di Marcello Bivona
Marinette Pendola è nata in Tunisia da genitori anch’essi nati in Tunisia ma di origine siciliana. Attualmente vive a Bologna, città di residenza scelta dai genitori dopo il rimpatrio. È studiosa della storia dell’emigrazione italiana in Tunisia ed è membro del gruppo costituente il “Progetto della memoria” voluto nei primi anni 2000 dall’Ambasciata Italiana di Tunisia che a tutt’oggi ha pubblicato diversi volumi di memorie sulla comunità italiana di quel Paese. Oltre a saggi e articoli, ha scritto quattro romanzi sul tema della memoria. I primi due sono autobiografici, i titoli sono: La riva Lontana, La traversata del deserto, L’Erba di Vento, Lunga è la notte.
La riva lontana, il romanzo d’esordio, ci riporta indietro nel tempo, ai primi mesi del 1962, quando, a seguito di avvenimenti politici che portarono all’indipendenza della Tunisia, come migliaia di altri italiani fu costretta a lasciare un Paese che ormai, dopo generazioni, sentiva come proprio.
Il romanzo, inizia nel giorno dell’addio alla casa di Draa-Ben-Jouder, quando Marinette, con la famiglia, si avvia alla volta del porto di Tunisi, sotto un cielo plumbeo e le strade bagnate. Ogni curva della strada, ogni angolo di campagna, le riporta alla mente i ricordi della sua ancor breve esistenza che ci fanno conoscere la vita quotidiana di una famiglia di origini siciliane radicata nel tessuto della campagna tunisina. La descrizione di luoghi e persone, la vita in collegio, i rapporti con le comunità araba, francese, ebrea, maltese, ci restituiscono un’epoca conclusa ancora in grado di destare emozioni e nostalgie per la naturalezza della convivenza tra le varie comunità.
«Perché cominciare i miei ricordi dall’ultimo giorno prima della partenza?» È Marinette che parla:
«Penso che tutti gli italo tunisini che hanno lasciato il “loro” Paese come è capitato a me, hanno vissuto l’ultimo giorno come quello più doloroso. Allora mi sono detta è meglio mettere subito il dito nella piaga e poi vediamo…Ho scelto la tecnica del racconto per flashback perché mi è sembrata più incisiva rispetto al racconto cronologico dalla nascita in poi. Era talmente importante quel giorno, l’ultimo giorno, che doveva essere il centro attorno al quale ruotava la storia. L’inizio di ogni capitolo, ci riporta alla realtà del viaggio per raggiungere il porto, dal quale si dipanano i ricordi non solo della mia vita, ma dei genitori, dei nonni, di un mondo, di un’epoca. Perché racconto la storia della mia famiglia? Non perché fosse una famiglia speciale, la differenza con le altre, forse, sta nel fatto che la mia viveva in campagna e non in città, e questo fatto mi dava la possibilità di descrivere un lato poco conosciuto della vita della comunità italo-tunisina. Il mio romanzo ha aiutato molta gente ad elaborare il lutto della separazione dalla Tunisia, e prima ancora, scrivendolo, è servito ad elaborare il mio lutto. È stato utile ai discendenti, alle generazioni nate dopo il rimpatrio, per conoscere o riscoprire la storia dei genitori, dei nonni, dei parenti. La pagina scritta è servita a ricostruire storie famigliari. La riva lontana è quella Italiana o quella Tunisina? Penso che proprio nell’ambiguità di questo significato si riassume il mio legame con le due sponde che hanno determinato la mia storia di donna e di scrittrice».
La famiglia di Marinette era arrivata in Tunisia, verso la fine del 1800. Più precisamente, nel 1881, il Paese nordafricano diventa protettorato francese. Ponti, strade, edifici pubblici, linee ferroviarie, scuole, quartieri residenziali, sono le grandi opere intraprese dai francesi. Molta mano d’opera arriva dal sud d’Italia soprattutto dalla Sicilia, dove grandi masse di disperati in cerca di condizioni di vita migliori si riversano sulla sponda sud del Mediterraneo.
Ognuno dei quattro nonni di Marinette ha una motivazione personale che lo porta ad intraprendere la strada dell’emigrazione. Il bisnonno paterno è fuggito da Sciacca perché ha assistito ad un delitto di mafia e temendo per la sua incolumità decide di partire. Il bisnonno materno era fornaio e con la crisi del grano di fine secolo, perde il lavoro e preso dalla disperazione parte. I suoi fratelli scelsero l’America, lui non se la sentiva di andare così lontano e sbarca in Tunisia. Motivi diversi ma identica condizione: non avere neppure i soldi per procurarsi un passaporto o un biglietto di seconda classe per un piroscafo in rotta verso l’America. In genere si affidavano a barconi di pescatori che li traghettavano sull’altra riva dopo solo una notte di traversata.
Marinette continua:
«Scrivere la mia storia è stato un atto doloroso e catartico, ma necessario a ritrovare il senso della mia identità. Quando ero piccola e frequentavo la scuola francese, tutti, dagli insegnanti alla famiglia, erano convinti che da grande sarei diventata scrittrice. Scrivevo bei temi, interessanti, che venivano letti in classe ad alta voce. Fossi rimasta in Tunisia, la cosa sarebbe avvenuta probabilmente in maniera indolore. Invece dopo la partenza, per prima cosa ho dovuto imparare l’italiano, poi fare in modo che diventasse una lingua mia. La scrittura oltre ad avermi aiutato ad elaborare il lutto, mi ha permesso di entrare nella lingua italiana. Anche se i miei testi appaiono semplici nel linguaggio, in realtà nascono da un grande lavoro di scrittura. Ci sono voluti moltissimi anni, dall’infanzia ad oggi, per arrivare a fare mio questo mezzo espressivo. Finché abbiamo vissuto là, eravamo talmente inseriti nel contesto che non si aveva coscienza di ciò che stavamo vivendo: quella era la vita. C’ è voluto il distacco, la distanza, lo strappo, per capire che tra il contadino siciliano e quello tunisino, c’erano molte affinità. L’essere mediterraneo li accomunava nelle tradizioni, nei pensieri, anche se le culture e le religioni erano differenti. Essendo vissuta in campagna, con la distanza del tempo e del luogo, riesco a leggere cose che altri non colgono. Qui sta l’originalità del mio raccontare il mondo degli agricoltori italiani, soprattutto siciliani di Tunisia. Di quel luogo oggi mi manca l’accoglienza della gente, la disponibilità ai contatti, il mettere avanti sempre il rapporto umano. Mi mancano gli odori, i sapori, i colori. Quando a Bologna ci sono le nebbie di piombo, penso ai cieli azzurri, alla luce, ai fiori. Cosa non mi manca? Il caos, il traffico di Tunisi, la scarsa pulizia delle strade. L’emigrazione italiana e siciliana in Tunisia rappresenta l’1% dell’emigrazione italiana nel mondo, è una piccola storia ma è importante farne memoria perché, visto come va il mondo di questi tempi, ha rappresentato una straordinaria esperienza di convivenza tra etnie e religioni, un esempio e una testimonianza di ciò che è stato possibile costruire. Se è avvenuto può capitare ancora, basta volerlo. Perché applicare questa ipotesi solo per le esperienze negative già sperimentate?»
Nel 1972, come viaggio di nozze, Marinette ritorna per la prima volta in Tunisia. Ritrova l’azzurro del cielo e il profumo del pane che non ricordava più.
«Sono andata in campagna a trovare i nostri contadini. Mi hanno accolta, coccolata, come fossi una figlia che torna dopo un lungo viaggio. Dopo la partenza pensavamo di non poter più tornare, ma quell’esperienza bellissima aveva preparato il ritorno dei miei genitori che avevano ritrovato immediatamente la loro dimensione tunisina. Avevo capito che il tuo paese è dove ti riconoscono. Attraverso la scrittura mi sono liberata dalla nostalgia e ora ritornare in Tunisia è solo piacere. Continuo a frequentare la famiglia dei contadini della nostra campagna, ci sono i figli, i nipoti, abbiamo nuovi amici. È un modo di tornare a casa, anche se una casa non l’abbiamo più».
Sto realizzando un ritratto filmato su Marinette Pendola, scrittrice che parla di memoria per affermare le identità donate dal mondo pluriculturale in cui ha, abbiamo, vissuto. Marinette scolpisce memoria. Con scalpelli affilati lavora a togliere, segue la vena dei ricordi, lima la patina del tempo e ci riporta all’oggi per onorare i suoi, i nostri, grandi vecchi.
Nell’ ottobre 2023, assieme a Marinette, Edoardo e François, rispettivamente marito e fratello, abbiamo trascorso una giornata magica alla ricerca di ciò che è rimasto della sua casa di Oued-El-Khadra, presso Zaghouan in Tunisia.
Raggiungiamo l’avenue Habib Bourguiba nel pieno di un concerto estenuante di clacson. L’appuntamento è a la montre di place 14 Janvier 2011, alle 9,30 di un mattino terso e soleggiato. Yahia Go, il cameramen tunisino, è puntuale. A bordo del nostro pulmino bianco seguiamo l’automobile rossa guidata da François e imbocchiamo l’autoroute in direzione Zaghouan. Chilometri di strade dissestate, interruzioni improvvise, lavori in corso, rallentamenti per via di mercati poverissimi brulicanti di poveri che vendono a poveri ciò che altri meno poveri hanno buttato. Una pesante immagine di non finito nelle case, nelle strade, nelle cose, trasmette un senso di impotenza. Tra squarci di blu greggi di nuvole si muovono solleticate dalle palme infastidite dal vento. Per tutto il viaggio Yahia mi parla dei suoi problemi familiari: due figli piccoli, la casa in affitto, la moglie alle prese con l’insegnamento, il lavoro precario… Fingo di ascoltare una trama che conosco a memoria ma la mia attenzione è rivolta alla grandiosità delle arcate che per molti tratti corrono controluce alla nostra sinistra. Sono gli archi dell’acquedotto romano, lungo 130 chilometri, voluto da Adriano, per portare le acque dalla sorgente delle montagne di Zaghouan a Cartagine.
È quasi mezzogiorno, il sole picchia forte, l’auto rossa che ci fa strada devia a destra imboccando una strada di campagna. Ci dirigiamo alla volta di Oued-El-Khadra, alla ricerca di quanto rimane della casa di Marinette ma i numerosi tentativi di imboccare la pista vanno a vuoto. L’immensa prateria è una distesa di erba rinsecchita dalla mancanza di piogge. I paurosi avvallamenti del terreno ci obbligano a procedere a passo d’uomo e dalle nuvole di polvere e terra sollevate dalle ruote vediamo sorgere, sulla destra, la maestosa montagna di Zaghouan.
Ci fermiamo per fare il punto della situazione: della pista nessuna traccia. Per la prima volta Marinette non trova la strada di casa, «Eppure è qui, l’ho percorsa un mucchio di volte….è cambiato tutto».
Si avvicina una Peugeot Pick Up, dalla quale scendono due uomini e un bambino. Da lontano hanno osservato le nostre manovre e vengono a vedere se ci serve aiuto. Non parlano che l’arabo, Yahia da cameramen diventa interprete e cerca di spiegare loro perché siamo là e cosa cerchiamo. Conoscono i ruderi di una casa, molto più in là, tra filari di ulivi, ma le piste sono cambiate, bisogna fare un giro diverso, da un’altra parte, tra salite e discese. Marinette in francese cerca di spiegare loro che si tratta della sua casa, degli ulivi che ha piantato il nonno e il papà. Sorridono, non capiscono il francese, sono nati molto dopo l’indipendenza. Non sanno nulla degli italiani, delle loro case. Sorridono scuotendo la testa mentre il bambino si stringe timidamente tra le gambe del papà. Forse la memoria è nel nero profondo dei loro occhi, nella fila irregolare dei denti offerti in sorrisi senza tempo, nelle mani grosse, callose, nella postura dei piedi larghi incollati alla terra. Se ne vanno ribadendo le indicazioni per raggiungere il posto.
Ci dirigiamo verso Zaghouan, ripromettendoci di riprendere le ricerche nel pomeriggio. Facciamo tappa sulla collina di Zaghouan, dove si vedono i resti del serbatoio di pietra, costruito con la grazia con la quale si erigevano i templi, da dove partiva l’acquedotto. Da là si domina tutta la campagna a perdita d’occhio in direzione di Tunisi.
Marinette, da piccola ci veniva in gita scolastica, e cerca di ricomporre il mosaico dei ricordi. Si rivolge al fratello François, più giovane di qualche anno, che in quei luoghi non tornava da oltre trent’anni. I suoi ricordi sono continuamente interrotti dai venditori di kaak warka, specialità di Zaghouan, che all’ingresso del sito vendono le piccole ciambelle bianche ripiene di pasta di mandorla: dolci deliziosi. Filmiamo con due camere, Yahia sta sui totali, io cerco i dettagli, i primi piani, il gioco degli occhi tra Marinette e François. «Ricordo tutto come fosse ora. Ecco, là mi sedevo a mangiare la merenda che mi aveva preparato la mamma, Mi sembra di sentire ancora i profumi, gli odori del tempo». Ogni tanto puntualizza «Questo l’ho scritto ne La Riva Lontana», «questo lo racconto ne La traversata del Deserto», come se dicesse: tranquilli, è tutto scritto, la memoria è salva.
A pranzo siamo dall’amico Mohamed Habib Boullègue, medico all’ospedale di Zagouan che Marinette ha conosciuto qualche anno prima in occasione di un convegno sulla storia di Zaghouan. Turkya, la moglie, medico anestesista nello stesso ospedale, ha preparato un ottimo couscous e brick.
Dopo pranzo quattro chiacchiere, sorseggiando l’immancabile the alla menta accompagnato da dolci e fichi d’india appena colti e poi via, alla ricerca della casa di Marinette. Mohamed vuole accompagnarci e prende il mio posto sul furgone con Yahia. Io salgo sull’auto rossa per poter filmare le impressioni di Marinette e François. A un bivio, seguendo le indicazioni dei due tipi incontrati al mattino, lasciamo la strada provinciale per prendere una pista che si inoltra in una campagna deserta color ocra. I promontori, uniti da piste impraticabili si susseguono all’infinito perdendosi ai piedi della montagna di Zaghouan. Il sole calante delle sei pomeridiane inizia ad addolcire le ombre e tutto prende l’armonia delle tinte pastello. Ogni tanto Marinette dà indicazioni di fermarsi, si consulta con François ed Edoardo sulla direzione da prendere. A momenti riconosce il luogo in cui sorgeva una grande ferma francese, ma subito dopo perde le coordinate. «Mi prende un po’ di angoscia – dice – nel non riconoscere questi luoghi, perduti come si perde la memoria…»
La direzione è giusta rispetto alla montagna sulla sinistra e alle pieghe del terreno intorno, ma della casa nessuna traccia. Scendiamo e rimontiamo sugli automezzi ma poco dopo il terreno si fa impervio e dobbiamo proseguire a piedi. Le collinette si fanno brulle e le tagliamo scavalcandole una dopo l’altra. Ogni volta che ne guadagniamo l’apice speriamo di scorgere i muri consumati che stiamo cercando. Il sole avanti a noi si arrossa, prende velocità nel calare e la nostra corsa contro il tempo diventa necessaria. Dobbiamo trovare il sito prima che il sole cali del tutto impedendoci di filmare. Camminiamo sparsi, come caprette intente a brucare. Marinette è avanti con François e dopo aver guadagnato un altro promontorio la sentiamo gridare «Eccola, l’abbiamo trovata!»
La casa, ciò che resta della casa, è la. Un perimetro di muri stagliati nel controluce del sole che naviga ancora. Marinette e François ritrovano le coordinate di una cosa scomparsa nel tempo, scolpita nella memoria. «Qui ricordo, c’era un albero», «Qui, ricordo, papà si fermava con l’auto dopo aver segnalato con il clacson il suo arrivo», «là, ricordi, è quando giocavamo con la balançoire», «Questo no, non lo ricordo, ero piccolo». Ricordo, ricordo, ricordo… e tutto prende vita, come terra riarsa sotto pioggia scrosciante. Tornano le ombre, si avvertono le voci, i rumori di una porta che si apre, di una padella sul fuoco, di quella sedia cigolante, del rubinetto che perdeva, del raglio dell’asina che si mungeva all’alba.
Marinette e François sono soli, tra le cose a cui hanno appartenuto. L’anima dei loro cari è in quelle cose. Mariano, il papà, è in quella trave della porta troppo bassa, tanto da sbatterci la testa ogni volta che ci passava. Vincenzina, la mamma, è in ciò che è rimasto delle piastrelle bianche della parete dei fornelli. Filmiamo contro natura, sfidando l’oscurità che incombe, fin quando i sensori digitali, impazziti, inizieranno a slabbrare i contorni delle immagini e i toni si faranno grigi, annebbiati. Riesco ancora a seguire François che sui resti di una parete scorge le tracce di un intonaco del tempo di un azzurro ormai slavato. Lo scrosta con le mani e ne stacca un frammento. Lo stringe nel pugno. Poi apre il palmo e lo offre al sole che agonizza sulla linea dell’orizzonte. «Questo lo porto con me» sussurra. Gli occhi lucidi. Gli sto appiccicato con la camera, non voglio perdere nulla. Silenzio.
Decidiamo di rientrare prima che il buio cada del tutto. In lontananza udiamo dei fruscii. È un vecchio pastore a cavallo d’asino che conduce un gregge di pecore all’ovile. Lo salutiamo e si ferma per sapere cosa facciamo in quel luogo e a quell’ora. Parla solo il dialetto tunisino e fortunatamente Yahia e Mohamed possono tradurre. Yahia, con intuizione, attiva la torcia del cellulare e pur se in pessime condizioni riusciamo a filmare. Marinette gli racconta della sua casa e della sua famiglia. Il pastore, a quel tempo giovanissimo, ricorda gli italiani che vivevano nella zona fino al 1964, anno della nazionalizzazione delle terre. Ricorda l’esodo massiccio delle famiglie di origine siciliana, costrette a lasciare le terre acquistate con mille sacrifici con il lavoro di tre, quattro generazioni.
A un certo punto chiede il nome di famiglia e quando Marinette gli dice che loro erano i Pendola, si crea un momento magico. «Marianu! Marianu! Sidi Marianu!». Esclama il vecchio, e annuendo con la testa, riprende il suo cammino seguito dal gregge. Marinette e François sono increduli per il fatto che a distanza di sessant’anni c’è ancora qualcuno che ricorda la loro famiglia e il nome del loro papà. Anche Edoardo ha ripreso la scena col cellulare. Marinette e François hanno gli occhi lucidi. «A volte si ha la sensazione di aver sognato tutto, poi basta che qualcuno pronunci il nome di Marianu e tutto improvvisamente ritorna vivo presente». Marinette parla a fatica ma bastano i suoi occhi a spiegare tutto.
Il vento si è calmato, è tempo di lasciare i morti, le anime e i loro respiri, i muri consumati dal vento e dal sole, gli ulivi immobili e scuri che si preparano ad una nuova notte. Il buio ora è totale. Sotto milioni di stelle torniamo silenziosi alle nostre auto.
Nella casa di campagna a Bologna, Marinette continua a scolpire memoria. Attorno ad un couscous che ha preparato in occasione di un raduno di famiglia, si intrecciano storie, ricordi, aneddoti. Il couscous è una metafora, un’appartenenza, un ritorno. Il couscous cambia continuamente. Secondo le stagioni, le città, l’estro di chi lo prepara, le spezie, le verdure, se è di carne o di pesce, se è ricco o ridotto al necessario. È un gioco di colori, profumi, consistenze mutevoli con mille abbinamenti diversi, come la memoria. Gustando il couscous di Marinette il tempo si scompone, il prima e il dopo perdono i confini e si resta soli appesi al tempo della propria storia.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
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Marcello Bivona, è nato a Tunisi nel novembre 1953. All’età di cinque anni lascia la Tunisia a causa delle vicende che costringono la comunità italiana al rimpatrio. Da allora vive nella provincia di Milano. Il tema dell’Identità e della memoria sono presenti in tutta la sua opera. Lo strappo lacerante della partenza, l’esperienza disorientante della nuova vita in Italia, sono la base dei suoi racconti che siano scritti o filmati. Ha lavorato per molti anni come bibliotecario e organizzatore di eventi culturali realizzando diverse opere tra cui: Clandestini nella città, lungometraggio, prod. C.O.E., 1992; Ritorno a Tunisi, docufilm lungometraggio, prod. C.O.E, 1998; L’Ultima Generazione, romanzo, edizioni BESA, 2019; Siciliani d’Africa – Tunisia Terra Promessa, docufilm lungometraggio, prod. A. Campisi, 2022.
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