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Marinai, mercanti, seduttori tra Sicilia e Tunisia

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Teste di Moro alla Salute a Venezia (ph. Jamel Chabbi)

di Rosy Candiani [*]

Il mio intervento si organizza attorno a due storie, in un gioco di sponde e di punti di vista tra le due rive del Mediterraneo, in particolare tra Sicilia e Tunisia. Come tutti i miti e i racconti, i fondamenti sono nella storia e nelle cronache. Da sempre il Mediterraneo è stato centro privilegiato di attività marinare di commerci, di migrazioni occupazioni invasioni tra le popolazioni che vi si affacciano. In particolare, i riferimenti storici sono gli scambi radicati nei secoli tra la Sicilia – crocevia chiave di incontri e trasformazioni reciproci – e l’Africa settentrionale; più in generale, i commercianti, pirati, corsari dei Paesi che costeggiano questo mare.

Nella osmosi circolare di condivisione e contrasti che ha di mezzo il «Mar bianco» – il nome dato dagli Arabi al Mediterraneo –, la mitizzazione, in negativo, riguarda i mori, i saraceni [1] o i turchi secondo la identificazione dei siciliani [2], che peraltro molto più spesso avevano a che fare con tunisini, libici, algerini.

«Moro», arabo è il seduttore della storia delle graste siciliane; e «mori» tunisini sono i «mercanti» della storia del siciliano zio Giacomino, raccontata in questo caso da uno scrittore tunisino, Ali Douagi, secondo un più benevolo punto di vista e un pacificatorio finale. Spesso si assiste a un processo di entralacement delle trame, come nella vicenda della mia storia.

La prima storia che vorrei raccontare, prima anche in ordine cronologico, ci parla di «Mori», gli arabi, seduttori, ai tempi della conquista della Sicilia, cioè dopo l’831 della presa di Palermo; si tratta di una storia di amore-gelosia-vendetta con doppio finale, sempre tragico, da cui si diparte la mitizzazione, la riproduzione con varianti di contenuto e di genere secondo un fecondo filone popolare e uno coltissimo e noto letterario.

La storia è scandita in tre fasi – la seduzione il ritorno e il finale –, nel primo caso potremmo dire seguendo il topos di Didone ed Enea «seduttore» onesto (?). Attorno al Mille, nella Palermo dominata dai Mori, viveva nel quartiere «Al Khalisa»[3], oggi la Kalsa, una bellissima fanciulla solitaria, dedita alla cura delle piante del suo balcone fin quando venne notata da un giovane, un Moro che, travolto da passione, con le più ferventi e suadenti parole e promesse, incantò la giovane che lo accolse e ricambiò l’amore. Ma il giovane e ardito seduttore celava il segreto di una moglie e dei figli nella terra oltre il Mediterraneo cui doveva tornare. La fanciulla distrutta dalla rivelazione e amareggiata per il tradimento del suo amore, reagì ben diversamente da Didone, e volse la sua ira verso la vendetta della slealtà subita. Lo colpì a morte nel momento della sua maggiore vulnerabilità, nel sonno ignaro dopo i piaceri della notte. Ma ancora innamorata del giovane decise di tenere accanto a sè per sempre il volto amato: perciò ne tagliò la testa e ne fece un oggetto simile a un vaso nel quale piantò un basilico, erba odorosa e sacra ai sovrani. Nel suo amore dissennato, continuò a prendersi cura della testa e della pianta che, bagnata dalle sue lacrime, cresceva florida, rigogliosa e profumata. I vicini, colpiti dal vigore della pianta che cresceva in quel particolare vaso a forma di testa di Moro si fecero realizzare dei vasi simili in terracotta, dando avvio alla tradizione millenaria, viva ancor oggi, delle graste o teste di turco, tesori artigianali prodotti in particolare a Caltagirone, ma diffusi in tutta la Sicilia e la penisola. Tutti recano una corona a ricordo della pianta regale cresciuta nella testa del giovane Moro seduttore [4].

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Grasta in forma di testa di Moro (coll. Alfonso Campisi)

La leggenda ebbe quasi subito una seconda versione che, potremmo dire sullo schema «Romeo e Giulietta», presenta la storia passionale come amore clandestino e impossibile tra la giovane siciliana di nobili origini e il giovane arabo. L’atto disonorevole venne presto scoperto e punito con la decapitazione dei due innamorati, le cui teste –tramutate in vasi – vennero esposte a una balconata a perpetua vergogna e monito per la passione sconveniente. E per questo motivo le «teste di Turco» verrebbero realizzate in coppia a ricordo della tragica morte comune dei due giovani.

Una terza versione della storia dona radici storiche locali alle ceramiche delle botteghe di Caltagirone [5], spostando gli eventi alla Qal’at al Ghiran saracena all’epoca della conquista normanna (nel 1090, quindi); parla del maestro artigiano svegliato nella notte dai soldati del Re normanno (Ruggero) per ordine segreto della Principessa (che sarebbe dunque Emma d’Altavilla). Nella pergamena consegnata dai soldati si ordinava di realizzare un vaso maiolicato cavo all’interno riproducente il viso del califfo saraceno da lei amato e decapitato dopo la conquista normanna della città. L’artigiano, come il Re Ruggero, non seppe mai che nel vaso fu conservata la testa dell’amato Principe, morto per l’amore proibito, ricoperta di terra come una grasta; dalla terra spuntò una pianta odorosa a cui la Principessa diede il nome dell’amato Basiricò, che le testimoniava la rinascita del loro amore.

Il passaggio dalla storia al mito è dato dalla misura degli echi e delle riprese del tema nel tempo. Il perpetuarsi della riproduzione delle splendide e preziose teste in terracotta è già di per sè segno di un processo di slittamento dalla cronaca (nera) alla dimensione dell’episodio degno di memoria, valore memorabile e simbolico, mito dunque [6]. In effetti, la storia dell’affascinante seduttore e della giovane – nobile o meno – siciliana si perpetua e riproduce nei racconti e nella poesia popolare con varianti e riprese, come dimostrano le ricerche di studiosi tra Otto e Novecento, come Pitrè [7] e Carducci.

Ne ricordo brevemente due: la prima – la storia del perché in Sicilia gli asini si chiamano scécchi [8] –, dove il racconto noir delle teste di Moro subisce un duplice rovesciamento; nella protagonista – Nevara la figlia del re saracino Miramolino  – che è musulmana innamorata di un giovane nobile siciliano per il quale consiglia e ottiene un atteggiamento di tolleranza verso gli insulani conquistati; e nel finale lieto, dove il sorriso (dei saraceni costretti a montare asini e della convivenza pacifica e multietnica) prevale sui risvolti raccapriccianti e tragici dettati dal punto di vista della esemplarità sociale e della convenienza.

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Le teste di Moro in forma di orecchini (ph. Jamel Chabbi)

Il secondo esempio è una ballata – una siciliana – che ha sicuramente ispirato un filone colto e molto noto della leggenda. La canzone è Qualesso fu lo malo cristiano / che mi furò la grasta, registrata in due codici toscani di fine Trecento, ma nota sicuramente prima, pubblicata da Carducci e più che studiata e analizzata, in quanto dichiarata dallo stesso autore Giovanni Boccaccio come fonte della novella 5 del libro quarto del Decamerone, la storia di Lisabetta da Messina. Rinvio – non è questa la sede per approfondimenti filologici complessi – agli studi di Rosario Coluccia [9], Michelangelo Picone [10], Rossana Fenu Barbera (2001) e alla loro ricchissima bibliografia per tutte le implicazioni filologiche e la questione delle fonti di Boccaccio.

Vorrei registrare solo alcune note, ricavate in particolare dai saggi di Picone, e una osservazione, che rafforzano la mia lettura di una mitizzazione della storia delle graste (uso volutamente questo termine).

Il legame indubbio tra la canzone del basilico, ballata medioevale su un fatto di cronaca locale, e la storia delle graste;

  1. La sicilianità del canto che è una Khargia ispano-araba [11] e la «sicilianità» della novella di Boccaccio, sottolineata dalla narratrice, e motivate da ragioni di tipo culturale ed etnologico, più che sociologico (Picone, 2001:181);
  2. La «risonanza» della canzone cantata da Lisabetta e ancora cantata a Firenze prima del 1348 e nota ai membri della brigata boccacciana;
  3. La disposizione della novella in rapporto e in contrasto con quella precedente di Gerbino che, casualmente o fatidicamente, si innamora della figlia del Re di Tunisi;
  4. La geniale invenzione di Boccaccio che nobilita la canzone anonima popolare [12] nella novella e contamina le due versioni della storia delle graste – a morte violenta del giovane – la disuguaglianza sociale come motivo della morte; e traspone la vicenda al mondo cristiano e toscano nella origine dei fratelli protagonisti, «avvicinandola» familiarmente al coté dei suoi lettori;
  5. Il termine «grasta / testo» dunque non sarebbe errore o variante da espungere [13] ma un indizio della fonte originaria della storia.

E vorrei chiudere il «viaggio» in questo primo mito dell’uomo orientale, in veste di seduttore con una citazione molto vicina a noi, del 1958, e che strappa un sorriso

               ‘O Sarracino ‘o Sarracino
                        È ‘nu guaglione
                        ‘O Sarracino
                        Tene ‘e capille ricce ricce
                        Ogne fegliola s’appiccia

È la notissima canzone di Renato Carosone [14], che nella sua idea iniziale voleva raccontare lo sbarco di una nave tutta bianca con un uomo di colore a bordo, un orientale vestito di bianco dal fascino irresistibile, diventata poi la caricatura del malandrino affascinante coi capelli ricci e abbronzato nella versione finale del paroliere Nisa. Ma l’idea dell’Oriente con contaminazioni partenopee si è mantenuta nella melodia che è in modalità sol minore, come molti canti popolari tunisini, uno per tutti «Halfaouine» di Anouar Brahem.

                       ‘O Sarracino / tutt’e’ femmene  /  fa’ ‘nnamurà.
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La casa di Ali Douagi, rue de la carriere Medina di Tunisi (ph. Jamel Chabbi)

 Il «Moro» della storia delle graste e il Saracino di Carosone, con il loro fascino seduttore ci parlano (e mitizzano) della loro «presenza» esotica, e in questo caso attraente quanto temporanea, in terre italiane di viaggiatori, marinai o piuttosto mercanti: una versione di rapporti regolati e «civilizzati» con le rive opposte del Mediterraneo. In realtà, molto più sovente il topos dell’immaginario, e delle paure, delle rive nord di questo mare identificano il marinaio / mercante nordafricano – musulmano con l’immagine del pirata spietato e sanguinario, predatore sul mare e per terra di bottini preziosi e umani.

La storia ci dice che fin dalle civiltà più antiche il Mediterraneo è solcato da marinai predatori, fenici, greci etc.; che dal VII secolo d.C. e con un apice nel XVI marinai musulmani, nordafricani (da Tunisi, Tripoli, Algeri) e ottomani esercitavano stabilmente la pirateria contro le navi mercantili o i villaggi delle coste dirimpettaie [15]. È storicamente attestata in realtà la assoluta reciprocità di questa attività lucrosa, spesso sostegno economico delle casse degli Stati: si può distinguere tra pirateria e corsa – incaricata da un governo – o crociata, ma pirati e corsari non si distinguevano per le modalità dell’esercizio del loro ruolo e nemmeno per gli obiettivi, spesso rivolti al traffico di uomini e fanciulle da rivendere come schiavi nei loro paesi.

Ma che fossero pagani, saraceni, berberi o ottomani, per i Siciliani i trafficanti di uomini e i pirati erano genericamente turchi e il bottino più ambito era la giovane donna siciliana [16], perla preziosa degli harem d’Oriente, mito favoleggiato. E anche se la schiavitù fu ufficialmente abolita nel 1856, con un trattato parigino recepito anche sulle sponde africane del Mediterraneo, in realtà il rapimento delle giovani delle campagne siciliane (e non solo) continuò ad arricchire di bellezze esotiche italiche le case di notabili musulmani nelle grandi città arabe.

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Rue Sskalli, via del Siciliano, Hafsia, Medina di Tunisi (ph. Jamel Chabbi)

Non stupisce che questa realtà, ancora viva verso la fine del governatorato ottomano suggerisca uno spunto narrativo fortemente realistico e di profonda umanità allo scrittore tunisino Ali Douagi, «le marginal tunisien» del gruppo intellettuale Taht Es-Sour (Candiani, 2019): i suoi interessi ricorrenti, per il Mediterraneo e le civiltà che vi si affacciano [17]; per la realtà sociale della Tunisi del suo tempo, soprattutto quella ai margini, dei diseredati, dei bambini; per la realtà plurale della società della Medina di Tunisi e per gli italiani che la abitavano, che fanno per esempio capolino in uno dei suoi racconti A la plage de Hammam-Lif pubblicato la prima volta nel 1936, sul giornale «Essourour»[18]; e in  La storia dello zio Giacomino, riportata da Douagi come una testimonianza diretta del protagonista (Douagi, 2014 II: 143-146) [19].

Nel suo eloquio piano, Giacomino allinea i ricordi della sua vita dal momento più drammatico della sua giovinezza, fino ad allora spensierata e abitudinaria, nel villaggio della Sicilia, divisa tra il lavoro nell’officina di fabbro del padre, la famiglia e l’amore per la fidanzata Marianna. Raggiunto dalla notizia della sparizione della giovane, folle di angoscia, apprende al mercato del rapimento insieme alle più belle ragazze del villaggio da parte di commercianti arabi trafficanti di schiavi bianchi verso la città di Tunisi. Deciso a salvare l’amata dal suo destino, Giacomino non ascolta le dissuasioni del padre e, aiutato dal suocero e dagli amici, parte con una piccola imbarcazione a vela e con qualche forma di formaggio. Mettersi in mare è da sempre una sfida eccezionale, e spesso dettata da disperazione. Giacomino sfida il mare da marinaio improvvisato – «il mio viaggio era una avventura folle e pericolosa, che avrebbe dovuto costarmi la vita» dice  – per ritrovare la promessa sposa. La fortuna lo spinge fino alle coste tunisine, accolto dai pescatori di Eddakla (l’entrata) vicino a Kelibia.

Le tappe del suo avvicinamento all’amata sono dettagliate, segnate dalla prassi della legge tunisina del governatorato, ma anche dai gesti di onestà degli ufficiali e delle persone incontrate (la guardia nazionale di vedetta, i guardacoste, gli ufficiali del Ministero della marina di La Goulette, il loro capitano, il Console del Re d’Italia, S.A. il Bey Muhammed) e dalla gentilezza che diviene in alcuni casi durevole amicizia. L’epilogo verso il lieto fine del matrimonio è rapido: il ritrovamento di Marianna presso un gran notabile della Medina[20], l’udienza al Bardo presso S.A. il Bey, il matrimonio con testimoni Selim, il capitano di La Goulette, il notabile ex proprietario della fanciulla e la presenza del principe ereditario Saddok Bey; la decisione di restare per sempre in quel Paese ospitale e tollerante anche dopo la morte dell’amata Marianna.

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Ritratto di Saddok Bey, testimone di nozze di zio Giacomino (phJamel Chabbi)

La linearità del racconto, che riproduce l’oralità semplice di Giacomino, è sorretta però da una notevole padronanza delle tecniche di narrazione da parte di Douagi, scrittore di formazione autodidatta ed eclettica ma raffinata, autore di teatro, poeta, autore di canzoni famosissime come «Hobbi Yetbaddel Yetjadded» di Hedi Jouini [21]. Douagi apre il racconto con una cornice che attualizza e colloca la narrazione nella contemporaneità del 1938; si introduce nel racconto, come narratore interno, ascolta la storia direttamente dall’ormai vecchio protagonista, e la riferisce «in presa diretta» senza mediazioni o commenti. Inoltre cerca di sottolineare la veridicità storica dei ricordi di Giacomino con una accurata distribuzione di particolari spazio-temporali, anche se con sfasature che per ora possiamo definire anacronismi.

I dettagli spaziali tunisini sono precisi [22]: teatro dell’incontro con il vecchio Giacomino nell’estate 1938 sono rue Sidi Abdelhak e le mura del cimitero cristiano, piazza Bab el Khadra dove staziona Zio Giacomino, «cercando il sole durante l’inverno e l’ombra durante l’estate su una piccola sedia che usano i calzolai … tenendo in mano una vecchia pipa a lui molto cara che non abbandona da più di mezzo secolo». La sua avventura tunisina parte dallo sbarco a Eddakla a Kelibia, ancor oggi porto di pescatori, e continua con l’arrivo al porto di La Goulette e al palazzo del Bey Ksar Essaid al Bardo [23]. E, a cornice, il ritorno a Bab el Khadra per il matrimonio nella chiesa di San Paolo.

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La chiesa di San Paolo a Bab el Khadra (ph. Jamel Chabbi)

Dal punto di vista della cronologia, la cornice della storia, cioè l’incontro tra il narratore e il protagonista, si svolge nell’estate del 1938. Ma le coordinate storiche dell’avventura a Tunisi mostrano una sorta di anacronismo, visto che il Bey è Muhammed che muore nel 1859, mentre Saddok Bey è principe ereditario fino al 1858. Inoltre la chiesa del matrimonio a Bab el Khadra assume il nome di San Paolo dei Maltesi nel 1882. Con questo arretramento nel tempo, forse voluto e non erroneo, Douagi finisce per mitizzare Giacomino e lo fa vivere più di cento anni, fino al 1938, pochi mesi dopo il loro incontro.

Ma lo scrittore attua un altro procedimento, con la sua narrazione, che potremmo definire di «palinodia del Moro». Attraverso le parole del siciliano Giacomino, sotto la forma del suo racconto ingenuo, positivo come la saggezza dei semplici che confidano nel lieto fine, l’iniziale demonizzazione dei mercanti arabi trafficanti di belle fanciulle si attenua e fa spazio alle persone, i tunisini di diversa estrazione incontrati nella sua avventura. La «palinodia» del musulmano nella persona tollerante e accogliente è cadenzata dalla ricorrenza degli aggettivi gentile, buono, sorridente, sincero. Il punto di vista si è rovesciato: il narratore di primo grado tunisino cede al narratore di secondo grado italiano la riabilitazione «dell’altro, del diverso»: il contadino insulano riabilita il mercante-pirata per mare. La mitizzazione concilia i contrasti, ma la Storia non si ferma: la tratta, il commercio o semplicemente il trasferimento per lavoro nelle case cittadine delle ragazze dei villaggi sperduti continua: un fenomeno che non ha coordinate geografiche e spesso senza finali rassicuranti, come per  la piccola giapponese di Memorie di una Geisha [24], per le ragazze siciliane del romanzo Un cannolo per lo sceicco [25]; come per  le ragazze delle campagne tunisine, come per  le ragazze nigeriane o del centro Africa.

Il mito si conferma codificazione di un vissuto, e il mare come contenitore di storie e di miti. E, come scrive a proposito del mare un poeta scrittore fortemente ancorato alla terra, alle sue Langhe: «Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi Torino, 1952).

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
[*] Questo lavoro nasce grazie allo spunto offerto dall’architetto Luigi Biondo, direttore del Polo museale di Trapani, e da un suo brillante commento sulle graste, durante una indimenticabile visita al Museo Agostino Pepoli; e dalla disponibilità di Jamel Chabbi, musicista di oud, compositore e autore, che ha tradotto per me la Storia di Giacomino di Ali Douagi.
 Note

[1] Per i Romani erano gli uomini delle tende.
[2] Arabi o berberi (IX sec.) o Mori, erano per i Siciliani “Turchi”, senza distinzione, i soldati musulmani che solcavano il mare per predare (Pitrè, 1870: 121). Pitrè ricorda come la terra d’Africa più vicina alla costa siciliana fosse in realtà la Barberia, cioè la Tunisia; ma anche come per i Siciliani fosse indistintamente la Turchia; da cui una serie di frasi e detti sui “Turchi” in cui sono ben attestati “testa di turco” (una pasta simile a un turbante) e “testa di moro” (un nodo marinaro). Su Pitrè interessante lo studio di Cusumano: 2016.
[3] Pagine interessanti su Palermo dell’epoca città al centro del Mediterraneo, si leggono in Franco Cardini- Alessandro Vanoli, La via della seta, Bologna, Il Mulino, 2017, in particolare: 167 e sgg.
[4] La leggenda è riportata, tra l’altro, in La leggenda della testa di moro, Edizioni Kalòs, 2017, e, nelle due versioni in https://www.vanillamagazine.it/le-teste-di-moro-una-storia-d-amore-gelosia-e-vendetta-dietro-un-icona-della-sicilia/  a cura di Giada Costanzo, 2017.
[5] La leggenda è raccontata da Antonino Navanzino in http://siciliastoriaemito.altervista.org/correva-lanno-del-signore-1090-notte-fine-luglio/ ; il docente e titolare di una nota bottega di ceramica, nel sito aziendale,  http://www.ceramicanavanzino.com, alle pagine dedicate alle teste di moro riporta però  la leggenda della khalsa.
[6] Le teste di moro continuano ad adornare non solamente i balconi siciliani, ma “viaggiano” lungo la penisola, soprattutto nelle città dove viva è la convivenza di popoli mediterranei; come Venezia dove splendide teste di moro sorridono dalla facciata di un edificio antico a Dorsoduro, accanto alla Basilica della Salute.
[7] Si veda La grasta di lu basilicò, racconto comico e di beffa, in Giuseppe Pitrè, Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, 1, Bologna, Forni, stampa anastatica, 1870 / 1913: 276.  Lo stesso Pitrè (Pitrè, 1870: 377) riporta il canto di Alimena (Palermo) “Grasta di basilicò ajuto mi duna / quannu la donna è schetta all’omu chiama”.
[8] Cfr.  http://siciliastoriaemito.altervista.org/perche-sicilia-gli-asini-si-chiamano-scecchi/ (agosto 2016)
[9] Coluccia ha pubblicato i due manoscritti della canzone, già studiati da Carducci (Giosuè Carducci, Strambotti e madrigali nei secoli XII e XIV, Pisa, Nistri, 1871) in “Medioevo romanzo”, 1975, II: 117-121.
[10] Cfr. Picone 2001; e Picone 2010: 37-52.
[11] Picone (2001: 182) rileva la presenza di segnali linguistici nella canzone/fonte, che permangono oltre la toscanizzazione dei copisti; tecnicismi metrici che riportano alla Khargia e al sostrato di cultura arabo-musulmana persistente in Sicilia; il vaso del basilico alla finestra, definito “blasone siciliano” senza però ulteriori approfondimenti.
[12] «A mettere in movimento l’invenzione boccacciana della testa dell’amante sepolta nel vaso di basilico è stato l’incipit della canzone; non ci troviamo davanti ad un caso di creazione personale, come la maggior parte dei critici intende» (Picone, 2001: 184). Rispetto alla canzone, in prima persona e nell’immediatezza della perdita del vaso, la novella è raccontata nella prospettiva di chi conosce tutta la vicenda dagli antefatti e secondo un riordino cronologico (:187-189), ma sembrerebbe anche di chi conosce le varianti delle storie popolari delle “graste”.
[13] Picone, 2001: 183-184, su un’analisi accurata dei manoscritti della canzone siciliana e del Decameron, perviene alla scelta di “testo” (vaso di terracotta, in gioco di parole con “testa” dell’amante), ricusando “grasta” presente in codici boccacciani, come l’Hamilton; una scelta da rivedere sulla base della storia delle “graste” che sarebbe all’origine della canzone.
[14] La si può ascoltare al link https://www.youtube.com/watch?v=0kaniLgRADo
[15] Si veda per esempio, Fara Misuraca- Alfonso Grasso, Pirati, corsari e schiavitù nel Mediterraneo, in www.ilportaledelsud.org, novembre 2011.
[16] Giuseppe Pitrè (in Canti popolari, cit.: 28 e 123-4) ricorda per esempio la “canzuna” (con musica): “quannu nascisti tu, bella munita, / Fusti di lu Granturcu addisiata”.
[17] Douagi ha lasciato memoria del suo viaggio crociera del 1931 lungo le sponde del Mediterraneo nel libro Ǧaulaton bayne ḥānāt al-Baḥr al-Mutawassit, edito nel 1935-1936 e, in edizione moderna, nel 1995 da Maison tunisienne de l’edition; tradotto in italiano da Isabella Camera D’Afflitto, In giro per i caffè del Mediterraneo, Abramo, 1995. Su questo réportage di Douagi si veda Khaled Chater, Le périple méditerranéen d’Ali Douagi (1933), in «Itinéraires méditerranéens», 2009:6; e Marianna Salvioli, La letteratura tunisina e il viaggio in Europa: periplo, migrazione o esilio, in «La rivista di Arablit” IV, 2014: 211-225.
[18] L’autore non solo è vissuto nel quartiere di Bab Souika a stretto contatto con la comunità italiana ed ebrea che la abitava, ma ha conosciuto direttamente nel suo viaggio alcuni luoghi dell’Italia meridionale; ha inoltre tratto una sua novella pubblicata nel 1935, Le trésor des pauvres dalla novella di Gabriele D’Annunzio. Leggo il racconto À la plage de Hammam-Lif nella raccolta Ali DouaJi, Dix nouvelles de Tunis, Tunis, Beit al-Hikma, 2013, traduzione di Nejmeddine Khalfallah.
[19] Leggo e cito la “storia dello zio Giacomino” nella traduzione dall’arabo letterario di Douagi di Jamel Chabbi. Esiste una traduzione da parte di Catherine Tissier, che traduce peraltro «Giaccomino», nella raccolta Ali Douagi, Longues, longues étaient mes nuits à cause, à cause de lui, a cura del Centre National de Traduction, Tunis, 2010: 131-137. Si veda anche Ali Douagi 2014: II. La prima edizione del racconto, postuma, è del 13 Febbraio 1953, sul giornale “Bel Makchouf” di Tunisi.
[20] Interessante in questo punto del racconto la nota di Douagi, che ricorda una serata a casa Lakhoua, invitato dell’erede Hedi che narra dell’avo proprietario di un harem di dieci concubine, con cui soleva passare la serata, eccetto una che si rifiutava piangendo fino a quando un giorno il marito venne a riprendersela. Il ricordo conferma a Douagi la veridicità del racconto di Giacomino (e forse lo induce a metterlo su carta), anche perché effettivamente Dar Lakhoua si trova nella medina di Tunisi (Bab Bnet) non lontana da rue Bacha.
[21] Sulla ricchezza polifonica di questa canzone si veda Candiani- Chabbi, 2016: 181-194; riproposto a Milano, in occasione dell’iniziativa “Senti chi legge”, Libreria Bocca, 1 Agosto 2018 e apparso in traduzione in arabo in «Al Hayat at Takafiyyah» Tunisi, aprile 2019: 112-116.
[22] Interessanti notizie sulla Tunisi dell’epoca di Giacomino, sui quartieri popolari e sulla convivenza multietnica si trovano in Ben Abdallah Chadly, Tunis au passe simple, Tunis, STD, 1977.
[23] Si tratta anche in questo caso di un anacronismo, perché sarà Saddok Bey a installarsi nuovamente al Bardo e nel 1869 al Palazzo di Ksar Es-Said. Sul periodo storico, questa e altre preziose testimonianze si trovano nel catalogo della mostra tenutasi a Tunisi, al Palazzo Ksar Es-Said dal 27-11-2016 al 27-2-2017 (Moummi 2016).
[24] Arthur Golden, Memorie di una geisha, TEA, 2000.
[25] Il romanzo di Alessandra Oddi Baglioni pubblicato nel 2017 da Dario Flaccovio, Palermo.
 Riferimenti bibliografici
Candiani Rosy – Chabbi Jamel, 2016: Migrazioni culturali in una canzone di Hedi Jouini, in Visioni mediterranee: itinerari, identità e migrazioni culturali, Atti del Convegno Internazionale, a c. Di Meriem Dhouib: 181-194.
Candiani Rosy, 2019, Dell identità di Ali Douagi, tra marginalità e avanguardia culturale, in “Dialoghi Mediterranei”, n.37, maggio 2019
Cusumano Antonino, 2016, Pitrè, il mare e l’immaginario, in “Dialoghi Mediterranei”n. 20, luglio.
Douagi Ali, 2014 II, Oeuvres complètes, Tomo II, Les contes, Ministère de la culture, Tunis, Imprimerie Finzi: 143-146.
 Fenu Barbera Rossana, 2001: La fonte delle lacrime di Elisabetta da Messina: Decameron IV.5, in “Quaderni di italianistica”, XXII, I: 103-120.
Moummi Ridha 2016, a cura di, L’éveil d’une Nation, Milano, Officina Libraria.
Picone Michelangelo, 2001: La <ballata> di Lisabetta (Decameron IV.5.), in “Cuadernos di filologia italiana”: 177-191.
Picone Michelangelo, 2010: La novella di Lisabetta da Messina di Giovanni Boccaccio, in “Per leggere”, n.19: 37-52.
 Pitrè Giuseppe, 1870, Canti popolari siciliani inediti, Palermo, Pedone Lauriel: 121.

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Rosy Candiani, studiosa del teatro e del melodramma, ha pubblicato lavori su Gluck, Mozart e i loro librettisti, su Goldoni, Verdi, la Scapigliatura, sul teatro sacro e la commedia musicale napoletana. Da anni si dedica inoltre a lavori sui legami culturali tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sulle affinità e sulle identità peculiari delle forme artistiche performative. I suoi ultimi contributi riguardano i percorsi del mito, della musica e dei concetti di maternità e identità lungo i secoli e lungo le rotte tra la riva Sud del Mediterraneo e l’Occidente.

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