«Siamo noi i veri paesi, non le frontiere tracciate sulle mappe con i nomi di uomini potenti». Così fa dire al protagonista lo scrittore Michael Ondaatje nel romanzo, Il paziente inglese [1]
Esiste una distesa azzurra liquida, condivisa e attraversata ogni giorno e ogni notte da pescatori e migranti in cui si riflettono le rive opposte di due continenti, con i loro popoli, le loro storie e la loro cultura millenaria. Terre gemelle congiunte e allo stesso tempo divise, ma mai separate da quel “mare di mezzo in mezzo alle terre” che è il Mar Mediterraneo, un amalgama di assonanze e dissonanze.
Le vicende economico-politiche dalle quali siamo coinvolti e stravolti quotidianamente hanno fatto di questo mare una aspra frontiera, un confine di ferro, una netta linea di separazione, relegando ai margini della memoria la storia millenaria di cui è stato protagonista nel ruolo di percorribile specchio d’acqua unificatore di civiltà e culture che, per quanto apparentemente diverse, in esso si incontrano e riconoscono. Tutta la storia del Mediterraneo è fatta di incontri, scontri, approdi e guerre che hanno dato vita all’originale eterogeneità dei Paesi che vi si affacciano. «Il Mediterraneo è stato la rete dei viaggi per mare che possiamo ritenere a monte della civiltà europea. […] La cosiddetta Civiltà occidentale non sarebbe sorta, almeno secondo i caratteri che le conosciamo, senza le opportunità di scambi offerte da questo mare» [2].
Nella plurisecolare storia scritta dagli uomini che l’hanno attraversato cercando di conquistarne fascino e potere, ci sono state epoche in cui il flusso migratorio del Mediterraneo è stato costituito principalmente da gente che si muoveva tra i poli opposti delle sue rive, a rotte invertite rispetto a quelle attuali: non dall’Africa alla “fortezza europea”, ma dall’Europa alle “colonie africane”. E c’è stato un tempo non troppo lontano in cui ai migranti che salpavano su piccole imbarcazioni in condizioni precarie dalle coste siciliane, «bastava solamente una notte» [3] per sfidare la sorte tra quei lembi di terra dei due vecchi continenti che si ergono al centro del crogiolo Mediterraneo, per andare alla ricerca di un altrove che presagiva condizioni di vita migliori, in quel vicinissimo approdo nordafricano “non più a sud di Lampedusa” che è la Tunisia.
Però, «che la Tunisia sia stata terra d’immigrazione italiana e soprattutto siciliana è storia che nella letteratura dell’emigrazione è rimasta ai margini. Eppure […] l’Africa maghrebina fu a lungo percepita come il naturale prolungamento della penisola e delle isole, assumendo i contorni di una terra promessa ove cercare fortuna. Capo Bon era raggiunta da panteschi e trapanesi a bordo di piccole imbarcazioni a vela e la migrazione che aveva carattere spontaneo sfidava spesso i limiti della legalità. Il fenomeno, conosciuto come la kharqua ovvero la traversata, non si arrestò nemmeno in epoca fascista, quando era di fatto proibito l’espatrio» [4]. Movimenti e percorsi, dunque, sempre esistiti e mai estinti, a ricordarci quanto, seppure possano cambiare direzioni, motivazioni e modalità, i movimenti migratori siano consustanzialità dell’umanità nella sua perenne ricerca di nuovi spazi dai quali nascono realtà transnazionali destinati a travalicare e annullare immaginari e ideologici confini territoriali, nazionali, materiali e simbolici. L’altrove, però, con la sua carica ambivalente può rivelarsi come un immaginario collettivo fuorviante, magari alimentato dalle etnocentriche e stereotipate descrizioni dei viaggiatori europei di fine ‘800, così che al di là delle attrazioni illudenti esige sempre una decostruzione e una sua pragmatica ricostruzione.
Il fenomeno migratorio degli italiani verso la Tunisia è «un processo di lunghissima durata che attraversa modificandosi e articolandosi, l’età moderna e l’età contemporanea per giungere fino all’oggi»[5]. Dagli inizi del ‘500 commercianti, artigiani, contadini, anarchici, ex napoleonici, ed esuli in fuga, attivisti politici, intellettuali, imprenditori e pensionati sono arrivati in Tunisia in gruppi più o meno numerosi dando vita, in alcuni periodi, a delle vere e proprie enclavi, in cui la comunità italiana – ormai lacerata dai ritorni in una terra familiare e allo stesso tempo estranea – per secoli è riuscita ad esportare la propria cultura amalgamandola con quella locale. Piccoli quartieri e borghi che sorgevano e si sviluppavano attorno alle chiese cristiane proprio come succedeva per i paesini italiani. Oggi dell’enclave italiana o della “petit Sicile” in via di smantellamento, non rimangono che vecchie case e macerie con le loro memorie. Un fenomeno che è stato e continua ad essere determinato dai mutamenti socio-economico e politici sia locali che globali e che, soprattutto per quanto riguarda la Sicilia, sembra possedere una costante: l’esistenza (o persistenza) di un intrico di scambi e legami, un intreccio indissolubile per molti aspetti inspiegabile eppure demograficamente e culturalmente tangibile tra questi due Paesi, agevolato anche dall’estrema vicinanza geografica. Non è casuale il fatto che la comunità tunisina in Italia sia una delle più grandi e antiche comunità di immigrati non comunitari, costituita attualmente da 95.645 individui residenti di cui 19.244 solamente in Sicilia [6].
La migrazione tunisina in Italia è strettamente legata e consequenziale all’emigrazione lavorativa o politica degli italiani in Tunisia tra gli anni ’60 e ’80 dell’ ‘800. Negli anni ’20 e ’30 del ‘900 gli italiani in Tunisia erano circa centomila, di cui più della metà siciliani. Nel 1956 con la proclamazione dell’indipendenza della Tunisia molti italiani tornarono in Italia, mantenendo comunque rapporti di lavoro e/o di amicizia con i tunisini con i quali avevano convissuto fino a poco tempo prima, gli stessi che probabilmente furono tra i primi a emigrare in Sicilia. La storia dell’immigrazione tunisina in Italia ha inizio alla fine degli anni ’60 nella Sicilia occidentale, a Mazara del Vallo – anni in cui in città si viveva la piena crescita della flotta peschereccia – come migrazione esclusivamente maschile. Qui la presenza tunisina, infatti, si è realizzata in concomitanza con lo sviluppo della pesca d’altura, settore in cui sono risultati per molto tempo maggiormente impiegati gli immigrati maghrebini, preziosa riserva di manodopera in mare ma non solo. «Durante gli anni ’70 e ’80, i tunisini continuano ad arrivare in Italia attraverso il passaparola, ospiti presso amici o parenti per i primi mesi o comunque fino a trovare un alloggio decente. La rete della solidarietà tra connazionali trasforma coloro che prima erano ospitati in ospitanti di nuovi immigrati. […] Sono passati circa 45 anni e alcuni di quei pescatori sono oggi in pensione e convivono con figli e nipoti. Siamo alla terza generazione» [7]. I contatti tra le due sponde del Mediterraneo, dunque, non si interruppero mai. Una migrazione spesso dimenticata o celata dalla storia documentata e insegnata, quella degli italiani a Tunisi, ma che ha innescato una sorta di catena contromigrazionale, dalla Tunisia alle coste siciliane in particolare, la cui evidente testimonianza è la folta comunità tunisina di Mazara.
Dalla migrazione tra l’Italia e la Tunisia, nella sua articolazione binomica emigrazione-immigrazione, dunque, «ne risulta un gioco di specchi in cui il presente riflette il passato, capovolgendolo, sulla riva opposta» [8]. È proprio intorno a questo fondamentale gioco di specchi migrazionali tra l’Italia e la Tunisia nel più ampio spettro dei recenti movimenti transnazionali, che si articola e si sviluppa il libro a cura di Laura Faranda, Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente (Armando editore, 2015), un prezioso contributo alla conoscenza che muove dall’esigenza scientifica di ricercare, decostruire e ricostruire una memoria intercomunitaria italo-tunisina nelle sue implicazioni storico-economiche e antropologiche e che riesce a dare un’esaustiva visione sincronica e diacronica delle relazioni socio-politiche e non, intercorrenti tra i due Paesi nelle diverse epoche storiche. Poichè, come scrive Laura Faranda, è necessario «pensare le migrazioni di ieri e di oggi come “fatto politico totale” recuperando fonti documentarie e testimonianze dirette di un passato migratorio di cui nessuno più parla in Italia, ma che potrebbe fornire uno strumento di straordinaria efficacia per un monitoraggio antropologico del movimento migratorio (ben più recente) dei tunisini verso l’Italia e delle politiche d’intesa internazionali tra i due Paesi» [9]. Sono ricche di interessanti informazioni le testimonianze biografiche orali riportate a corredo delle puntuali e acute analisi degli studiosi che con i loro saggi compongono il corpo di questo “volume a più voci”, delineando la storia della presenza italiana in Tunisia in tutte le sue sfaccettature, senza tralasciare le preponderanti influenze economiche e le percezioni identitarie degli attori sociali di ieri che hanno vissuto in prima persona l’evoluzione dei rapporti intraetnici ed interetnici, e degli attori sociali contemporanei che specularmente con quanto avviene sulla sponda italiana con la presenza tunisina, continuano a tessere le fila dello storico rapporto tra i due Paesi mediterranei.
Un rapporto che gli italiani da sempre si sono contesi e forse continuano a contendersi con l’imponente presenza francese che ha giocato un ruolo fondamentale nella strutturazione identitaria dei tunisini e degli italiani di Tunisia. Proprio per questo, ricostruire la storia degli italiani in Tunisia è un’operazione ulteriormente complicata: significa ricostruire «la dimensione plurale di una storia che s’intreccia con quella di tre Paesi […], di una possibile occasione d’incontro tra queste tre realtà; significa ritessere altrove le fila di un dialogo tradito o anche solo dimenticato» [10].
Si tratta di un contesto spaziale e ideologico che riflette gli esiti sempre precari di un regime colonialista mai del tutto realizzatosi tra Italia e Tunisia – se non numericamente in determinati periodi storici e in alcune aree geografiche – socialmente e culturalmente preteso e conteso con i francesi, ed economicamente messo in atto attraverso una sorta di paternalismo imprenditoriale, col tempo diventato familiarismo imprenditoriale. Le vicende storiche hanno influito in modo determinante sull’autopercezione e autorappresentazione degli italiani di Tunisia, i quali vivono un’identificazione nazionale plurima che si è plasmata più che sulla base dell’appartenenza etnico-culturale e territoriale, sulla scorta degli eventi che si sono verificati sul suolo tunisino tra il protettorato francese e il “péril italien”.
Esiste, infatti, per molti di questi italiani di Tunisia una sorta di “triculturalità”, di identificazione geografico-culturale multipla, che contiene in sé l’ambivalenza della pluralità dei riferimenti socioculturali, poiché se da un lato arricchisce e rende unico il proprio orizzonte semantico, dall’altro lato può portare ad un sentimento di appartenenza multisituato con possibile spaesamento, per cui non ci si riconosce mai totalmente in una cultura o nell’altra. «Noi non siamo una cultura: siamo più culture messe insieme. […] È bello avere tre culture ma è anche molto difficile viverla questa triculturalità» [11], si legge tra le interviste riportate da Carmelo Russo, uno degli autori del volume, che ha indagato sui processi identitari. A causa della controversa concezione della nazionalità, in casi come questi spesso si attua un superamento a partire dalla terminologia, ricorrendo al termine maggiormente pertinente di sovranazionalità.
Un rapporto, quello degli italiani di Tunisia con la nazionalità e con la nazione di origine conflittuale, segnato dalle connotazioni politiche, da scelte strategiche e da “rivendicazioni escludenti”, come per esempio la scelta della nazionalità francese. In questo modo «le nozioni di nazionalità, identità, percezione di sé, da un lato vengono via via riplasmate in un contesto di continuo mutamento, dall’altro variano per le interpretazioni soggettive dentro le singole vite» [12]. L’autorappresentazione identitaria degli italiani di Tunisia si basa sulla pluriappartenenza culturale, su una transnazionalità e transculturalità spesso complessa e articolata, ma che non rinnega nessuna delle sue sfaccettature. Si tratta di conoscersi senza disconoscersi, non molto diversamente da ciò che accade ai Tunisini d’Italia e a coloro che vivono un orizzonte linguistico-culturale che non coincide con quello territorial-nazionale.
In questo come in tutti i contesti migratori le donne costituiscono l’elemento che congiunge e allo stesso tempo disgiunge i legami identitari, sociali e culturali tra il Paese di partenza e quello di arrivo; sono donne che riescono a vedere oltre i confini socio-geografici e a creare una militanza solidale che le contraddistingue. Le italiane di Tunisia, infatti, tra gli anni ‘30 e ’70 del ‘900 hanno vissuto «un cosmopolitismo culturale favorito dai circoli intellettuali e culturali dell’epoca» che le ha spinte a diventare caparbie e irreprensibili protagoniste del processo di trasformazione e rivendicazione della presenza italiana in Tunisia dopo la scomparsa della “collettività storica”, specie durante il periodo fascista. Sono ancora le donne, le tunisine d’Italia che hanno segnato fin dall’inizio del loro arrivo nelle città italiane, e continuano a segnare ancora oggi l’essenza dinamica e relazionale di quel sentimento identitario e identificativo che le vede sempre più abitanti più o meno consapevoli di una dimensione transculturale e globale della vita.
Ai flussi diasporici contemporanei prendono parte anche i “capitalisti transmigranti” attratti da agevolazioni fiscali e opportunità produttive, ovvero quella fetta di popolazione imprenditoriale che delocalizza le proprie attività in Paesi che offrono agevolazioni fiscali e forza lavoro a basso costo, ma che ha delle dirette ripercussioni nel locale contesto di arrivo, poiché apporta delle operazioni volontarie che inducono un mutamento sociale. «Sono essi stessi, gli imprenditori italiani in Tunisia, a descriversi come attori dello sviluppo. […] Donne e uomini desiderosi di “fare impresa” in Nord Africa si inseriscono in un ambiente sociale e culturale altro col quale intrattengono rapporti che certamente non possono essere letti nell’esclusiva ottica meccanicistica di impersonali relazioni economiche di investimento e profitto» [13]. Gli imprenditori italiani, a partire dagli anni ’70, colsero l’opportunità dell’infitah – l’“apertura” delle politiche economiche tunisine di sviluppo, industriale e liberalizzazione economica – per delocalizzare e rilocalizzare la propria vita lavorativa se non la propria famiglia. I rapporti finanziari bilaterali tra Italia e Tunisia, però, hanno innescato un circuito economico-finanziario basato su una reciprocità profondamente asimmetrica che non ha apportato vere e proprie agevolazione alla popolazione locale e che, come ha messo in evidenza Giovanni Cordova, ha innescato una sorta di “dono”, un meccanismo di reciprocità con annessi obblighi, vincoli e scadenze. Tale meccanismo, se considerato ad ampio spettro, richiama, solo per fare un esempio, i subdoli rapporti intrattenuti tra i Paesi del Nord Africa e la “fortezza” Europa. «In particolar modo i governi libico e marocchino, per soddisfare le esigenze di Paesi come l’Italia da cui provenivano e provengono tutt’ora aiuti allo sviluppo, hanno represso spesso spietatamente i flussi migratori in partenza per la sponda settentrionale del Mediterraneo, fino ad allestire dei veri e propri campi di concentramento» [14].
Sempre in ragione delle agevolazioni fiscali è in silente crescita un flusso di migranti italiani in Tunisia caratterizzato da una componente demografica ben precisa, con una connotazione socio-economica più o meno definita: i pensionati in fuga. È un fenomeno connesso non soltanto al sistema fiscale agevolato ma anche a un costo della vita molto vantaggioso [15], per cui non interessa soltanto la Tunisia come meta d’emigrazione ma anche Paesi come il Marocco o il Portogallo che vedono crescere il tasso di trasferimenti di uomini e donne europei in pensione provenienti soprattutto dall’Italia e dalla Francia. Questo tipo di mobilità – chiarisce Laura Faranda – assume in sè una protesta implicita «che riconduce all’insofferenza verso uno Stato considerato “in dimissione” rispetto ai luoghi, persone, fenomeni sociali che evocano la miseria del mondo.[…] Pendolari tra diversi ancoraggi, i pensionati italiani […] imparano giorno dopo giorno a convivere con una migrazione sui generis, caratterizzata da una stanzialità tunisina stagionale e da ripetuti rientri in Italia che tuttavia non preludono a nessun rimpatrio definitivo. E mentre il paese “estraneo” diventa progressivamente un po’ familiare, la patria si allontana, il legame fiduciario con il paese di origine si corrompe, l’espatrio si configura come esilio volontario, la protesta prende forma» [16].
Per comprendere il presente è necessario interrogarsi sul passato e ripensare il futuro in una traiettoria prospettica in cui è possibile che si parlino lingue familiari su sponde diverse. Tunisini di Italia e italiani di Tunisia, per esempio, fanno uso dello stesso linguaggio, parlano lo stesso idioma fatto di termini dialettali, di gesti, di saperi senza soluzione di continuità, eredità lasciate dagli avi che attraversarono per primi la terra che si trovarono a vivere, il dono di una commistione linguistico-culturale e geografica che perdura nel tempo. Poichè «la storia non torna mai sui propri passi ma frequenta spesso gli stessi luoghi»[17], sorge l’esigenza di sondare il reale guardando agli spazi in cui ci siamo insediati, ai mari che abbiamo solcato e alle terre che abbiamo arato, partire dalle “case” che abbiamo deciso di abitare, riappropriarsi del lontano vissuto per ritrovarlo vicino. Vedere il fenomeno migratorio dall’Italia all’Africa mediterranea dall’interno del Paese ospitante, proiettandosi storicamente, geograficamente e socio-antropologicamente tra le due sponde, significa analizzare il cosmopolitismo che la “societé d’appell” non solo tunisina ma dell’intero Maghreb ha costruito sulla base di un fenomeno migratorio transnazionale che ha dato vita ad una società plurietnica tra terre divise solo da poche miglia di mare tra il sud dell’Europa e il nord dell’Africa, significa partire dall’assunto che «i due Paesi che si guardano sulle due rive del Mediterraneo non hanno mai cessato di cercarsi, di influenzarsi, di condividere un sistema di riferimenti comune» [18].
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
Note
[1] Michael Ondaatje, Il paziente inglese, Milano, Garzanti, 2004.
[2] A. Buttitta, “Il sogno di Ludovico”, in G. Aiello-A. Cusumano (a cura di), Islam in Sicilia. Un giardino tra due civiltà, Gibellina, marzo 2012: 9. Sulla immagine dello specchio che rimbalza tra le due rive storie, memorie e culture vale la pena visionare il pregevole docufilm di Stefano Savona, Un confine di specchi, del 2002, che girato tra la Sicilia e la Tunisia mette in evidenza quanto evanescente e mobile sia il confine tra i due Paesi.
[3] Bastava una notte. Siciliani di Tunisi, di M. Giliberti, è un film-documentario che attraverso i racconti degli ultimi rappresentanti della comunità siciliana di Tunisi, narra l’emigrazione in Tunisia e mostra i luoghi in cui questa si è radicata e ha vissuto mantenendo salde le proprie tradizioni, quindi il proprio legame con la terra d’origine.
[4] A. Cusumano, “Migrazioni”, in G. Aiello-A. Cusumano (a cura di), op. cit.: 15
[5] S. Speziale, “Gli italiani di Tunisia tra età moderna e contemporanea: diacronia di un’emigrazione multiforme”, in L. Faranda (a cura di), Non più a sud di Lampedusa. Italiani in Tunisia tra passato e presente, Roma, Armando editore, 2015: 20
[6] Dati Istat
[7] Centro studi e ricerche IDOS (a cura di), Immigrazione Percorsi di Regolarità in Italia. Prospettive di collaborazione italo-tunisina, dicembre 2014: 9
[8] S. Speziale, op. cit.: 18
[9] L. Faranda, op. cit.: 10
[10] S. Finzi, “Oltre i mestieri. Memorie, identità politica e rappresentazioni sociali dei lavoratori italiani in Tunisia (1930-1970)”, in L. Faranda (a cura di), op. cit.:. 68
[11] C. Russo, “Sangue italiano, mente francese, cuore tunisino. Nazionalità tra percezioni e appartenenze”, in L. Faranda (a cura di), op. cit.: 104-105
[12] Idem: 87
[13] G. Cordova, “Le rotte dello sviluppo tra Italia e Tunisia: itinerari e cultura del Capitale”, in L. Faranda ( a cura di), op. cit.: 114
[14] Idem: 117
[15] «Per quel che concerne la mobilità Italia-Tunisia, sia gli italiani che i tunsini in quiescenza , in virtù di una convenzione siglata tra i due paesi nel 1984 durante il primo governo Craxi ed entrata in vigore il 1º giugno del 1987, godono di un trattamento fiscale agevolato, a condizione di prendere la residenza, iscriversi all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) e garantire una permanenza in Tunisia di almeno sei mesi l’anno. Il reddito netto della loro pensione sarà da quel momento rideterminato in base alla legge finanziaria n. 85 del 25 dicembre 2006, che prevede per i pensionati stranieri una quota di reddito non imponibile pari all’80%, imponendo la tassazione solo sul rimanente 20% con un’aliquota che a seconda del reddito varia dal 15% al 35% (quando si è ai limiti della fascia superiore, oltre i 50.000 dinari tunisini) e il cui tasso medio è del 20%». L. Faranda, “Lasciateci stare. Pensionati italiani in Tunisia tra crisi, esili e dimissioni dello Stato”, in L. Faranda (a cura di), op. cit.: 143
[16] Idem: 142
[17] A. Cusumano, op. cit.: 15
[18] Idem: 16
_______________________________________________________________________________
Francesca Rizzo, laureata in Beni demoetnoantropologici e specializzata in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli studi di Palermo, è impegnata nel volontariato culturale e in attività di ricerca etnografica sul territorio. È interessata ai temi dell’antropologia dello spazio e dei processi migratori.
________________________________________________________________