di Linda Armano
Nel 1991 Ralph Johnson, dell’University of Washington, pubblicò un importante articolo intitolato “Fragile Gains: Two Centuries of Canadian and United States Policy Toward Indians” in cui comparava la storia della politica federale degli Stati Uniti con quella del Canada specificando che:
«In contrast to the radical swings in Indian policy in the United States, “the most singular feature of Canadian legislation concerning Indians is that the governmental policy established therein, that of ‘civilizing the Indians, has shown almost no variation since the early 19th century when the government assumed responsibility for the society and welfare of the Indian population» (Johnson, 1991: 666).
Fino agli anni Novanta in Canada, diversamente dagli Stati Uniti con l’United States Supreme Court, mancava un regolamento ufficiale relativo alla possibilità, per le comunità indigene, di autogovernarsi. All’inizio degli anni Novanta del Novecento esisteva infatti solo l’Indian Act che controllava la distribuzione dei gruppi e regolamentava le riserve. Nonostante l’iniziale arretratezza legislativa a favore delle comunità native, il Canada ha comunque raggiunto, seppur con innumerevoli scontri tra le First Nations ed il Governo Federale, compromessi lievemente migliori tra le due parti rispetto agli Stati Uniti. Infatti, mentre le comunità indigene statunitensi subiscono ancora oggi un mancato riconoscimento di molti diritti relativi soprattutto alla proprietà della terra, in Canada alcuni gruppi nativi sono riusciti ad imporre, anche se solo in parte, un’autoregolamentazione delle loro terre e, di conseguenza, delle loro attività tradizionali e cerimoniali. Ciononostante, sia in Canada che negli Stati Uniti, persistono ancora difficoltosi rapporti tra gli indigeni e i rispettivi governi che vengono spesso pubblicamente offuscati. La manipolazione dei fatti e la relativa diffusione di notizie da parte dei mass media comportano, di conseguenza, fraintendimenti anche all’interno della popolazione bianca nei confronti delle comunità indigene, determinando forme di razzismo o di incomprensioni più o meno aperte da parte dei primi nei confronti delle seconde.
Nonostante in Canada le First Nations siano riuscite a raggiungere, seppur minimamente, una forma di autogoverno che consente loro, almeno in apparenza (dato che la struttura autogovernativa è assolutamente vincolata al potere politico del Governo Federale), di prendere decisioni relative alla gestione socioeconomica della propria comunità (come per esempio sulle forme di tassazione), all’uso tradizionale della terra e alle pratiche cerimoniali, Kathleen Burrage sostiene che:
«In the United States, earlier policy periods of assimilation and even termination of indigenous societies have to some extent been remediated through the legislative framework that began with the Indian Reorganization Act, through such judicial doctrines as tribal sovereignty, and through a policy period of self-determination that began with President Nixon’s 1970 message. Self-government is presently under siege from judicial inconsistencies and worse, especially in the Supreme Court; from “citizens” movements out to destroy what they see as special privileges given to Indians; and from an unwieldy and sometimes even malicious administrative structure. Nonetheless, the legal foundations of self-government are more present in the United States than in Canada, where, despite the absence of Indian wars and outright genocide that characterized much of early American history, Canada’s First Nations have very little in the way of protection for self-government and its subordinate functions. Canada’s First Nations have been failed by policy leaders, courts, and legislators. Turning to international fora, they have found their way blocked by the presence of the traditional nation states in drafting the very international documents that would protect them. Thus, while in the paper language of government it often appears that Canada respects the inherent right of self-government for its Aboriginal peoples including First Nations, in practice this right has proven indefensible» (Burrage, 2006: 5).
Riguardo a questo tema, Johnson ha inoltre affermato che, similmente agli Stati Uniti, anche la politica federale canadese continua, nonostante le apparenze, ad erodere i diritti delle comunità native attraverso una subdola politica assimilazionista:
«Because the doctrine of tribal sovereignty in the United States is a judicial doctrine, and because policymakers in Canada keep coming back to the absence of Supreme Court of Canada rulings to excuse their own inertia, it is vital for advocates to bring cases and arguments to the courts that argue for the recognition of self-government, and vital for judges to understand the precedents thoroughly and to elaborate common-law opinions that do more than just acquiesce to policy weakness» (Burrage, 2006: 6).
Come gli Stati Uniti, il governo canadese ha una complessa storia di relazioni, regolamentate da trattati, con le comunità indigene. In generale, il Canada è un Paese caratterizzato da molti aspetti contrastanti. Anche se è al 35° posto a livello mondiale per numero di abitanti, con 34,3 milioni di persone, con le sue dieci provincie (Newfoundland e Labrador, Prince Edward Island, Nova Scotia, New Brunswick, Quebec, Ontario, Manitoba, Saskatchewan, Alberta e British Columbia) e tre territori appartenenti legalmente alle First Nations (Nunavut, Yukon e Northwest Territory), è solo secondo alla Russia per estensione territoriale. L’80% della popolazione è distribuita sia lungo il confine con gli Stati Uniti sia nelle principali città come Montreal (Quebec), Toronto (Ontario) e Vancouver (British Columbia). L’attuale distribuzione della popolazione si rifà agli insediamenti degli abitanti risalenti al XVII e al XVIII secolo quando, seguendo i corsi d’acqua e le risorse naturali, vennero costruiti i villaggi minerari (per l’estrazione del carbone e dell’oro) oppure i siti lungo le vie ferroviarie. L’espansione coloniale e l’illegale estrapolazione delle terre degli indigeni, accompagnate anche da violenza e devastazioni, sono intrinsecamente collegate alla corona britannica. Oggi infatti, come in passato, viene messo in atto un apparente processo di riconoscimento dei diritti indigeni che spesso fa credere, anche a livello internazionale, la buona intenzione del governo canadese nel costruire positive relazioni con le First Nations per il riconoscimento dei loro diritti. Questo antico ed ambiguo meccanismo risale ai primi contatti europei con le comunità indigene. La Royal Proclamation del 1763 affermava per esempio il divieto, da parte della Gran Bretagna, di cedere o di acquistare le terre riservate alle comunità native (Clinton, 1989). Chiunque avesse ostinatamente o inavvertitamente invaso le terre riservate agli indigeni avrebbe dovuto chiedere:
«Expressly conjoin and require all Officers whatever, as well Military as those Employed in the Management and Direction of Indian Affairs, within the Territories reserved as aforesaid for the use of the said Indians, to seize and apprehend all Persons whatever, who standing charged with Treason, Misprisions of Treason, Murders, or other Felonies or Misdemeanors, shall fly from Justice and take Refuge in the said Territory, and to send them under a proper guard to the Colony where the Crime was committed, of which they stand accused, in order to take their Trial for the same » (The Royal Proclamation, October 7, 1763).
I trattati tra la Corona Britannica e le varie First Nations, alcuni dei quali precedettero la Royal Proclamation, sono documenti importanti in quanto consentono di ripercorrere le varie fasi storiche relative alla controversa costruzione di relazioni tra i gruppi aborigeni e i governi coloniali:
«Early Maritime treaties were often not land cession treaties but “peace and friendship” treaties, securing pledges of peaceful relationships between the British and Indian governments during a time when representatives of Britain and France were contesting for colonial domination» (Isaac, 2004: 72).
I trattati che partono dal numero 1 al numero 11, che ancora oggi regolamentano i rapporti tra le comunità native, il Governo Federale e la Corona Britannica, hanno segnato in maniera preponderante la storia delle First Nations, soprattutto nel Canada occidentale tra il 1871 al 1923. L’apparente volontà di costruire delle relazioni con le comunità native maschera il reale status di separazione politica, economica, sociale e culturale tra governo e nazioni indiane che continua a ricalcare la struttura di potere coloniale impostasi, con i primi contatti europei, sugli aborigeni.
Nel periodo di unificazione del Canada come nazione nel 1867, la Costituzione canadese sancì una divisione politica tra province e Governo Federale (Getty, 1994: 973). Dal punto di vista legislativo infatti:
«Parliament’s power to pass laws for Indians and Indian lands, found in section 91(24) of the Constitution, means that provincial governments do not have jurisdiction over Indian affairs. Beginning in 1876, the federal government in Canada sought to administer Indian nations through a series of Indian Act legislation. Today, the Indian Act is universally denounced but a series of attempts to replace it or to just hold it invalid have been unsuccessful» (Burrage, 2006: 8).
Tranne qualche eccezione, oltre seicento First Nations canadesi sono ancora oggi regolamentate dall’Indian Act:
«There are about 700,000 “status” or Indian Act Indians in Canada, individuals who qualify for band membership according to terms of the legislation. Of these, about 400,000 live on actual reserve lands, with the rest living in urban areas of Canada. As First Nations jurisdictions do not extend off-reserve, it is often difficult for members living in urban areas to obtain services. Also, there are somewhat over 1,100,000 people in Canada self-identifying as indigenous people. Since a clear majority of this larger number does not live on reserve, there is a great deal of confusion and a real problem of the dilution of rights of First Nations and their citizens» (Burrage, 2006: 9).
La sezione 35(1) della Costituzione Canadese regolamenta la protezione dei diritti delle comunità indigene che comprendono sia le comunità appartenenti alle First Nation, sia gli Inuit che i Métis. Dagli anni Ottanta del Novecento si sono incrementate le iniziative che hanno coinvolto le comunità indigene e il Governo Federale al fine di promuovere l’autogoverno delle prime, anche se non è ancora stato trovato un accordo ufficiale e diffuso. Mentre le varie forze politiche affermano oggi che il riconoscimento di un autogoverno nativo è stato raggiunto ed incluso nella Costituzione, le First Nations combattono ancora, attraverso la stesura di specifici protocolli, per il riconoscimento dei loro diritti sulla proprietà della terra, sulla facoltà di celebrare i riti e le cerimonie, sulla conservazione delle loro lingue e sulle attività tradizionali. Michael Lee Ross spiega nel suo libro First Nations Sacred Sites in Canada’s Courts:
«The irony of the overall situation should not escape us. The Aboriginal rights of Canada’s indigenous peoples were elevated to constitutional status in 1982, yet today, over […] years later, virtually none of these constitutionally protected rights has legal effect. Most significantly, despite all the attention that has been given to Aboriginal title, no Aboriginal community’s Aboriginal title has yet been recognized. Consequently, because they have not established their Aboriginal rights in the courts – a case-by-case process – Aboriginal peoples are precluded from simply taking claims of violations of their constitutional rights to court to have them adjudicated straightaway. This is in stark contrast to the constitutionally enshrined rights of Canadians generally, which are listed in the Canadian Charter of Rights and Freedoms. Canada’s Aboriginal rights regime has become moribund» (Lee Ross, 2005: 76).
Tentare di delineare alcuni aspetti problematici relativi all’ambigua politica per il riconoscimento dei diritti indigeni in Canada è l’obiettivo di questa mia breve riflessione, nella consapevolezza che non sarà possibile tracciare l’articolata storia economico-politica, oggetto ancora oggi di negoziazione tra le comunità aborigene canadesi e il Governo Federale. Perciò, all’interno di questo spazio, verranno messe in luce solo alcune considerazioni prodotte da diversi ricercatori, politicamente implicati nella negoziazione indigena con il governo.
Come ho avuto modo di constatare personalmente nelle mie ricerche etnografiche presso diversi gruppi nativi canadesi (come i Sylx nella regione di Okanagan in British Columbia, i N’Dilo e i Tłı̨chǫ nell’area compresa tra il Great Slave Lake e il delta del fiume Mackenzie nei Territori del Nord Ovest), l’approccio etnografico deve basarsi su una negoziazione politico-culturale il cui scopo è quello di costruire relazioni di fiducia e di comprensione reciproca. La partecipazione dialogica è quindi la componente fondamentale per instaurare buoni rapporti culturali con le comunità indigene. Tale “protocollo” viene applicato dagli aborigeni anche con il Governo Federale il quale, per contro, ha dimostrato più volte di non volere davvero avviare una negoziazione culturale con le First Nations. Ciò determina, in generale, l’insorgere di conflitti, sfociati anche nel sangue (come nel caso di Oka in Quebec nel 1993) o comunque continue tensioni che non sembrano mai risolversi.
In generale, l’argomento relativo al riconoscimento dei diritti aborigeni e alla loro negoziazione con il Governo Federale canadese ha suscitato interesse all’interno del mondo accademico, promuovendo innumerevoli ed importanti pubblicazioni su questo tema (Rynard 2000; Murphy 2001; Frideres, Gadacz 2001; O’Sullivan 2006; Shaw 2008). Tali ricerche sono molto di più di un mero esercizio intellettuale volto ad esplorare i limiti del riconoscimento delle comunità native dal punto di vista culturale, sociale, economico e politico. Siccome gli studiosi, per portare avanti le loro ricerche hanno bisogno di contattare persone appartenenti alle First Nation, queste ultime si aspettano in cambio dai primi forme di aiuto e di implemento legislativo da negoziare con il governo. Molto spesso la relazione che si stabilisce tra ricercatori e indigeni canadesi determina che i primi vengano assunti come consulenti e mediatori tra le due parti. Un evidente esempio delle caratteristiche di tale rapporto è quello relativo alla conflittualità tra First Nations e le compagnie minerarie, una vertenza all’interno della quale il ricercatore, se vuole interagire per la sua ricerca con gli indigeni, deve proporre soluzioni atte ad incrementare il cosiddetto “Impact Benefits Agreements”. In generale, comunque forme di aiuto vengono richieste dagli indigeni per questioni relative anche alla salute pubblica (dato che sovente molti indigeni si ritrovano in situazioni socioeconomiche talmente disastrose da provocare abuso di alcol e di droga), a forme di incremento di educazione e di istruzione con l’introduzione nelle scuole di corsi sulla cultura indigena e workshop sulle attività tradizionali (vedi Belanger 2008; Hylton 1999).
Accepting or Rejecting the Colonial Politics of Recognition? Dibattito attuale tra le popolazioni indigene canadesi
Il titolo del presente contributo si rifà al titolo del libro di Glan Coulthard Red Skins. White Mask pubblicato nel 2014. L’autore, appartenente alla comunità Dene di Yellowknife, è docente di Scienze politiche all’Università di Vancouver. L’importanza del volume sta nel proporre una nuova linea guida, mai battuta in precedenza, per le comunità indigene canadesi attraverso il rifiuto del concetto di “riconoscimento” in relazione al diritto sulla proprietà della terra, al diritto di poter celebrare i propri rituali e al diritto di continuare le attività tradizionali strettamente legate alla conoscenza del territorio. A sua volta Coulthard si ispira, per il titolo del suo libro, al volume di Frantz Fanon Black Skin. White Masks, primo attivista nero negli Stati Uniti e pioniere dell’analisi psicologica relativa all’impatto razziale causato dai colonizzatori sui colonizzati. L’ipotesi critica che Coulthard sostiene nel suo libro è il rifiuto della “politica del riconoscimento” come modello dominante. Seguendo il pensiero di Fanon, Coulthard sostiene che il concetto di “riconoscimento dei diritti” è un meccanismo che funziona perfettamente all’interno della politica di potere con cui la logica coloniale si riproduce e si mantiene. In Red Skin. White Masks Coulthard afferma che la lotta anticoloniale indigena deve sganciarsi dalla politica conciliatoria liberale pubblicizzata dal Governo Federale e promuovere invece: «a resurgent politics of recognition premised on self-actualization, direct action, and the resurgence of cultural practices that are attentive to the subjective and structural composition of settler colonial power» (Coulthard, 2014: 8). Negli ultimi trent’anni gli sforzi di autodeterminazione indigena sono stati correlati al concetto di “riconoscimento”: riconoscimento di una particolarità culturale distinta rispetto alla cultura dei bianchi; riconoscimento del diritto di autogoverno; riconoscimento degli obblighi imposti dai trattati firmati dalle First Nations e dal Governo Federale.
Nel contesto della politica relativa all’autogoverno indigeno e all’autodeterminazione, il problema del riconoscimento aborigeno implica un’abilità da parte delle First Nation canadesi nell’articolare, in un linguaggio comprensibile al governo e alle varie multinazionali (come per esempio le compagnie minerarie o quelle legate allo sfruttamento dei gasdotti), la loro propria visione politica e le ragioni storico-culturali della sua esistenza. Questi aspetti implicano, dal punto di vista emico, un forte connotato morale. Afferma infatti Margaret Moore:
«Self-government, self-determination, and sovereignty [reflect] people’s identity; [provide] a forum in which citizen autonomy can be expressed; in which citizens are empowered to shape the context in which they live, and realize their political aspirations» (Moore, 2000: 225).
Le definizioni di auto-governo e di auto-determinazione possono inoltre assumere diversi significati culturali per gli aborigeni, per i ricercatori, oltre che per i ricercatori indigeni:
«The bifurcated definitions reveal the differences in scope of political autonomy, as well as various emotional charges (apathy, struggle, or intense aspiration), in different peoples’ political locations. Priority will be given to defining and understanding the Aboriginal interpretations of the terms in an effort to buttress the Indigenous political paradigm» (Moore, 2000: 226).
Un altro importante concetto che spesso emerge nell’interfaccia tra ricercatori, comunità indigene e Governo Federale è quello di “sovranità”. Anch’esso assume spesso significati contraddittori all’interno di diversi contributi scientifici (Maaka, Fleras, 2005: 37). La prima definizione di “Aboriginal sovereignty” fu data dalla “Federation of Saskatchewan Indians” nel 1970 la quale dichiarava l’assoluto diritto di governo indigeno ed affermava che nessun altro potere poteva essere superiore ad esso (Maaka, Fleras 2005: 49). Nel contesto specifico indigeno il concetto di “sovranità” è fondato su un intrinseco valore culturale di appartenenza alla propria comunità, il quale rigetta qualsiasi forma di governo coloniale esterno di matrice europea (Alfred, 2001: 26). Componente essenziale della “sovranità aborigena” è l’assoluto rifiuto di forme convenzionalmente stereotipate di concetti occidentali come “multiculturalismo”, “diritti individuali” o “uguaglianza universale”:
«Claims around sovereignty challenge the “colonial agendas that have had a controlling (systemic) effect in privileging national (white) interests at the expense of indigenous rights” and instead privilege the right of a nation to define and act on its politics without interference from other sovereign nations» (Maaka, Fleras 2005: 7).
Una chiara definizione di “sovranità” appare estremamente problematica. Molti ricercatori indigeni riconoscono infatti la radice europea dell’applicazione politica di tale concetto. La tradizione politica britannica viene percepita come dissonante e incompatibile rispetto al concetto indigeno di “sovranità”. Come mette in luce Taiaiake Alfred:
«The European understanding of sovereignty in statist and institutional terms creates a danger for Aboriginal people using the term to further their claims, because in doing so, they “are making a choice to accept the state as their model and to allow indigenous political goals to be framed and evaluated according to a ‘statist’ patter. Thus, the common criteria of statehood [...] come to dominate discussion of indigenous peoples’ political goals as well” » (Alfred, 2001: 56-57).
Di fronte al concetto di “sovranità” imposto dal Governo Federale canadese, il concetto di autogoverno sta a significare la possibilità, da parte delle First Nations, di autogestirsi senza intrusioni politiche, economiche, sociali e culturali provenienti dall’esterno. La definizione data da Blackwell Dictionary of Political Science al concetto di “autogoverno” è la seguente:
«The freedom to act independently of external circumstances and unfettered by what William Blake called the ‘mind-forged manacles.’[...] Among political scientists [it] has been as a sort of half-way stage to full independence» (RCAP – Royal Commission on Aboriginal People, 1995).
Molti ricercatori indigeni si oppongono a tale definizione. L’autogoverno è quindi, per molti di loro, una sorta di autorità delegata il cui obiettivo è quello di monitorare la vita delle comunità aborigene rimanendo pertanto concretamente iscritto all’interno del potere politico-coloniale del Governo Federale.
Uno di questi ricercatori indigeni è Glen Coulthard, la cui autorevolezza risiede non solo nella precisione dell’analisi storica relativa all’espropriazione delle terre da parte del Governo Federale, alle lotte indigene per il riconoscimento dei diritti e alla descrizione della resistenza degli aborigeni contro i soprusi (come per esempio l’instaurazione delle residential schools), ma anche nella proposta di interrompere la rappresentazione vittimistica – promulgata dal governo attraverso i discorsi pubblici – basata sulla narrazione stereotipata di storiche ferite e sofferenze subìte dai nativi ed esposte sempre dal punto di vista della politica coloniale:
«There is something very particular about settler-colonialism that lies at the heart of how we, as Indigenous peoples, have arrived at the current state of recognition politics that Coulthard is describing. Indigenous political rhetoric, over the generations, has shifted from one focused on protecting the land and perpetuating unique Indigenous ways of living to one that is much more in line with state recognition and accommodation. Coulthard cites Patrick Wolfe, pointing out that the primary goal of Settler-colonialism is, “access to territory”, reminding us that settler politics is, and has always been, about the land. Settler-colonialism is in the ‘being here to stay’ business. Coulthard skillfully mobilizes and, in many ways, re-orients Marx and Fanon to help explain and frame the trajectory of Indigenous rights discourses within the Canadian settler-colonial context. I will not engage these efforts in detail, but I do want to note a few highlights. Drawing primarily from chapters 26-32 from Volume One of Marx’s Capital, Coulthard argues that, “Marx was primarily interested in colonialism because it exposed some ‘truth’ about the nature of capitalism” Re-reading Marx with an anticolonial lens, as Coulthard argues we need to do in this context, alerts us to the fact that capitalism and settlercolonialism are not things and events, respectively, but ongoing “social relations”. The settler hunger for land continues relentlessly, embedded in political and economic systems that still deny Indigenous claims for recognition and self-determination. The logical question is: Why do we allow this to keep happening? Cue Fanon» (Cliff Atleo, 2014: 189).
Coulthard sostiene inoltre che le azioni condotte finora dagli indigeni per affermare il loro riconoscimento politico-sociale sono state sostanzialmente reazionarie, spesso inefficaci e a volte alienanti. Così afferma:
«Direct action often is a response to some form of egregious political or economic action by the settler state or a corporation, such as in the case of Idle No More and its formation as a response to Bill C-45, or the Mi’kmaq resistance to fracking in Elsipogtog. However, these reactions are also affirmative. They are resistance to that which is destructive, but, “they also have ingrained within them a resounding ‘yes’: they are the affirmative enactment of another modality of being, a different way of relating to and with the world”. The suggestion that direct action is ineffective is almost laughable if it were not such a commonly levelled charge against so-called radicals from both settler and moderate Aboriginal politicians. The fact is that every major “victory,” concession, or negotiation in the history of Canadian-Indigenous relations has come as a result of some form of direct action, often led by Indigenous women» (Coulthard, 2014: 167-168).
Coulthard continua inoltre:
«Decolonization is messy, disruptive, and necessarily uncomfortable for everyone; […] “decolonization is not a metaphor.” Reconciliation as envisioned by and within the parameters of the Canadian state, while being minimally disruptive, merely allows for business to carry on as usual» (Coulthard, 2014: 169).
Al fine di dare una svolta ai precedenti sforzi per il riconoscimento politico-sociali, Coulthard si fa interprete della necessità di stimolare una profonda innovazione legale, culturale, sociale ed economica, promossa, con forza, direttamente dalle First Nations. Nel suo libro non nasconde però la sua preoccupazione riguardo a certi movimenti non-nativi atti a promuovere la loro solidarietà nei confronti delle comunità indigene:
«I have some concerns regarding how some non-Native movements express their support for Indigenous sovereignty movements because they may see similar interests aligning around, say, environmental protections but have little interest in supporting Indigenous peoples’ right to self-determination. This seems overly instrumental, not based on an ethical obligation to support Indigenous land and treaty rights. Solidarity based on such an ethics must also stem from an understanding of one’s, often unwitting, complicity in maintaining the colonial relationship and an active understanding and critical self-reflection of one’s own power and privilege. Non-Native working-class solidarity, for example, must be understood as occurring within a colonial context where workers are working on the very territory and land that is the material basis of Indigenous people’s health and nationhood» (Coulthard, 2014: 105).
Contemporaneamente lo studioso afferma comunque l’importanza di costruire una solidarietà reciproca tra nativi e movimenti di sensibilizzazione sociale non-indigeni, oltre che con altre comunità aborigene. Coulthard lamenta infatti la necessità di una maggiore apertura culturale da parte di certe comunità native: in particolare egli si riferisce ai Dene di Yellowknife a cui appartiene, che negli anni Settanta del Novecento combatterono contro la costruzione dell’oleodotto nella valle di Mackenzie. Una forte spinta valoriale per sostenere i Dene a resistere contro la multinazionale fu il simbolico legame che essi decisero di istituire con le comunità nigeriane nelle loro lotte contro corporazioni come la Shell. Ritornando sul discorso del concetto di “riconoscimento”, Coulthard conclude quindi, nel suo libro, con l’idea che:
«Looking at the gendered nature of colonial dispossession demands that we question whether there has even been a shift from a structure of violence to one of symbolic violence managed through recognition […]. I want to present the idea of resurgence, a critical return to the indigenous political and economic traditions that colonialism sought to displace […]. I argue that a resurgence of Indigenous traditions can play an important role in both resisting the subjective politics of colonialism and articulating alternatives to colonial social relations. The enactment of Indigenous traditions represents for me an effective means to counter to the devaluation of Indigenous people in settler colonial discourse. But they are also prefigurative of the political and economic relations that Indigenous resurgence aims to emplace as an alternative to capitalism» (Coulthard, 2014: 147)
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Riferimenti bibliografici
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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali.
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