Taliàtilu, taliàtilu stu paisi, taliàtilu pi l’urtima vuota, picchì ccà nun ci turnamu cchiù [1]. Sono le parole di una madre ai propri figli all’alba della partenza per la Merica, parole gonfie di rassegnazione, rabbia e timorosa speranza per il futuro in terra sconosciuta. A pronunciarle è Maruzza, protagonista dell’omonimo romanzo di Vincenzo Muscarella (Edizioni Arianna, Geraci Siculo 2020), alla sua seconda impresa editoriale dopo Damiana, pubblicato nel 2017 [2].
Maruzza è il primo romanzo della trilogia “Tri Matri” che comprende Antunina e Marietta, di prossima pubblicazione. I tre libri portano nel titolo i nomi delle madri di tre ragazze di Cerda vittime dell’incendio divampato nel 1911 nella Triangle Shirtwaist Factory di New York, tragedia in cui morirono ben 126 donne e 20 uomini, e che costituì l’evento notevole da cui prese le mosse l’emanazione delle norme per la sicurezza sul lavoro. Il fatto coinvolse da lontano numerose comunità italiane ed europee da cui erano emigrate le famiglie delle operaie e da esso è scaturita, malgrado una discrepanza di date (l’incendio avvenne il 25 marzo), la commemorazione dell’8 marzo poi divenuta “festa della donna”.
Laddove la cronaca si arresta alla narrazione dei fatti, incluse le vicende giudiziarie che seguirono, la ricerca dalle vive voci dei sopravvissuti e delle famiglie coinvolte ha consentito di ricostruire i retroscena di coloro che hanno trovato la morte in una terra a cui erano approdati alla ricerca di una vita migliore. Da qui le narrazioni delle condizioni di lavoro, delle comunità di emigrati, delle strategie messe in atto dai trafficanti di esseri umani e, non ultime, dei contesti di partenza, tra le difficoltà economiche e sociali quali fattori di spinta e le prospettive immaginali di una terra dell’abbondanza quali fattori di attrazione.
L’ultima voce a testimoniare la tragedia della Factory è stata quella di Rose Freedman (morta nel 2001 all’età di 108 anni), superstite dell’incendio, che in una intervista così ricorda: «Tutti gridavano e correvano per mettersi in salvo, ma le porte di uscita erano sbarrate. I padroni avevano paura che rubassimo, o che facessimo troppe pause, così ci chiudevano dentro» [3]. Altre storie, raccolte dai racconti dei familiari emigrati, ricostruite per rimettere insieme i pezzi di differenti complessità sociali sono quelle riportate da Annie Rachele Lanzilotto, scrittrice italoamericana che ha visitato le comunità di origine di ventiquattro operaie siciliane decedute nella Factory, lavoro sul campo narrato in un articolo [4] della scrittrice Ester Rizzo, autrice a sua volta del romanzo Camicette bianche [5].
Al romanzo della Rizzo fa riferimento Vincenzo Muscarella, che in chiusura al suo libro scioglie debiti di riconoscenza per la produzione letteraria e il lavoro di ricerca, grazie al quale siamo in grado oggi di conoscere le vicende che hanno condotto oltreoceano le protagoniste e i protagonisti di un tragico destino. Un destino che, forse per l’antico legame siciliano con la cultura greca arcaica, viene tessuto dalle donne intente al ricamo sull’uscio della porta di casa, nelle piccole strade di Cerda, «chine sui telai, attente a combinare, con il su e giù preciso e sicuro del filo nell’ago, punti a erba, a croce, a ombra […] mentre qualcun’altra più appartata, di solito la più svelta e attenta, col tombolo sulle gambe faceva danzare tra le mani i fuselli appesi ai fili […] in affettuosa competizione con l’amica vicina con la navetta del chiacchierino tra le dita», immagine che richiama le tre Moire: in tale cornice narrativa Muscarella inserisce un fatto saliente del racconto, che culmina con una esplicita ammissione dello stesso autore rispetto ai due protagonisti della storia, Maruzza e Ciccio, che «incrociavano i fili delle loro vite per tessere la tela di un futuro comune».
Maruzza e Ciccio sono i genitori di Pinuccia (che in America diventerà Josie), la cui giovane vita viene spezzata dall’incendio della Triangle Factory, dramma che Muscarella sceglie di raccontare all’apertura del romanzo, perché così, come sottolinea Francesco Tornatore nella prefazione al romanzo, prima vi ricu u tintu e doppu vi ricu u bbuonu [6]. E poiché la vicenda dell’emigrazione non comincia laddove si giunge, ma dove si parte, dove si è nati e cresciuti, Muscarella ci accompagna nella Cerda di inizio Novecento, ci conduce nella società e nelle consuetudini che plasmano i destini e li caricano di senso e soggettività, oltre l’événementiel; offre al lettore una storia d’amore semplice, ma osteggiata dalle rigide convenzioni sociali e da eventi che condurranno i due a scegliere di lasciare per sempre la Sicilia per vivere negli Stati Uniti d’America.
Ma incontriamo adesso Vincenzo Muscarella, che ringrazio per l’intervista che segue e che ci offre un’ulteriore opportunità di conoscere meglio il suo intenso lavoro e la sua ispirazione.
D’obbligo è una domanda sulla genesi del romanzo, sulla storia della sua nascita e sulle scelte operate per la costruzione dell’intreccio. Come Damiana, anche Maruzza si è fatta avanti perché la sua storia venisse raccontata, madre anche lei e prima delle tre Madri di una trilogia. Come ha bussato alla porta, questa forte picciotta dai ricci ribelli? Ci parli, inoltre, del progetto della trilogia.
«Premetto che per me le storie e i personaggi dei romanzi, dei racconti, di qualsiasi opera letteraria e non, sono tra noi, accanto a noi, sono nell’aria e cercano solo l’occasione per palesarsi e farsi raccontare, facendosi strumento degli autori stessi. Ecco, io così mi sento; strumento del loro volere.
Sta a quelli che hanno la fortuna di incontrarle, trovare le parole. Poi occorre solo l’occasione e lo stato d’animo giusto. Se per Damiana l’occasione fu l’ennesimo femminicidio e la necessità di fare io qualcosa per quest’enorme questione, per Maruzza è stato l’incontro casuale con un mio vecchio amico, che da un po’ di tempo ci ha lasciati, e che conoscendo la mia passione e il mio impegno per la ricostruzione della storia più recente del mio paese, come a volermi rimproverare mi apostrofò: “Vicé, ma tu u sai ca tri picciotte ca mureru nell’incendio di New York eranu du nostru paisi?”. Questo è stato l’innesco, il dopo è stato l’incontro con Rosaria Migliore che mi ha dato ulteriori ragguagli e poi il libro Camicette Bianche di Ester Rizzo. Lo stato d’animo: la sofferenza per l’immane tragedia degli emigranti che si perpetra giornalmente nel nostro Mediterraneo. Inoltre un vissuto giovanile in cui l’emigrazione ha segnato momenti di assoluta sofferenza: la partenza della sorella di mia madre con i figli, i tanti amici e compagni di scuola partiti al seguito dei loro genitori, emigranti per necessità. La trilogia nasce dal numero delle madri, ma mi è servita per affrontare i tre diversi aspetti dell’emigrazione di fine Ottocento: quello sociale con Maruzza, quello storico-politico con Marietta e quello puramente economico con Antunina. Anche i diversi epiloghi troveranno soluzione nell’ultimo dei tre romanzi e testimonieranno i diversi destini che normalmente attendono gli emigranti: il ritorno in patria, l’affermazione sociale, fare i soldi. A suo modo Maruzza, pur così giovane, rompe gli schemi della società cristallizzata dalla tradizione più bieca e dal pregiudizio. La sua bellezza e la sua prorompente vitalità sembrano anticipare quei cambiamenti che si affermeranno nel Novecento».
Al termine del libro sono presenti i ringraziamenti ai familiari delle ragazze emigrate, a studiosi e accademici, il che infonde nel lettore l’idea di una coralità della narrazione; particolarmente interessanti sono gli interventi sulla parte dialettale e delle tradizioni popolari. Lo stesso prefatore, Francesco Tornatore, sottolinea però quanto lo scrittore sia testimone oculare di fatti e consuetudini che dotano la quotidianità dei personaggi della propria vita e dei propri romanzi di una caratteristica esteticamente forte, che è quella di una verità popolare asciutta e da cogliere come si presenta agli occhi. In Maruzza il lettore viene scosso dalla forza mistica e brutale del momento del parto, ma viene anche messo a parte della ricetta per cuocere ottime melanzane ammuttunate; le pietanze per le cene di San Giuseppe, gli antichi mestieri narrati durante il percorso del personaggio Vanni come fossero parte di un presepe vivente. Qual è stata l’avventura del narratore nell’offrire al lettore questa pienezza di sicilianità degli usi e della lingua?
«Voglio precisare che la mia scrittura viene dal vissuto: sono figlio di contadini, nato e cresciuto tra quelle strade di paese. Tutte le descrizioni fanno parte dei miei ricordi dell’adolescenza, erano sedimentate e aspettavano solo di essere riesumate; altri aspetti invece sono frutto di ricerca e di testimonianze dirette di anziani a cui mi sono rivolto. In riferimento alla sicilianità, lungi da me voler scimmiottare il maestro Camilleri, come ho detto prima sono gli stessi personaggi e le situazioni che pretendono il dialetto. Le espressioni e i termini affondano nel modo di parlare e di esprimersi della gente di Cerda, nelle case, nella piazza, nelle strade e nelle trazzere».
Il libro include in bibliografia La Spartenza di Tommaso Bordonaro e più volte è adoperato il termine “spartenza”. Bordonaro, attraverso il suo diario, ha narrato la propria storia, ma certamente ha condotto il proprio paese di origine, Bolognetta, alla ribalta nazionale facendo della propria vicenda individuale una narrazione corale che ancora oggi si rispecchia in un territorio che esprime la volontà di conservare la memoria dell’emigrazione verso l’America. Nel romanzo emergono inoltre gli aspetti drammatici legati alle speculazioni, al traffico di esseri umani e alle condizioni di viaggio disumane sulle “carrette del mare”, locuzione analoga a quella oggi adoperata per i barconi dei migranti. Qual è la vicenda di Cerda nella storia dell’emigrazione e come se ne conserva oggi la memoria?
«Ho letto il libro di Bordonaro e conoscevo già il termine spartenza, che veniva utilizzato come un atto di divisone, spesso in disaccordo. Spàrtiri, come divisione, come separazione a forza di un legame naturale; appunto come staccare una madre da un figlio, e veniva subìta con lo stesso dramma di un addio. Per quanto riguarda la conservazione della memoria dell’emigrazione dal mio paese che ha riguardato la gran parte delle famiglie, nulla è stato fatto, resta solo nei ricordi delle stesse famiglie e dei singoli. Solo l’emergere del ricordo delle tre vittime, per merito della scrittrice Ester Rizzo e della risonanza che ne è seguita, ha sollecitato la deposizione di un cippo alla memoria e l’intitolazione di una piazzetta antistante la scuola media. La conoscenza della vita nelle stive, delle traversate e delle tragedie che in esse si consumavano sono frutto dello studio e della ricerca. La consolidata “tradizione” del traffico di esseri umani invece è un nitido ricordo, legato al fatto che anche a mio padre fu proposto di mpignarisi la casa e il terreno per un passaggio “certo” verso la Merica. Non se ne fece nulla perché mia madre, che aveva sofferto parecchio per la spartenza della sorella e considerando quella terra, terra di dolore, si oppose fermamente convincendo mio padre e quasi assicutò l’intermediario».
L’amore tra i due protagonisti della vicenda, Maruzza e Ciccio, nasce e cresce seguendo le peculiarità di un tempo passato: gli sguardi in chiesa, i messaggi scritti su foglietti ripiegati fino a diventare minuscoli per poter essere nascosti tra le pieghe del seno, fugaci incontri nelle vanedde del paese. Fino a quando, pur avendo rispettato la prassi della richiesta di permesso ai genitori, l’amore tra i due viene osteggiato dalle famiglie, la fuitina rappresenta l’unica via per la felicità, ma al caro prezzo di una vita di stenti e umiliazioni. Guardando al tempo di oggi, così diverso e lontano, in cui le relazioni amorose sono ormai prive di simili condizionamenti, come si può spiegare, specialmente a un pubblico giovane, la forza di un amore tra due che si conoscono appena e malgrado ciò sfidano le leggi sociali?
«La gran parte se non la totalità dei matrimoni veniva combinata tra le famiglie e regolata da canoni ben precisi; sono stato testimone della firma di un vero e proprio atto scritto tra mio nonno e il consuocero per il matrimonio di una mia zia. Di solito, dopo che le madri si accordavano c’era un periodo di fidanzamento, più o meno lungo “pi putìrisi canusciri”. La fuitina, oltre che per ovviare ad un contrasto tra le famiglie, per quelle più povere era di norma un modo per evitare le spese del trattenimento che non potevano essere affrontate. L’unione, la differenza dei ruoli e il senso della famiglia facevano il resto. In quella società ancora arcaica in cui il maschio sembrava essere il dominus, era la donna, la moglie, la madre attraverso il suo quotidiano ad essere il cemento. Ma assieme a questo andazzo, c’erano le storie d’amore: la chimica scoccava per uno sguardo, per un sorriso ammiccato, per una bellezza particolare − i picciottii si piacevanu − il corteggiamento nelle poche occasioni di socialità come la messa in chiesa, le feste di paese o in famiglia. Anche in questa fattispecie la grande storia d’amore tra miei genitori, fortemente contrastata, che amavano ricordare, mi ha dato un forte spunto. Insieme all’eterno sentimento dell’amore c’era il rispetto reciproco e il senso della divisioni dei ruoli. Cosa dire ai ragazzi d’oggi? Occorre solo rallentare, cercare e trovare il tempo giusto per farsi accarezzare dalla vita che è fatta di sentimenti e di sensazioni. Un “Noi “invece di due “Io”».
Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] “Guardatelo, guardatelo questo paese, guardatelo per l’ultima volta, perché qui non torneremo più”.
[2] Cfr. V. Richichi, Dal silenzio alla musica, la ribellione di Damiana, in «Dialoghi Mediterranei», n. 27, settembre 2017: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dal-silenzio-alla-musica-la-ribellione-di-damiana/.
[3] Cfr. L. Dini, 8 marzo, Rose Freedman, l’ultima sopravvissuta al rogo della Triangle Factory, in «Vanity Fair», 8 marzo 2019: https://www.vanityfair.it/news/storie-news/2019/03/08/rose-freedman-sopravvissuta-incendio-triangle-manhattan-giornata-donne.
[4] Cfr. E. Rizzo, Da New York alla Sicilia per raccontare la tragedia della Triangle”, in Malgradotuttoweb, 14 luglio 2018: https://www.malgradotuttoweb.it/new-york-alla-sicilia-raccontare-la-tragedia-della-triangle/.
[5] Id., Camicette bianche. Oltre l’8 marzo, Navarra Editore, Palermo 2018.
[6] “Prima vi racconto il brutto, poi il buono”.
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Valentina Richichi, laureata in Beni demoetnoantropologici presso l’Università di Palermo e specializzata in Antropologia culturale presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, si interessa di educazione nelle classi multietniche e di processi migratori. Ha svolto ricerca nel contesto dell’accoglienza ai migranti minori non accompagnati. Attualmente opera nell’ambito dell’editoria e degli studi sull’emigrazione storica siciliana. È membro del comitato scientifico del Museo delle Spartenze di Villafrati (Palermo).
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