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Materialità e immaterialità in un culto greco-bizantino del Salento

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Cripta Santa Cristina, Carpignano, part. affresco Arcangelo Gabriele, sec. X

di  Alessandro D’Amato

Pur se pertinente al mondo della storia dell’arte, l’argomento che dà il titolo a questo breve saggio si intreccia con aspetti storici e storico-religiosi ben più vicini alle competenze del funzionario demoetno- antropologo, ruolo con il quale chi scrive è inquadrato tra i ranghi ministeriali, in servizio presso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Brindisi, Lecce e Taranto. Proprio in considerazione di tale ruolo, lo scorso 9 febbraio ho avuto il piacere di partecipare in qualità di relatore alla seduta pomeridiana della ‘Giornata Mondiale della Lingua Greca’, organizzata a Taranto dalla locale Comunità Ellenica ‘Maria Callas’ negli spazi del Salone degli Specchi, presso il Palazzo Municipale della città jonica. Alcune constatazioni, emerse grazie ai sopralluoghi effettuati con alcuni funzionari architetti in servizio presso la Soprintendenza di Lecce, mi hanno spinto a dedicare il mio intervento ai culti greco-bizantini, espressi da diverse testimonianze artistiche e rituali, all’interno della Cripta di Santa Cristina, a Carpignano Salentino (Le).

In primo luogo, il fatto che la Cripta, sin dal 1984, sia soggetta a un vincolo di tutela del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e, grazie al riconoscimento del notevole interesse culturale ad essa intrinseco, nel corso degli anni ne siano state assicurate la salvaguardia e la valorizzazione. A tal riguardo, entra anche in scena la questione dell’immaterialità, connaturata al ruolo evidente esercitato da culti e riti nel corso di oltre undici secoli di storia.

In secondo luogo, il legame della Cripta con quella lingua greca al centro degli interessi della giornata di studi: le pareti della Cripta sono infatti quasi interamente ricoperte da affreschi, molti dei quali recanti iscrizioni in lingua greca, espressa nella sua variante bizantino-medievale. Grazie alla presenza di tali iscrizioni sono state ricavate preziose informazioni sulla storia della Cripta e degli affreschi presenti al suo interno. Essi costituiscono gli affreschi datati e firmati più antichi del Salento, consentendoci di conoscere i nomi degli autori, che furono pittori professionisti, quelli dei committenti e l’anno di realizzazione dell’opera. In questo senso, la presenza di forme di scrittura all’interno della Cripta si configura come dispositivo di conoscenza e trasmissione del sapere, attivando quella funzione tecnica che l’utilizzo di segni grafici su un supporto durevole consente di realizzare. In particolar modo, l’analisi della scrittura si connota in tutta la sua utilità come prezioso strumento di studio degli ambiti simbolici e, nella fattispecie di Carpignano Salentino, anche di quelli storico-antropologici.

Inoltre, in terzo luogo, la Cripta di Santa Cristina appare come un luogo di sincretismi, di tipo culturale, cultuale e stilistico. All’interno di essa, difatti, hanno convissuto e convivono differenti forme identitarie, modalità liturgiche afferenti a culti tra loro spesso in contrasto e stili artistici risalenti a concezioni ed epoche anche molto lontane tra loro.

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Pianta della Cripta di Santa Cristina, Carpignano Salentino, Lecce

Il contesto storico e culturale

Le origini della presenza bizantina in ‘Terra d’Otranto’ risalgono al periodo della cosiddetta guerra gotica (535-553 d.C.) che, da un lato, portò l’imperatore Giustiniano a governare anche sui territori italiani e, dall’altro, provocò una cospicua emigrazione greca verso l’Italia meridionale. Tra l’altro, in questa fase il Salento fu più volte predato sia dai Goti che dai Bizantini, che ne fecero un vero e proprio presidio per l’approdo nel Sud Italia.

Le migrazioni ricevettero ulteriore impulso quando, nel corso dell’VIII secolo (più esattamente, a partire dal 726 d.C.), un editto di Leone III Isaurico diede il via alla persecuzione iconoclasta nei territori d’Oriente, che spinse numerosi religiosi verso le coste del meridione italiano, soprattutto monaci bizantini che preferirono trasferirsi in Italia, in modo da sottrarsi alle persecuzioni. Un secolo dopo, la presenza monastica nel sud Italia era piuttosto consistente. Ne derivò lo sviluppo di un certo fervore artistico: monachesimo bizantino e tendenza all’eremitaggio divennero caratteristiche evidenti di questo periodo storico e la diffusione di comunità religiose rurali, cripte e chiesette rupestri si accompagnò al consolidamento del rito liturgico bizantino.

Nel complesso, la presenza greco-bizantina nel Salento durò oltre cinque secoli, circostanziata in due periodi (553-847 d.C. e 875-1071 d.C.), tra loro interrotti soltanto da un breve intervallo, durante il quale tali territori furono abbandonati dai bizantini. In questo lungo lasso temporale, l’ellenizzazione del meridione e, in particolare, della Terra d’Otranto avvenne soprattutto in seguito alla salita al trono di Costantinopoli di Basilio I, avvenuta nell’867 d.C., che diede avvio a una consistente migrazione di monaci, soprattutto dalla Cappadocia, verso la Sicilia orientale, la Calabria e il Salento, favorendo la diffusione della lingua, del culto e della civiltà bizantina. Al tempo stesso, la presenza bizantina proliferò anche grazie all’arrivo di soldati, funzionari, impiegati e contadini provenienti da differenti regioni dell’Impero d’Oriente, le cui migrazioni furono favorite sia da Basilio I che dai suoi successori. Successivamente, nel 1071, a seguito dell’assedio di Bari e dell’ingresso nella città di Roberto il Guiscardo, i Normanni scalzarono definitivamente i Bizantini nel loro dominio dell’Italia meridionale.

I cinque secoli di attestazione bizantina produssero un processo di grecizzazione della regione (e, più in generale, di gran parte del Mezzogiorno) di cui ancor oggi si possono individuare diverse tracce. Una grecizzazione che coinvolge la cultura, la lingua, l’arte e l’architettura della Puglia. Una prima testimonianza è rappresentata dall’eredità culturale rappresentata da alcune tradizioni popolari locali: in tal senso, l’esempio più noto ed ecltante è costituito dal tarantismo salentino, studiato nel corso della spedizione etnografica nel ‘feudo di Galatina’, nell’estate 1959, da Ernesto de Martino. All’interno del libro La terra del rimorso, esito della ricerca sul campo compiuta dall’etnologo napoletano e dalla sua équipe, sono evidenziati dei parallelismi tra il fenomeno coreutico-musicale del tarantismo salentino e il rituale dionisiaco del menadismo, diffuso nell’antichità greca. In estrema sintesi, infatti, agli occhi di de Martino il simbolismo coreutico-musicale e cromatico del tarantismo si configurava come sorta di ‘sopravvivenza’ del menadismo, in seno al quale la contaminazione con il cattolicesimo di San Paolo di Tarso – strenuo oppositore dei culti dionisiaci – contribuì ineluttabilmente a modificarne la semantica e gli elementi rituali rappresentativi.

Esterno della Cripta bizantina Santa Cristina

Esterno della Cripta bizantina di Santa Cristina

D’altra parte, dal punto di vista linguistico, il basso Salento è anche patria elettiva di un’isola linguistica ellenofona, la Grecìa salentina, in cui da secoli si parla il ‘griko’, idioma dialettale neo-greco esito di un probabile innesto di caratteri bizantini in una preesistente matrice glottologica magnogreca. Inoltre, nella Grecìa salentina si conserva “ostinatamente” il patrimonio orale dei traudia, canti popolari e sonorità ispirati alla mitologia e alla tradizione musicale dell’antica Grecia. Da qualche anno, a conferire un peso anche politico, si è costituita l’‘Unione dei Comuni della Grecìa salentina’, dotata di autonomia statutaria e, allo stato attuale, composta da dodici municipalità [1]. Ancora alla fine del XV secolo l’areale di diffusione della parlata grika si estendeva dalle coste adriatiche a quelle joniche, comprendendo gran parte dei comuni più popolosi del Salento [2].

Tuttavia, nel corso dei due secoli successivi, la contiguità con l’area di lingua romanza determinò un progressivo restringimento della zona ellenofona, che oggi perdura residualmente nei soli territori della Grecìa salentina, i cui abitanti, in un recente passato, sono stati dispregiativamente aggettivati, da parte delle popolazioni convicine, come “gente cu doi lingue” [3]. Ciò nonostante, se da una parte l’individualità linguistica grika ha determinato un ‘effetto di separazione’ rispetto ad altre aree del basso Salento, dall’altra parte è divenuto un forte elemento connotativo dell’identità e del senso di appartenenza della popolazione di lingua greca presente in tali territori, contribuendo tra le altre cose alla salvaguardia di un patrimonio immateriale ricchissimo, costituito non solamente dalla parlata locale, ma anche da un corpus notevole di letteratura orale, comprendente fiabe, racconti, proverbi, canti e poesie popolari.

Infine, dal punto di vista della cultura materiale influenzata o direttamente connessa alla presenza bizantina nel territorio pugliese, non può essere trascurata la cospicua presenza di cripte, grotte, insediamenti, villaggi rupestri, chiese, basiliche e abbazie di epoca e stile bizantini. Si tratta, in questo caso, di testimonianze risalenti al periodo in cui i monaci italo-greci diedero «notevole impulso alla organizzazione dei villaggi rupestri» (Palamà 2013: 72).

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Dettaglio pilastro originario (IX-X sec.)  e pilastro del XVIII secolo

La Cripta di Santa Cristina

Connessa al periodo storico di cui sono state rapidamente tracciate le coordinate d’insieme risale la Cripta di Santa Cristina, a Carpignano Salentino. Ci si trova, dunque, nel cuore della Grecìa salentina e qui, come rilevato dal De Giorgi nel 1888, «abbondano i nomi greci nelle vie, nelle contrade, nelle chiese dirute, nelle masserie, nei cognomi familiari e nei monumenti antichissimi del suo vasto territorio» (idem: 362).

La Cripta di Santa Cristina rappresenta l’estrema sintesi dell’arte bizantina ed è stata definita da alcuni storici dell’arte come «la Cappella Sistina dell’arte rupestre greco-bizantina». Essa è dedicata alla figura religiosa che vi risulta raffigurata più frequentemente, ben sette volte. Fino a pochi anni fa era conosciuta come “Cripta delle Sante Marina e Cristina”, a causa di un’erronea interpretazione di un affresco compiuta da Cosimo De Giorgi (1842-1922), medico, archeologo e paleontologo che, negli anni a cavallo tra la fine dell’‘800 e gli inizi del ‘900, fu solito organizzare dei veri e propri rituali di guarigione dalle malattie renali ed epatiche. Santa Marina, infatti, è ritenuta essere la protettrice contro tali tipologie di affezioni dell’organismo. Recentemente, tuttavia, si è accertato che l’affresco in questione non raffigura Santa Marina quanto, piuttosto, Sant’Elena.

È altamente probabile che, originariamente, la Cripta facesse parte di un complesso di ambienti ipogei comprendente anche un frantoio e diversi anfratti abitativi. Almeno fino alla metà del XV secolo, la Cripta rappresentò il centro nevralgico della socialità carpignanese: attorno ad essa, infatti, pare si svolgessero mercati, fiere e pellegrinaggi. A tutti gli effetti, un luogo di aggregazione. Successivamente, tuttavia, quando i feudatari del luogo, i Del Balzo, edificarono un luogo di culto presso il loro palazzo, l’epicentro delle attività comunitarie si allontanò dalla Cripta.

Da un punto di vista architettonico, la Cripta di Santa Cristina costituisce un esempio di chiesa rupestre a doppia navata e doppia abside, composta da due vani di differenti dimensioni, ognuno dei quali dotato di una propria scalinata di accesso. Le due navate furono in passato sorrette da altrettanti pilatri ricavati dalla roccia originaria. Uno di essi, tuttavia, collassò nel corso del XVIII secolo e fu sostituito da tre pilastri di dimensioni inferiori.

La parte ad est della Cripta corrisponde al cosiddetto ‘vano maggiore’, mentre il ‘minore’ si trova ad ovest. Nella parete ad est del vano maggiore sono collocate entrambe le absidi le quali, funzionalmente alle prescrizioni del rituale liturgico di tipo greco-bizantino, sono orientate verso ovest. Tutte le pareti presentano riquadri o tracce di affreschi ed è probabile che, sotto gli strati d’intonaco posticci, si conservi altro materiale decorativo. Grazie a un’immagine fotografica d’archivio, risalente al 1931, apprendiamo infatti che gran parte delle pareti (e, conseguentemente, degli affreschi) erano all’epoca ricoperti da uno strato di calce bianca, risalente al XVII secolo, quando la Riforma cattolica vietò la compresenza di tradizioni liturgiche e, in questo caso, espressioni iconografiche differenti da quelle previste dal canone romano. Quando, nel Seicento, a seguito del passaggio al rito latino, le pareti della grotta furono imbiancate di calce, gli unici affreschi rimasti visibili furono i due gruppi presenti nelle absidi del vano maggiore, quello dipinto sul pilastro e alcune tracce rinvenute nel vano minore.

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Parete est con  il “gruppo di Eustazio” a sx. e il “gruppo di Teofilatto” a dx. In primo piano il pilastro ricavato dalla roccia originaria

La realizzazione delle opere pittoriche della Cripta di Santa Cristina pare seguire cronologicamente alcuni eventi storici di cui in precedenza si è tentato di ricostruire il contesto generale. Per fare un esempio, nel 959 d.C., a Bisanzio si registra la successione al trono tra Costantino VII Porfirogenito e Romano II. In quello stesso anno venne realizzato il cosiddetto “gruppo di Teofilatto”, su cui si tornerà tra breve.

Analogamente, gli affreschi della tomba ad arcosolio, che impreziosisce il vano minore, saranno eseguiti tra il 1050 e il 1075, periodo storico in cui avvennero sia lo scisma tra Chiesa romana e Chiesa greco-ortodossa (1054) sia l’assedio di Bari (1068-1071), che segnò l’ingresso nella città di Roberto il Guiscardo. La storiografia ufficiale individua quest’ultimo evento per marcare la fine del dominio bizantino nel sud Italia e l’inizio di quello normanno.

Le numerose iscrizioni che arricchiscono gli affreschi della Cripta sono in lingua greca medievale. Grazie ad esse si evince la natura ecclesiastico-devozionale della committenza e il ricorso a pittori professionisti, verosimilmente in rapporto con la città di Otranto, dove, sin dal X secolo, è documentabile una tradizione pittorica di sicura ispirazione bizantina. Del resto, nel 968 d.C., l’imperatore Niceforo ordinò al patriarca Polyeucto di assoggettare ad Otranto tutte le chiese e le sedi vescovili della Puglia centro-meridionale e della Basilicata, sostituendo i riti e i sacerdoti latini con quelli greci.

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Il Gruppo di Teofilatto, 959 d.C

Gli affreschi e le iscrizioni

Senza alcuna pretesa di esaustività, dato che in questa sede ci si soffermerà soltanto su alcuni elementi partico- larmente importanti ai fini della nostra trattazione, qui di seguito cercheremo di tracciare le principali caratteristiche possedute da alcuni affreschi e apparati architettonici presenti all’interno della Cripta.

Sulla parete biabsidata del vano maggiore sono affrescati i due gruppi di figure comunemente chiamati “gruppo di Teofilatto” e “gruppo di Eustazio”. Nel primo caso, l’iscrizione consente di attribuire l’affresco al pittore Theophylactos, la cui opera fu commissionata dal presbitero Leone e dalla moglie Crisolea, e di datarla all’anno 6467 (calendario bizantino), corrispondente al 959 d.C.:

«Ricordati, Signore, del servo tuo Leone presbitero e della sua consorte Crisolea e di tutta la sua casa. Amen. Scritta per mano di Teofilatto pittore, nel mese di maggio, indizione 2a, anno 6467».

L’affresco è costituito da un Cristo Pantocratore, collocato nell’abside, ai cui lati è rappresentata la scena dell’Annunciazione. Il Cristo occupa l’intera nicchia e l’impostazione iconografica e stilistica tradisce chiaramente la derivazione orientale: seduto su un trono riccamente decorato, con una mano regge il Vangelo, mentre con l’altra benedice “alla greca”. Alla destra del Cristo si colloca l’iscrizione devozionale che ha consentito l’attribuzione.

Per quanto concerne la scena dell’Annunciazione, essa è raffigurata in due riquadri. Alla sinistra, l’arcangelo Gabriele saluta la Madonna, annunciandole la nascita del Cristo. Sul lato destro, invece, la Vergine è seduta su un trono privo di spalliera, i cui elementi decorativi appaiono per il resto identici a quelli del Cristo. Essa è ritratta durante la filatura della porpora (nella mano destra sorregge fuso e conocchia) così come descritto nei Vangeli della Natività [4], facendo così emergere suggestioni circa la possibilità di intravvedere commistioni di culto pagano-cristiane. A tal riguardo, sebbene l’immagine della Madonna che fila la porpora sia un tratto caratteristico dell’iconografia bizantina, non ci sentiamo di escludere la possibilità di una forma di sincretismo con l’antico culto pagano delle Moire greche (le Parche della mitologia romana): le tre Moire, le tessitrici della vita, decidevano, al momento della nascita, il destino assegnato a ogni persona. Neppure gli dèi potevano modificarlo. A Cloto spettava il compito di reggere il filo dei giorni nella tela della vita. Avvolgendo al fuso il filo che a ciascuno era assegnato nel corso della vita, Làchesi dispensava la sorte. Infine, l’inesorabile Atropo procedeva a recidere il filo con le forbici, quando giungeva il momento di sancire la morte [5].

Va rilevato il fatto che durante i restauri della Cripta effettuati nel 2003, al di sotto di questo affresco è stato rinvenuto uno strato di intonaco dipinto: questa scoperta contribuirebbe a retrodatare ulteriormente la cronologia degli affreschi originari del sito e, dunque, a riposizionare la sua stessa vicenda storiografica.

Gruppo di Eustazio (dettaglio iscrizione)

Gruppo di Eustazio (dettaglio iscrizione)

Nel maggio 6528 (corrispondente al 1020 d.C.), il protopapa Elia Musopolo (Aprilio), insieme alla moglie e ai figli, affida al pittore Eustathios il compito di restaurare e abbellire la Cripta. L’artista dipingerà un Cristo in trono, avente sul proprio lato destro una Vergine con Bambino: una Madonna Kyriotissa, raffigurata cioè senza la corona, secondo un modello iconografico tipicamente bizantino. Sul lato sinistro, si riscontrano dei resti indecifrabili di due figure in parte coperte da uno spesso strato di intonaco. Il Cristo è simile, da un punto di vista iconografico, a quello di Teofilatto, mentre è diversa la qualità pittorica, certamente inferiore, se si eccettuano i tratti del volto. Anche in questo caso, è grazie all’iscrizione se riusciamo a ricavare informazioni fondamentali:

«Ricordati, Signore, del tuo servo Aprilio, di sua moglie e dei suoi figli, egli che, preso da intenso desiderio, ha fatto preparare questi muri e dipingere queste venerabili immagini, nel mese di maggio della 3a indizione dell’anno 6528. Scritto dalla mano del pittore Eustazio. Amen».

Sull’unico pilastro originale attualmente presente nella Cripta è un affresco contenente tre figure. Quella centrale è San Nicola, alla sua destra vi è San Teodoro, monaco di Costantinopoli che avversò strenuamente la politica iconoclasta; sulla sinistra è rappresentata Santa Cristina, che regge in mano una croce astile, simbolismo iconografico che ricorda il martirio subìto dalla religiosa.

Infine, per quanto riguarda il vano maggiore, la parete sud ospita un affresco dedicato a Santa Cristina, sovrapposto a una precedente decorazione di cui si intravedono soltanto alcuni brani residui. Esso appare isolato dal resto degli affreschi poiché presenta un’originalità cronologica e stilistica: realizzato in un periodo compreso tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, mostra evidenti caratteri gotici. Ancora una volta, l’elemento di interesse, perlomeno ai nostri fini, è rappresentato dall’iscrizione XPICTINA, suddivisa in due parti e collocata ai lati del nimbo.

Passando al vano minore, occorre soffermarsi su almeno un paio di elementi architettonici, il primo dei quali rappresentato da una tomba ad arcosolio, collocata nella parete nord-occidentale dell’endonartece, che testimonia innanzitutto un utilizzo di parte del vano minore come luogo di sepoltura, probabilmente a vantaggio dei familiari dei committenti. Come rilevato da Marina Falla Castelfranchi, la tomba ad arcosolio di Carpignano registra una straordinaria similarità con le tombe bizantine presso la necropoli di Göreme, in Cappadocia.

Il rinvenimento nella Cripta di numerose altre sepolture, sebbene compromesse da alcuni lavori di ripavimentazione realizzati nel corso del XVIII secolo, contribuirebbe a far presupporre un’origine sepolcrale del sito e persino la probabile presenza di un cimitero per le masse popolari.

Tomba ad arcosolio dettaglio iscrizione.

Tomba ad arcosolio dettaglio iscrizione

Il fondo della tomba ad arcosolio ospita inoltre un affresco, in cui una piccola figura è circondata da una lunga iscrizione in greco, in dodecasillabi bizantini, suddivisa in due parti. Tale iscrizione, che secondo alcuni potrebbe addirittura trattarsi della più antica iscrizione funeraria bizantina in versi dell’intero Mediterraneo, consente di datare le origini dell’affresco in un periodo compreso tra il 1050 e il 1075 e di ricavare una prima testimonianza del toponimo “Carpiniana”, a dimostrazione dell’esistenza di un centro abitato già in età bizantina, che verosimilmente si estese proprio nell’area circostante la Cripta. Tra l’altro, nei due vicini comuni di Giuggianello e Martano, alcuni scavi archeologici condotti dal Laboratorio di Archeologia Medievale dell’Università del Salento hanno consentito di datare all’VIII secolo le prime organizzazioni insediative dell’area, rendendo in tal modo plausibile l’ipotesi relativa all’esistenza di un centro abitato di epoca bizantina anche in corrispondenza dell’attuale Carpignano Salentino

Tornando alla tomba ad arcosolio, il committente dell’affresco, oltre a compiangere il figlio lì sepolto, dichiara nell’iscrizione il proprio nome (purtroppo solo parzialmente leggibile, a causa della compromissione di questa porzione di affresco), il proprio status sociale di alto funzionario governativo e di essere abitante di Carpiniana, offrendo così la documentazione più antica del toponimo:

«Qui è sepolto il gentile Stratigoules, mio caro figlio amato da tutti e soprattutto da suo padre e da sua madre, dai suoi fratelli e nello stesso tempo dai cugini, da tutti i suoi amici e dai suoi compagni di scuola, benefattore generoso degli schiavi. Come un uccellino egli è volato via dalle nostre mani e ha riempito di tristezza suo padre e sua madre, i suoi fratelli e i suoi amici carissimi. O Maria, divina signora, poiché tu sei la fonte di tutte le grazie, con Nicola il saggio pastore, con la vittoriosa martire Cristina, poni il mio carissimo figlio nel seno del grande patriarca Abramo (…).
Ho ricoperto questi muri di nuove immagini, ho scavato una tomba per l’interramento e la sepoltura del mio corpo plasmato col fango. Ma riguardo al mio stesso nome, tu dirai: – Chi può mai essere questo mortale e di dove è? […] YRA […] è il suo nome, onesto di costumi, spatario e abitante a Carpiniana, servo di Cristo e dei Santi qui presenti, della Theotokos, sovrana tutta immacolata, e di Nicola, vescovo di Mira (…) ».
Altare-tardo-settecentesco-in-stile-rococò

Altare tardo settecentesco in stile rococò

Il periodo post-bizantino

Con la cessazione definitiva della dominazione bizantina, che datiamo al 1071, la cultura, la lingua greca e i riti liturgici provenienti da Oriente continua- no a sopravvivere. Ciò nonostante, la Cripta di Santa Cristina visse un progressivo processo di latinizzazione. Tra le altre cose, ad esempio, tra il 1470 e il 1480 la Cripta era divenuta sede di una chiesa cattolico-romana dedicata alla Madonna delle Grazie, in un sincretismo cultuale che perdurerà almeno per un secolo e mezzo. Nel corso del XVII secolo, infatti, come già anticipato, la Controriforma rese inconciliabile la coesistenza tra tradizioni liturgiche differenti dal canone latino.

Successivamente, nel 1760 il culto della Madonna delle Grazie fu sospeso e, nel 1766, fu persino realizzata una parete divisoria, chiamata a separare il vano maggiore da quello minore, nella probabile intenzione di spazializzare il distacco tra un’area fortemente connotata dalla tradizione di culto bizantina e la nuova zona inequivocabilmente latinizzata. Tuttavia, già nel 1775, a seguito di una presunta apparizione mariana, il culto fu ripristinato e avviato un processo di risistemazione degli ambienti, che perdurò per circa un secolo [6]. A questa fase va fatta risalire la realizzazione di un altare in stile rococò, adiacente alla tomba ad arcosolio e di estremo interesse per l’ovale in pietra collocato nella parte superiore, chiamato a incorniciare un affresco di Vergine con Bambino risalente alla precedente fase iconografica bizantina. La realizzazione dell’altare determinò una conseguente traslazione del nucleo devozionale della Cripta, che si trasferì dal vano maggiore a quello minore. Nella precedente area presbiteriale, collocata tra le due absidi della parete est è persino scomparso l’altare originario.

Ancora una volta, dunque, ci si imbatte in linguaggi e dinamiche sincretiche: in questo caso, oltre che cultuali e stilistiche, le commistioni che la Cripta di Santa Cristina conserva offrono fondamentali informazioni sulla storia e la genealogia del sito. Una storia che, ai giorni nostri, è finalmente riuscita a superare i dissidi registrati nel passato, garantendo la possibilità di veder convivere, all’interno dello stesso luogo, due differenti modalità liturgiche. Nel corso dell’anno, infatti, la Cripta ospita soltanto due celebrazioni religiose: il 6 gennaio, una messa di rito ortodosso è officiata dal parroco della “chiesa greca” (la Chiesa di San Nicola) di Lecce. Ogni 8 settembre, giorno della natività di Maria, si celebra invece una liturgia secondo la modalità latina.

In definitiva, il tema della tutela e salvaguardia del patrimonio culturale si innesta, all’interno della Cripta di Santa Cristina, con elementi che afferiscono all’area dell’immaterialità, a partire dal tema fondamentale della lingua greco-bizantina, per poi proseguire con i diversificati rituali liturgici e sepolcrali di cui essa è testimonianza. Riconosciuta sin dal 1984 come bene materiale meritevole di tutela ministeriale, essa custodisce anche un ricco repertorio riconducibile al mondo dell’Intangible Cultural Heritage, su cui la stessa Unesco, sin dal 2003, ha posto la propria attenzione, con l’adozione della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale [7]. In tal senso, la persistenza delle celebrazioni liturgiche all’interno della Cripta – sebbene estremamente dilazionate nel tempo –, rappresenta un caso di pratica devozionale che contribuisce, di per sé stessa, alla salvaguardia del sito, poiché ne riproduce la dimensione sacrale attraverso la reiterazione periodica dei rituali di culto. L’utilizzo comunitario a scopo devozionale della Cripta di Santa Cristina, infatti, garantisce uno spontaneo mantenimento in vita del “bene materiale” che diventa, in tal modo, tanto oggetto quanto testimonianza di pratiche cultuali (e culturali) ancorate a un passato cui la comunità locale si identifica e riconosce, una “eredità culturale” – intesa nell’accezione espressa dalla Convenzione di Faro del 2005 [8] – cui la popolazione locale appare fortemente legata, così come dimostra l’impegno assunto dall’Associazione Culturale Carpiniana, che rende possibile l’accesso guidato al pubblico all’interno della cripta.

Materialità e spiritualità, così, vengono a intrecciarsi in una sorta di doppiezza strutturale della Cripta, in cui la memoria locale è tuttora tenuta in vita dal riproporsi periodico dei modelli rituali. L’impatto materico e l’immaginazione legata al culto, in tal modo, si fondono in quel senso di appartenenza comunitario che, a Carpignano Salentino, trova un elemento di inveramento e rafforzamento proprio nella Cripta di Santa Cristina.

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Note
[1] Si tratta dei comuni di Calimera, Castrignano de’ Greci, Corigliano d’Otranto, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatìa, Zollino, Carpignano Salentino, Cutrofiano, Sogliano Cavour (gli ultimi tre comuni, pur se non più ellenofoni, aderiscono all’Unione per contiguità territoriale e culturale).Inoltre, il comune di Galatina ha avviato le procedure burocratiche per potervi entrare a far parte.
[2] «L’azione di assimilazione cominciata con la conquista normanna della penisola salentina nell’XI secolo, nell’opera di ristrutturazione delle istituzioni politico-amministrative per il consolidamento del proprio potere ed accompagnata dall’interessato concorso della Curia romana attiva nel combattere il rito bizantino nell’Italia meridionale, e nella provincia di Terra d’Otranto in particolare, viene portata avanti sempre con grande determinazione per radicalizzarsi poi in modo definitivo nel corso del Cinquecento dopo le risultanze del Concilio di Trento (1545-1563)» (Palma 2005: 27)
[3] «Durante il secondo conflitto mondiale molti contadini della Grecìa Salentina, spesso analfabeti, al seguito delle trup-pe italiane in Grecia, sono stati chiamati a fare da interpreti e la loro lingua, a cavallo tra il greco classico e il neogreco, era in gran parte compresa dai greci che ne restavano stupiti» (Palamà 2013: 47).
[4] «Nei vangeli della natività si racconta che il sommo sacerdote dell’epoca decide di rifare il velo.A cinque vergini, tra le quali Maria, dà l’incarico di filare la porpora viola, la porpora rossa, il cremisi, il bisso e l’oro.Tira le sorti per ciascuna di loro e a Maria risulta assegnato il filato più prezioso, la porpora viola, qui definita la porpora vera.Il velo che Cristo lacera con la sua morte venne filato da Maria, come il nuovo, il suo corpo, venne intessuto ugualmente da lei» (Piro 2014: 373).
[5] http://www.treccani.it/enciclopedia/moire/
[6] Sui casi di apparizioni mariane in Italia, all’interno di un più specifico approfondimento etnografico, si rimanda ad Apolito 1990, in cui viene posto l’accento sull’omologazione del repertorio di rappresentazioni simboliche, in grado di costituirsi attorno a un nucleo piuttosto saldo e immodificabile di esperienze che presentano tratti di omogeneità.
[7] La Convenzione istituisce due liste di beni immateriali: «la Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale immateriale (Representative List of the Intangible Cultural Heritage of Humanity), che contribuisce a dimostrare la diversità del patrimonio intangibile e ad aumentare la consapevolezza della sua importanza; la Lista del Patrimonio Immateriale che necessita di urgente tutela (List of Intangible Cultural Heritage in Need of UrgentSafeguarding), che ha lo scopo di mobilitare la cooperazione internazionale e fornire assistenza ai portatori di interessi per adottare misure adeguate» (http://www.unesco.it/it/ItaliaNellUnesco/Detail/189). La Convenzione Unesco è stata ratificata dall’Italia nel 2007. Sempre a livello internazionale, il Consiglio d’Europa, nell’ottobre 2005 ha adottato la cosiddetta Convenzione di Faro, Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, che introduce il concetto di “comunità patrimoniale”, auspicando un coinvolgimento fattivo della società civile nei processi di patrimonializzazione dei beni culturali; quest’ultimo documento, tuttavia, non è stato ancora ratificato dall’Italia.Per quanto riguarda la Regione Puglia, dopo un primo intervento legislativo (l.r. 24/2000) che riconosceva il “patrimonio demoetnoantropologico” (spesso coincidente con il patrimonio immateriale), definendo le competenze della regione come concorrenti a quelle dello Stato, le successive leggi (l.r. 6/2004 e l.r. 30/2012) virano in una direzione ben precisa. Esse, infatti, individuano un nesso ben preciso tra i beni demoetnoantropologici e la possibilità di attuare forme di promozione sociale e culturale; tuttavia, in questo scenario, il ruolo di riferimento è affidato in modo pressoché esclusivo a forme di spettacolo legate a musiche e danze popolari, sul traino esercitato soprattutto dalla pizzica salentina.
[8] «L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi» (Convenzione Quadro dell’Unione Europea sul valore del patrimonio culturale per la società, Faro, 2005, art. 2).
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è un antropologo freelance. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha recentemente pubblicato il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015).
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