novanta, mi telefonò per convocarmi a casa sua perché desiderava mostrarmi un lavoro che “silenziosamente” (così mi disse) aveva intrapreso. Quando arrivai a casa sua preparò un caffe e mi mise davanti un faldone stracolmo di schede. Rimasi a bocca aperta per l’imponenza dei materiali e lei mi invitò a leggerne alcune e ad esprimere un giudizio. Inizialmente mi trovai impreparato, perchè erano schede che raccontavano di piante e di fiori. Mi spronò allora, molto seriamente, ad una attenta lettura e man mano che mi inoltravo nel suo lavoro ne capii il percorso e il significato. Si trattava innanzitutto di un complesso viaggio storico e culturale attraverso quelle narrazioni mitiche che hanno accompagnato, nel corso dei secoli, l’uso e la diffusione delle piante sino ai giorni nostri, sia nella loro funzione curativa del corpo che nella dimensione spirituale. Ma la parte più interessante che aveva sviluppato con grande cura era quella in cui Minette connetteva il mondo delle piante e dei fiori con il simbolismo del sacro, del cielo e con il mondo dell’ignoto. Aveva quindi individuato le complesse interconnessioni con il mito, con la religione e con la magia, tutte confluite poi nel suo volume Miti e magie delle erbe. L’aura di piante e fiori tra mitologia e letteratura. Ero arrivato alle quattro del pomeriggio e andai via dopo mezzanotte inoltrata, ovviamente dopo una cena frugale, intorno alle ventidue.
Il pensionamento ha visto Minette sempre particolarmente vivace ed attiva e ci siamo incontrati varie volte a presentazioni di libri oppure a convegni presso l’Università. Prima che scattasse il lockdown del 2020 mi telefonò per invitarmi, così mi disse, nel suo nuovo “ufficio”. Mi spiegò dove si trovava e ci facemmo una grande risata! La raggiunsi quindi dopo qualche ora nella Libreria Feltrinelli di Largo Argentina, a poche decine di metri da casa sua. Vi trascorreva giornate leggendo e “ricevendo” anche gli amici.
Adesso, come dice Jorge Luis Borges, …los blancos done del olvido…i bianchi doni dell’oblìo, marcano questo tuo congedo, questa sorta di solitudine perfetta in cui ogni pesantezza sprofonda. E tutto rimane affidato alla nostra dolente Mnemosyne, alla dea della memoria, ai ricordi, al tempo intimo della nostra coscienza.
Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
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Renato Cavallaro, ha insegnato Sociologia generale nell’Università di Roma “La Sapienza”. Ha ideato e diretto nel 2001 il 1° Master della Sapienza sulla sociologia qualitativa: Biografia, storia e società – Parole, memoria, ascolto nei processi comunicativi e formativi e nel 2003 ha fondato e diretto per sette anni la “Scuola di Alta Formazione” (riconosciuta dall’Associazione Italiana di Sociologia A.I.S.) sulla metodologia qualitativa: The Broad Realms of Social Research. Ha insegnato in varie università italiane e straniere e pubblicato decine di saggi in riviste specializzate. Tra i suoi libri: La sociologia dei gruppi primari (Napoli,1975), Progresso tecnico e valori tradizionali (Roma,1978, pref. F. Ferrarotti), Maghi incantesimi e scongiuri (Campobasso, 1979, pref. Maria I. Macioti), Storie senza storia (3^ ediz. Napoli 2009; “Premio Sila” per la saggistica 1982), La pietra, la quercia e i cavalieri (Roma, 1995), Il concetto di gruppo (Roma, 1998), Archivi, lettere, storie (Milano 2002), Orizzonti della memoria, orizzonti del gruppo (Roma 2004), Fenomenologia del partire e del tornare, (a cura di, Roma 2006), LEXICÓN – Lessico per l’analisi qualitativa nella ricerca sociale, (a cura di, Roma 2007), Le forme del racconto-L’analisi qualitativa in Sociologia tra narrazione e visualità, in Fondamenti di Sociologia visuale, a cura di M. Ciampi (Acireale-Roma 2016).
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