La storia che Mario Genco, autore di questo puntiglioso scandaglio genealogico, ricostruisce dei Pirandello del mare insediatisi a Palermo dalla fine del ’700, è, si può dire, per omeotica rappresentazione, un vero e proprio “viaggio” attraverso la famiglia ascendente del drammaturgo agrigentino. E il libro è pure costruito, segnando le “fortune” di venti e marosi, approdi felici e fughe dal mare specularmente vissute dai Pirandello, come un vero e proprio “giornale di bordo”, numerato per capitoli anepìgrafi, e registrato per tempi e luoghi diversi sul grande “portolano” della ricerca archivistica.
Luigi Pirandello è, in fondo, il terminale di questo “viaggio”. Non accoglie bene il suo grembo parentale, lo gratifica di quell’umorismo amaro e corrosivo che percorre la tradizione siciliana dei parenti/serpenti. Le Novelle pirandelliane sono un lessico famigliare rovesciato, che nulla hanno di quell’aura d’insidiosa nostalgia che caratterizza le biografie della nostra letteratura. Le persone del suo teatro e delle sue novelle finiscono tutte nel “cratere” di una ambigua esistenzialità, sotto il peso inerte della storia, ma pure incapaci di uscirne fuori.
Col mare, con la “civiltà del mare” e dei suoi capitani, Luigi Pirandello rompe i suoi rapporti fin da giovane; e Palermo (dove pure ha vissuto le sue prime esperienze di vita) gli si mostra estranea e lontana. Perché?
Il filtro dei riferimenti storici che tessono nel libro la trama delle vicende palermitane, dall’euforia mercantile del primo Ottocento al tracollo industriale e marittimo di fine secolo, spiegano forse il rancoroso distacco del drammaturgo dal mare. La caduta di quella “civiltà”, in una Sicilia sempre più “sequestrata”, in fuga di capitali e culture verso la campagna, non fa più riconoscere all’intellettuale smagato dei Vecchi e Giovani l’ottimismo volenteroso degli avi che percorrevano il mondo. Perfino l’anagrafe familiare gli è indifferente, se lascia incerto nella memoria sua e dei suoi biografi il nome del nonno (Andrea o Luigi?), che Genco riesce a collocare al posto giusto nell’albero genealogico della famiglia Pirandello.
Un episodio, quindi, di quel disincanto etico e politico tutto siciliano, che scontava in Pirandello, come nel Verga e in De Roberto, le delusioni del Risorgimento, da un lato, e il declino della borghesia imprenditrice, dall’altro. E, per questo, anche il mare dei Malavoglia, su cui confidava Bastianazzo per la Provvidenza della sua famiglia, era lontano e ostile.
Genco sa manovrare il suo libro da nocchiero di complesse ricerche d’archivio, per raccontare la storia esemplare di una Sicilia che non c’è più. Palermo, in particolare, era proiettata sul mare, dove la borghesia dei Florio e dei Riso cercava di costruire le proprie fortune economiche, con iniziative d’intrapresa capitalistica che dureranno anche dopo l’Unità Nazionale. Ma già durante il regno indipendente dei Borboni di Napoli si era avviata una intensa attività marittima, collegata con la fondazione dell’Arsenale di Castellammare e la istituzione delle prime scuole nautiche (la Gioeni di Palermo, nel 1789). In quella di Palermo si formarono allora, sulla Pratica del manovriere, – il fortunato e longevo manuale di Giovanni e Michele Fileti, – intere generazioni di marittimi, come i Pirandello e i Di Bartolo, che i mari del mondo percorsero da mercanti o corsari. E, anzi, nella memorabile impresa di Vincenzo Di Bartolo, che arrivò fino a Sumatra col brigantino Elisa, del mercante Benjamin Ingham, si sono quasi metaforizzate – attraverso il Diario che ne trasmise il ricordo – l’audacia e la perizia dei nostri capitani di mare.
Del resto, i contrasti economici della Sicilia con Napoli, per il cosiddetto libero cabotaggio tra le due parti del Regno, avranno sul mare e sui traffici marittimi la loro più acuta manifestazione. Al fiorire del commercio sul mare, alla forza del naviglio, era saldata in gran parte la vitalità di una borghesia che vivrà poi, nell’impatto con lo Stato unitario, le difficili congiunture del declino economico del Sud e, infine, la sua marginalizzazione.
È questo il contesto storico in cui la vicenda, per più aspetti esemplare, della famiglia palermitana dei Pirandello si colloca. E nella ricostruzione di Genco essa fa da sfondo, ma ne assume qua e là risalto per gli stessi rapporti catastali e interpersonali che segnano le biografie dei vari componenti di quella famiglia. L’ultimo, illustre, Luigi dei Pirandello ne ricaverà, di riflesso, una sensazione di disagio, spesso di malanimo, che lo scrittore utilizza per costruire le sue maschere, soggetti di vita ricavati dalla memoria, ma piegati alla espressione informale dell’arte. “Nato in una famiglia che con il mare e con la navigazione aveva costruito la sua fortuna, dove in ogni generazione c’erano stati comandanti di navi e alcuni navigavano mentre lui scriveva novelle e commedie, lo scrittore mostrò particolare disprezzo per i capitani di lungo corso”.
Ed è per lo meno strano che una esperienza, particolare e intensa come quella dei Pirandello del mare, non abbia creato nello scrittore quel rapporto simbiotico, di nostalgie e di affetti, che caratterizza ogni memoria familiare, ma che egli invece inserisca i suoi ricordi in un giuoco grottesco di maschere, rovesciando i sentimenti personali nell’ironico wit delle novelle e del teatro.
E, del resto, a testimoniare dello stesso distacco della odierna Palermo dalla sua tradizione marinara è l’assenza, come Genco registra alla fine del suo volume, di un qualsiasi ricordo toponomastico dei tanti capitani di mare che hanno illustrato la famiglia Pirandello: “Neppure una strada, una piazzetta o un vicolo a ricordarli, fra i tanti spazi disponibili nella borgata marinara dell’Acquasanta”.