di Bruno Genito
Introduzione
Parlare di alto-medioevo è sempre piuttosto rischioso, molte delle più comuni conoscenze su quel periodo sono, infatti, come è noto, spesso stereotipi, generalizzazioni, verità parziali, quando non esplicite distorsioni ideologiche e perfino ricostruzioni fittizie. Questo è avvenuto e avviene tuttora soprattutto per quel carattere fortemente evocativo che il periodo ha sempre suggerito a noi europei e in particolare ai non addetti ai lavori, che fatalmente scivola verso interpretazioni riduttive se non addirittura fuorvianti.
Il concetto stesso di medioevo nasce, d’altra parte, come è altrettanto noto, in Europa, quando già nel XV secolo il termine latino di media-aetas, rifletteva l’opinione dei contemporanei, secondo i quali quel periodo avrebbe rappresentato una deviazione dalla cultura classica, in opposizione al successivo Umanesimo da un lato, e al Rinascimento dall’altro. L’area del Mediterraneo aveva visto proprio quei fenomeni come la caduta dell’Impero Romano e come l’Umanesimo e il Rinascimento, che altre parti del mondo non avevano vissuto. Altri fenomeni, inoltre, tipici dei primi secoli dopo la fine dell’Impero Romano, come il crollo demografico, la de-urbanizzazione, il declino del potere centralizzato, le invasioni e le migrazioni di massa di popoli diversi, erano già iniziati nella tarda antichità e furono abbastanza sconosciuti nel Vicino Oriente, in Cina, in America o in Africa.
È importante sottolineare, tuttavia, che quasi tutte le ricostruzioni fantasiose relative all’alto medioevo sono diventate estranee ai più recenti orientamenti di storici di professione ed esperti di medievistica. Negli anni settanta del secolo scorso, si poteva notare, benché l’accezione negativa del termine medioevo fosse ormai stata estirpata dalla critica storica, quanto essa fosse ancora in vigore nel linguaggio comune. A distanza di più di quarant’anni è interessante valutare se e in che misura le cose siano veramente cambiate, e se un atteggiamento pregiudiziale verso il medioevo possa dirsi effettivamente eliminato a livello di mass-media e cultura divulgativa. Ecco perché mi piace tornare a parlare di tanto in tanto proprio di medioevo indipendentemente dai canali editoriali specialistici, che restano, come si sa, quelli più propri dove si ospitano i contributi scientifici.
La tendenza a utilizzare la parola medioevo con un’accezione dispregiativa in qualsiasi ambito, anche non necessariamente quello storico, è in aumento negli ultimi anni, soprattutto in Italia; basti pensare all’aggettivo medievale che viene normalmente utilizzato nel senso di regresso verso l’inciviltà, per numerosi titoli “accattivanti” da parte della stampa non specialistica, come p. es. “politiche da medioevo”, o nei contesti medio-orientali “regimi medievali”, o ancora “una mentalità medievale”, etc. Tutto ciò non esclude che un ampio uso distorto del termine “medioevo” permanga lo stesso, anche perché risulta difficile valutare quanto questa tendenza sia ancora radicata nel linguaggio colloquiale e presso le fasce culturalmente meno evolute della popolazione.
Una significativa opposizione contro l’irreggimentazione del medioevo si infrange, tuttavia, sulla complessità, la poliedricità di un periodo lunghissimo (fra la caduta dell’Impero Romano e la scoperta dell’America trascorrono esattamente 1.016 anni!), costruito a posteriori, in modo artificiale sulla base dei differenti indirizzi storiografici.
Si può ipotizzare su quale terreno questo fenomeno di “medievalizzazione” del presente possa innescarsi, e considerarlo un tentativo di esorcizzare le paure della contemporaneità, che quasi sempre agli occhi dei contemporanei appare un’epoca di evidenti e profonde trasformazioni. Come in ogni periodo storico di forte cambiamento, si vedono i germogli di nuovi sistemi di valori, vengono generandosi nuovi ordinamenti politici, sociali ed economici. È inevitabile, quindi, che l’organismo sociale risponda a queste modificazioni dell’ambiente circostante, rivedendo i propri metri di giudizio. L’adattamento, più o meno consapevole, è, in alcuni casi, incentivato dal riferimento, come modello da adottare o come esempio da rifiutare, a determinati periodi storici; è il caso del medioevo, il quale negli ultimissimi anni ha subìto, tra l’altro, un vero e proprio revival.
Il mio Medioevo
Non sono in grado precisare, nella mia storia personale, quale ruolo letture di alcuni saggi (Baltrušaitis 1955; Vacca 1973) fatte negli anni 70’ del secolo scorso, abbiano giocato nella costruzione del mio immaginario relativo al Medioevo. Certamente la scoperta del “mostruoso” e del “pittoresco” nelle iconografie medievali e le loro relazioni con quelle più o meno simili dell’Oriente antico, cui faceva riferimento il primo saggio, e i riferimenti ad un improbabile futuro costellato da “arretratezze ”barbariche “medievali”, cui faceva riferimento il secondo, hanno costituito due innegabili poli di riferimento interpretativi nella ricostruzione della storia e della natura del medioevo; in esse restavano saldi infatti sia i caratteri della sua irriducibile diversità rispetto all’evo antico e a quello moderno, sia quelli del suo ineluttabile aspetto di decadenza.
Come tutte le letture dei vent’anni, esse si collocarono nella mente di uno studioso all’inizio del suo iter professionale, ma col tempo la realtà storica e culturale dei periodi medioevali, ad una più approfondita analisi si disvelò molto più dinamicamente complessa di quanto i famosi “secoli bui” [1] non avessero mai fatto veramente evocare. Forse agì da catalizzatore definitivo una conferenza da me tenuta a Salerno sul castello di Arechi, che mi indusse, per capire e comprendere appieno il periodo, a tenere in considerazione più di un aspetto fino a quel momento abbastanza trascurato: le evidenze monumentali architettoniche assieme a quelle della cultura materiale, di cui da pochissimo tempo si era cominciato, finalmente, a parlare anche in Italia (Carandini 1975; 1979).
Devo dire, in aggiunta a tutto ciò, che mi interessai attivamente, poi, sia pure tendenzialmente, provenendo da una formazione di studi classici, trapiantati proprio in quegli anni, a loro volta, in quelli sul vicino Oriente antico, a quell’importante movimento di studi in Italia sul medioevo e il conseguente dibattito e la nascita della rivista Archeologia Medievale nel 1974. Ciò è probabile che deve, poi, aver contribuito a creare le premesse in me per la nascita di quell’interesse scientifico che anni dopo si sarebbe materializzato in attività e pratiche di archeologia medievale.
In occidente, in conseguenza delle invasioni barbariche, in particolare quelle dei vari popoli germanici, si formarono nuove formazioni politiche nei territori che erano appartenuti all’Impero Romano, là dove quello d’oriente, invece, sopravvisse per tutta la durata del Medioevo, ed è generalmente indicato oggi con l’espressione di “Impero Bizantino”. Nel VII secolo, però, esso perse il Nord Africa e il Medio Oriente, che passarono sotto il dominio del Califfato omayyade. Ciò portò ben presto alle Crociate (la prima fu lanciata nel 1095), durante le quali il mondo islamico e quello cristiano si scontrarono tra l’XI e il XIII secolo per ragioni eminentemente socio-economiche, e da altre molto più vistosamente ideologico-religiose.
Sotto il dominio dei Goti, l’Italia era rimasta il cuore economico, culturale e religioso dell’Europa grazie alla sua tradizione e al coinvolgimento delle aristocrazie romane nella gestione del potere. Il tentativo di Giustiniano di recuperare all’Impero il Mediterraneo occidentale si infrange, dopo vent’anni di guerra, a seguito dell’invasione dei Longobardi. L’Italia perde la sua unità e si frammenta, oltre che politicamente, anche in contrapposizione ideologica tra Romani, cattolici e fedeli al papa di Roma, e conquistatori longobardi. Una minoranza al potere, divisa tra ariani, cattolici e pagani, cerca di consolidarsi attraverso la creazione di una forte identità: nella gerarchia sociale, nelle sepolture, nei nomi dei luoghi, nella legislazione e nelle istituzioni. Lo studio di tutto questo periodo ha contribuito nel tempo a far riflettere su questi temi, che hanno un significato anche per l’Europa di oggi, caratterizzata, come allora, da importanti processi migratori che ne mettono in discussione secolari equilibri politici, sociali e culturali.
La libertà di migrare, indipendentemente dalle pur estreme necessità politiche e/o climatiche che di volta in volta si sono ineluttabilmente presentate di fronte ai gruppi umani, ha spinto da sempre centinaia di milioni di persone a spostarsi da un posto all’altro dell’orbe terraqueo. Quella libertà/diritto, a partire già dell’Homo sapiens, ha scandito la storia del pianeta portando a continui rimescolamenti di etnie, culture, razze, idee, usi, costumi etc. Ci sono stati, però, dei periodi nella storia umana nei quali quei movimenti di popoli hanno più marcatamente segnato dei passaggi culturali epocali, a volte tragicamente drammatici, meno volte più pacifici. L’alto-medioevo [2] nel nostro Mediterraneo da questo punto di vista è forse, tra i periodi vicini a noi, quello più caratterizzante in questo senso, o per lo meno esso ci appare tale, così come la percezione delle fonti scritte e le poche archeologiche rimaste ce lo hanno tramandato. Gli stessi Romani dominatori di quel mare da secoli avevano già avuto a che fare e per tempo con realtà etnico-culturali le più disparate e diverse tra loro, molte non europee soprattutto attraverso alcuni epocali scontri militari: con i Persiani di epoca partica (battaglia di Carrhae, 54 a.C.), con i Sarmati Roxolani (anch’essi iranici di origine) (battaglia di Adamclisi nel 102 d.C.), con i Persiani di epoca sasanide (battaglia di Edessa nel 260 d.C.), con i Visigoti (battaglia di Adrianopoli/Edirne nel 378 d.C.), con i Goti (battaglia di Tessalonica nel 380 d.C.), di nuovo con i Visigoti (sacco di Roma nel 410 d.C.) e gli Unni (assedio di Aquileia 453).
Con la caduta definitiva dell’impero, così, numerosissimi “nuovi popoli” si affacciarono alla ribalta nel mondo mediterraneo, creando le premesse, per poderosi e inediti rivolgimenti politici. L’emergere di questi nuovi popoli originariamente nomadi come, nell’Europa “orientale” gli Unni, gli Avari, i Cazari, i proto-Bulgari, i Peceneghi, i Polovzi, i Cumani (tutti di origine paleoturca), i Magiari (di origine ugrofinnica), gli Alani e gli Iasi (entrambi di origine iranica), in Cina, gli Xiognu, gli Xianbei, i Tuoba (di origine paleo-turca) ecc., e in Asia Centrale e Iran Mongoli e Timuridi (di origine turco-mongolica) segnò sicuramente una svolta antropologica e anche etnico-culturale in quelle realtà, con importanti riflessi nel mondo mediterraneo e nel modo in cui si sarebbero poi analizzati e studiati.
Nomadismo e Archeologia Medievale
La storia e la natura del nomadismo medievale non possono essere ben formulate se non anche nel contesto delle attività sul campo dell’archeologia medievale, quell’area specializzata della ricerca che ha applicato i metodi della disciplina archeologica alle culture post-classiche nell’indagine di strutture, mentalità, manufatti e ogni testimonianza dettagliata del periodo che va dalla caduta dell’Impero Romano (476 d.C.) alla nascita dell’età moderna (1492). All’interno di queste due epoche storiche, l’archeologia medievale ha cercato di indagare ogni aspetto culturale, dal mondo barbarico a quello bizantino e longobardo, da quello cristiano a quello islamico, a quello ebraico ecc., e dove possibile anche dei popoli dell’Eurasia.
In Italia una Archeologia medievale, come si è stato già detto, è stata codificata come disciplina solo a partire dagli anni ‘70 del XX secolo, gli studi post-classici erano rimasti appiattiti fino ad allora sull’epoca greco-romana e quella paleo-cristiana. I primi incarichi accademici e i primi interventi di recupero di contesti archeologici medievali a parte qualche sporadico caso agli inizi del secolo, cominciano a partire dal 1974, quando apparve la pubblicazione della già citata rivista specializzata, “Archeologia Medievale” sotto la direzione di Riccardo Francovich.
Uno dei più grandi ed importanti ritrovamenti archeologici relativi all’alto-medioevo in Italia negli ultimi decenni sono stati senz’altro quello di Campochiaro/Vicenne e quello di Campochiaro/Morrione (CB). I due ritrovamenti si trovano in un’area pianeggiante di modeste dimensioni, lungo il tratturo Pescasseroli-Candela, importante arteria di transito del nomadismo transumante ricalcata in epoca imperiale dal percorso della via Minucia, sulla dorsale orientale della catena appenninica, tra Roma e Napoli. Si tratta di due necropoli a 800 metri di distanza l’una dall’altra, messe in luce dalla Soprintendenza del Molise tra il 1987 e il 1998 (Ceglia 1988; 1990; 1991; 2000a; 2000b; 2004), che ha evidenziato 167 tombe di cui 12 con deposizione contemporanea di inumato e cavallo nel primo caso, e da almeno 230 tombe di cui 7 con cavalli nel secondo.
Storia delle scoperte e stato delle indagini
Le scoperte rappresentano una importante testimonianza storico-archeologica attraverso la presenza di quelle tombe con cavallo pertinenti probabilmente a popolazioni caratterizzate da forme di nomadismo nella nostra penisola risalente al VII secolo d.C. e tuttora piuttosto sconosciuta nell’Europa mediterranea.
Queste sepolture hanno permesso, tra le altre cose, di anticipare in Europa occidentale almeno al VII secolo l’introduzione e la diffusione delle staffe metalliche, tradizionalmente datate, invece, all’VIII secolo all’epoca della guerra tra Carlo Magno e gli Avari e rinvenute in numerosi esempi proprio in quelle tombe. I due ritrovamenti, indipendentemente da numerose altre questioni storico-culturali ancora aperte, indicò una nuova prospettiva di studio relativamente a quel rituale funerario, l’ultima forma di una specializzazione ideologico-cultuale (uomo + cavallo e i suoi finimenti) risalente, a mio parere, al ben più antico rito della sepoltura del cavallo e, in qualche particolare area geo-culturale, anche con carri, in Asia centrale, Russia meridionale ed estremo oriente cinese, già dalla metà del II millennio a.C.
Oltre ad alcune tombe databili dall’età arcaica a quella classica, le due necropoli molisane risalgono al periodo longobardo, le prime di epoca altomedievale ad essere scoperte in quella regione. Dopo un primo intervento di scavo, condotto nel 1987 a Vicenne in seguito all’individuazione di tracce di sepolture distrutte lungo l’argine di una cava, i lavori (Ceglia 1988: 36-43), permisero di scavare per intero un’area cimiteriale di 35 × 45 m. [3].
Alcuni contributi di carattere interpretativo (Genito 1988; 1991; 1995/7; 1999), collegarono quel tipo di seppellimento proprio alla antica tradizione culturale dei cavalieri nomadi delle steppe eurasiatiche. Presso una società militarizzata e dedita alla pastorizia come quella eurasiatica, il cavallo doveva avere svolto un ruolo determinante; utilizzato per il trasporto, in combattimento e come fonte di sostentamento, e costituito un indicatore del rango e della funzione sociale e politica del defunto, ma pure, quello della ricchezza personale dello stesso (Garam 1995). L’inumazione di un cavallo intero comportava, infatti, la perdita di un bene dall’enorme valore anche economico, che richiedeva anche un grosso investimento di lavoro rispetto all’inserimento nella tomba del solo pasto funebre.
Nelle Storie (I: 215), Erodoto aveva fatto riferimento per l’età del ferro nell’Eurasia all’usanza di sacrificare cavalli da parte del popolo dei Saka-Massageti, mentre in un altro passo (IV, 68), è riportata la descrizione di un rituale funerario rivolto ai re scitici, i quali si facevano seppellire insieme alle persone del proprio seguito e numerosi cavalli; in questa occasione, gli animali venivano strangolati e collocati nella camera funeraria.
Un’importante fonte scritta relativa, invece, al medioevo, è costituita dal manoscritto redatto agli inizi del X secolo da Ibn Fadlan, inviato dal califfo Abbaside Muqtadir presso il re dei Bulgari del Volga; il resoconto di viaggio riporta una serie di annotazioni interessanti dal punto di vista storico, geografico ed etnografico, compresa la descrizione del funerale di un uomo di etnia khazara, alla cui morte veniva ucciso un cavallo poi collocato nella tomba (Canard 1958).
Le tombe cavallo-cavaliere a Campochiaro /Vicenne
Per tipologia della struttura tombale e degli oggetti di corredo presenti, le sepolture contenenti i resti di cavallo e cavaliere condividono diverse caratteristiche con quelle del resto del sepolcreto di Campochiaro/Vicenne. Nella maggior parte dei casi il cavaliere occupa il lato meridionale della fossa, il cavallo la parte settentrionale; per questo è quasi sempre sepolto alla sinistra del defunto.
Nella tomba 16, la prima per ordine di scoperta, cavallo e defunto giacevano insieme in una fossa rettangolare ben squadrata (270 × 180 × 130 cm). Il cavallo, uno stallone dell’età di 12/14 anni con altezza al garrese di 135.40 cm, abbattuto da un colpo inferto sulla sommità del cranio (Bökönyi 1988), giaceva con tutte le parti dello scheletro alla sinistra dell’uomo (60-65 anni) con medesimo orientamento (Ceglia 1990). Nella bocca era presente un morso in ferro, a ridosso dell’animale vi erano vari accessori dei finimenti (anelli, guarnizioni in bronzo, fibbie in ferro), le staffe in ferro si trovavano ciascuna lungo i lati del corpo, un ago in bronzo sull’anca sinistra; in corrispondenza del corpo del cavallo, vi erano diversi oggetti appartenenti al cavaliere: una cuspide di freccia, l’umbone e il manico dello scudo collocato lungo la parete nord della fossa, nonché una cuspide di lancia posizionata sul fianco destro dell’animale (Ceglia 1988; Genito 1988; Genito 1995/7; Ceglia 2000a; Genito 2000).
Gli oggetti in associazione col guerriero consistevano in un coltello e uno scramasax in ferro, quest’ultimo dotato di fodero con rinforzo in bronzo, deposto trasversalmente sul torace dell’inumato; fra gli elementi del costume, erano presenti una fibbia in bronzo trovata sull’anca sinistra, vari pezzi in bronzo di una cintura a cinque pezzi con placchette decorate a ‘occhi di dado’ e altri pezzi in ferro sempre pertinenti a una cintura, di cui uno con decorazione in agemina spiraliforme (Ceglia 1988; Genito 1988; Genito 1995/7; Ceglia 2000a; Genito 2000).
Anche nella tomba 29, il cavallo giaceva accanto al cavaliere in una fossa rettangolare ben squadrata, l’animale era stato adagiato sul fianco con tutte le parti dello scheletro. Fra gli elementi della bardatura, sono presenti il morso e le staffe in ferro; nella stessa tomba sono stati rinvenuti anche frammenti di un arco, nonché una punta di lancia che, pur essendo parte integrante dell’armamento del guerriero, era accanto al cavallo come l’umbone dello scudo (Ceglia 1990; Ceglia 1991; Genito 1991). Dai dati finora pubblicati, sappiamo che in connessione col cavaliere, vi era un’olletta in ceramica prodotta a mano (Ceglia 1990).
Nella tomba 33, un cavallo maschio di 2/3 anni con altezza al garrese di 135 cm, era stato collocato in una fossa rettangolare con angoli arrotondati (2.40 × 1.90) insieme al cavaliere, un giovane adulto dell’età di circa 20 anni, deceduto per un colpo di spada ricevuto nella calotta cranica come rilevato dalla frattura nella regione frontale e in quella parietale di sinistra (Giusberti 1991). Il cavallo giaceva sul fianco sinistro e integralmente con lo stesso orientamento del defunto, le zampe erano flesse, la schiena rivolta verso l’uomo. Fra gli elementi della bardatura, sono presenti il morso in ferro, degli accessori fra cui degli anelli in ferro collegati alle briglie, una fibbia di ferro, la cui funzione doveva essere quelle di sostenere le corregge di una sella o di una gualdrappa e dei terminali in bronzo trovati su entrambi i lati della testa, le staffe in ferro si trovavano sotto la pancia; un’altra staffa, ma in bronzo e di dimensioni inferiori rispetto a quelle in ferro, era stata collocata al di sopra di un ciottolo, vicino al lato destro dell’animale.
Sempre in associazione col cavallo, non lontano dalla testa, vi era una punta di lancia. Le armi del cavaliere, comprendevano lo scramasax, un coltello, nonché 3 diverse tipologie di cuspidi di freccia; queste ultime, erano state collocate insieme a un anello in ferro di funzione incerta, una fibula di bronzo (forse connessa a una borsa) e un vaso di ceramica tra l’uomo e l’animale (Genito 1991, ff. 1-29; Ceglia 2010). Fra gli elementi dell’abbigliamento, compaiono un oggetto in ferro con una catenella di rame ritenuto uno specillo (o nettaorecchie), i pezzi in bronzo di una cintura a 5 pezzi (fibbia, controplacca, guarnizioni, puntali e terminale), un anello digitale in bronzo con decorazione a rosone, nonché un anello d’oro con pietra dura, con castone composto, sulla faccia esterna, da una gemma romana (in corniola) decorata con alcuni simboli dell’Annona e caratterizzata, nella parte retrostante a contatto con il dito, dall’eccezionale riproduzione di un tipo monetale, molto probabilmente il dritto di un tremisse della seconda metà del VII secolo [4].
Località Morrione
Nella necropoli di Morrione, gli scavi, iniziati nel 1990 e non ancora completati, fino ad oggi hanno messo in luce un’area di 100 × 50 m, fortunatamente non compromessa da manomissioni come quella di Vicenne. La necropoli è affine a quella di Vicenne per la condivisione del rito del seppellimento del cavallo, la distribuzione ordinata per file delle tombe e la loro configurazione in semplici fosse rettangolari nonché alcune tipologie degli oggetti del corredo rituale e personale. Forse, confrontando le planimetrie delle due necropoli, l’unica differenza, seppur di poco conto, potrebbe essere rappresentata dall’orientamento delle tombe, non nordovest-sudest come a Vicenne, ma in tal caso, rigorosamente ovest-est.
Le tombe cavallo-cavaliere a Morrione
Dai dati finora pubblicati, sappiamo che i cavalli erano stati sepolti ciascuno integralmente e coi finimenti (staffe comprese) nella stessa fossa del cavaliere e che in 3 casi l’orientamento era invertito rispetto a quello del defunto (Ceglia 2000: 217). Inoltre, nella tomba 10, l’armamento del guerriero era composto dallo scramasax e la lancia, mentre quello della tomba 134 era costituito soltanto da 4 punte di freccia (Ceglia 2000: 217); da quest’ultima sepoltura, proviene anche una moneta d’oro, elencata (Arslan 2004: 97) fra gli oggetti di corredo insieme al morso e le staffe in ferro, vari accessori dei finimenti del cavallo, guarnizioni di cintura con decorazione ageminata, un recipiente in ceramica e altri manufatti di collocazione e funzione incerte (anello ferro, borchie, collana, elementi ornamentali in ferro e argento, fibbia e gancio in ferro). Lo scudo è presente soltanto in due sepolture: nella tomba 152, l’oggetto era stato collocato verticalmente lungo una delle pareti della fossa, mentre nella tomba 102 era stato deposto orizzontalmente sul bacino del defunto; in entrambi i casi, l’umbone presentava delle guarnizioni in bronzo dorato (Ceglia 2008a; Ceglia 2008b).
Proprio quest’ultima sepoltura, la tomba 102, costituisce uno dei ritrovamenti meglio documentati e più significativi dell’intero complesso. In essa, cavallo e cavaliere giacevano insieme in una fossa rettangolare (300 × 200 cm). Il cavallo, deposto a alla destra del cavaliere, giaceva accovacciato con tutte le parti dello scheletro e con orientamento invertito rispetto a quello dell’inumato. La testa dell’animale era sorretta da un rincalzo di ciottoli posizionato attorno e sotto la mandibola, il muso infisso in un buco scavato nel terreno. Come a Vicenne, anche in questa tomba, la bardatura dell’animale comprendeva il morso e le staffe in ferro, queste ultime, trovate sempre lungo i fianchi del destriero, inoltre, a rivestire il corpo dell’equide, vi erano delle preziose guarnizioni in argento in origine connesse alle cinghie, tipologicamente affini a quelle trovate nella tomba 150 di Vicenne; il set comprendeva qualche terminale e delle montature a forma di semi-borchietta o nappa; soltanto 2 guarnizioni, probabilmente delle falere, erano in ferro impreziosito da decorazione ageminata. A completare il carico dell’animale vi erano la solita cuspide di lancia, la faretra con listelli in osso decorato, nonché le punte di freccia insieme agli irrigidimenti in osso dell’arco, questi ultimi ubicati sul fianco sinistro dell’animale. Il cavaliere, stranamente deposto senza la cintura (come quello della tomba 150), portava con sé, oltre allo scudo deposto sul bacino, una preziosa spada a un taglio della lunghezza di 99 cm, deposta sul suo lato sinistro, la quale non trova confronti all’interno dell’intero complesso cimiteriale questa, non solo era caratterizzata da una lama damaschinata (Marchetta 2017), ma era impreziosita pure da due passanti a P in argento (uno vicino all’elsa, l’altro a metà della lama) e 3 rivestimenti, sempre in lamina argentea, con decorazione figurata a sbalzo, posizionati alle due estremità dell’elsa, sull’immanicatura dell’arma e il terminale del fodero ligneo, le cui tracce mineralizzate si trovano sulla lama (Ceglia 2008a; Ceglia 2008b).
A causa dell’eccezionalità dei ritrovamenti, lo studio delle varie classi di materiali ha visto, fin dall’inizio, il coinvolgimento di studiosi di più ambiti disciplinari (Arslan 1991; 2000; 2004; Bökönyi 1988; 1991; Ceglia 1988; 1990; Genito 1988, 1991; Giusberti 1991). In merito alle prime scoperte in località Vicenne, si era sottolineato (Genito 1988) come l’importanza del sito non dipendesse dal sepolcreto in sé – pur essendo il primo della regione ad essere riferito all’età altomedievale – né, tantomeno, dagli oggetti di corredo, considerato che, nei cimiteri altomedievali della penisola, la maggior parte di essi, per tipologia e morfologia, non costituisce una novità assoluta. Piuttosto, a rendere il cimitero di massimo interesse è la combinazione in un unico contesto di elementi di più tradizioni culturali diverse, fra i quali le componenti più insolite e di maggior spicco sarebbero state quelle legate ad un orizzonte allogeno, come certi reperti aurei e argentei provenienti dalle tombe femminili, ma prima di tutto, il consistente numero di sepolture equine, caratterizzate dalla deposizione dell’animale bardato con le staffe nella stessa fossa del cavaliere, ancora sostanzialmente un unicum nella tradizione altomedievale italiana.
Malgrado le difficoltà interpretative di carattere etnico-culturale, fin dalle prime considerazioni fu notata a Campochiaro, oltre ad elementi di una ritualità di probabile origine centro-asiatica, anche la presenza di oggetti appartenenti a una produzione artigianale diversa da quella longobarda o romano-mediterranea. Si tratta, per l’appunto, di alcune categorie di manufatti ben diffuse nei coevi contesti del bacino carpatico territorialmente compresi nell’impero avaro, come le staffe in metallo, provenienti dalle tombe maschili con cavallo, nonché, certe tipologie di orecchini in oro e argento a globo mammellato, presenti in alcune sepolture femminili (Genito 1988, 55-6), forse di derivazione bizantina.
Ma ad essere apparsa straordinaria nel contesto del ritrovamento, è stata prima di tutto la corrispondenza fra i dati archeologici (rito del seppellimento uomo-cavallo, oggetti di ambito avarico, bizantino e locale) e l’informazione storiografica fornita da Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum, riguardante l’arrivo nel 668/9, nei territori compresi tra Sepino, Bojano e Isernia, delle truppe “bulgare” di Alzecone che, inviato da re Grimoaldo (668-671) al figlio Romualdo, duca di Benevento, avrebbe mutato, in seguito alla concessione dei nuovi territori, la sua fisionomia da capo militare, dux Bulgarorum, a funzionario regio, acquisendo il titolo di Gastaldus (Hist. Lang., V: 29).
Mentre la prima tomba con cavallo (tomba 16 di Vicenne) è sembrata un ritrovamento insolito e inaspettato, la posteriore scoperta di nuove deposizioni equine e di altri elementi di derivazione asiatica (provenienti dalle tombe con e senza cavalli) non ha potuto che porre ulteriori interrogativi, inducendo (Genito 1991: 338; 1995/7: 3; 1997) a supporre l’alta probabilità della relazione del sepolcreto con un gruppo etnico diverso nel territorio molisano. L’adozione da parte di un gruppo di popolazione estraneo al contesto di rinvenimento di una ritualità funeraria, che infatti, costituisce in genere uno degli elementi culturali più conservatori, di una cultura, sarebbe più facile da concepire, in confronto all’utilizzazione di un costume diverso dal proprio da parte di una popolazione che già viveva in quel territorio.
Comunque, malgrado i rigorosi contributi di tipo asiatistico e l’avanzamento dei lavori di scavo, le opinioni sull’ethnos dei defunti restano ancora discordanti. A trent’anni dalla scoperta, ci si chiede ancora se le popolazioni sepolte a Campochiaro/Vicenne fossero di Longobardi, Avari, Proto-Bulgari o autoctoni (Ceglia 2004). Mentre le prime letture interpretative orientavano verso componenti nomadiche dai caratteri etnico-culturali tipicamente alloctoni, più recentemente si è affermata l’ipotesi dell’appartenenza delle necropoli a una comunità multietnica e multiculturale (Ceglia, Marchetta 2012: 217-8), che come è di tutto evidenza non cambia l’ordine delle cose, e anzi a mio parere, le rafforza vistosamente.
La problematica deriva in primo luogo dalla commistione dei corredi, nei quali, oltre a componenti di ambito avarico, vi sono per lo più oggetti di tradizione longobarda, bizantina o romano-mediterranea (Ceglia 1988; Genito 1988; Ceglia 1990; Ceglia 1991; Genito 1991).
Richiamando l’attenzione su vari lavori storiografici, Cristina La Rocca (2004a; 2004b) ha proposto di ridimensionare e ridiscutere il presupposto sul quale si erano basate le indagini archeologiche, ovvero, quello di associare il corredo alle caratteristiche etniche del defunto, alla religione pagana o all’occupazione strategica del territorio [5]. Secondo la sua chiave di lettura, nell’Alto Medioevo l’attività militare sarebbe divenuta simbolo di leadership indipendentemente dall’etnia, perciò la scelta di deporre armi nei corredi, piuttosto che essere correlata a un costume etnicamente tipico o all’attività effettivamente svolta in vita dal defunto, andrebbe intesa come moda che attraversa ogni gruppo etnico. Il notevole investimento nel rituale funerario familiare attraverso la deposizione di consistenti oggetti preziosi nei corredi, definita dalla stessa una “stravaganza funeraria”, andrebbe spiegato come momento di esibizione pubblica della rilevanza sociale attraverso un modello di “eccellenza equestre”. Questo in ragione del fatto che, specialmente nelle estese necropoli aperte, il rituale sarebbe stato un momento di esibizione pubblica dello stato familiare, al quale avrebbero partecipato i familiari come i clienti del defunto e del gruppo familiare. Mediante la vestizione del morto, i familiari avrebbero cercato di rivendicarne le caratteristiche sociali, ma anche, di dimostrarsi degni di proseguirne il ruolo, mantenere la terra familiare e i legami di clientela, dal momento che, prima dell’emanazione dell’editto di Rotari (643), nella società longobarda, la posizione sociale non era ratificata dai titoli pubblici. Secondo la studiosa, tale situazione socio-economica spiegherebbe il significativo complesso di Campochiaro con le sue tombe equestri che, piuttosto che costituire la prova etnica di occupazione strategica e militare del territorio o testimoniare la presenza di una temibile aristocrazia guerriera, rappresenterebbero la volontà da parte di parvenus di ostentare le proprie ricchezze e conservare il proprio stato. Resta il fatto difficilmente contestabile che farsi seppellire in modo così insolito in una realtà, già prevalentemente cristianizzata, non è così facile da dimostrare, ed è proprio il carattere estremamente conservatore di un rituale funerario che fa pensare alla presenza di popolazioni alloctone.
Più articolato è il discorso di chi ritiene che più importante sia una diversa (Provesi 2010), metodologia d’indagine da seguire, che non tenga conto solo di fattori etnici, ma quella recentemente proposta da una certa e diversa storiografia [6]. Essendo forte nell’Alto Medioevo (specialmente in epoca longobarda) la volontà di dimostrarsi exercitales, un fenomeno abbastanza comune sarebbe stato l’uso di una strategia di distinzione attraverso la simbologia equestre. Su queste basi, si è addirittura ritenuto che l’eccezionalità della necropoli di Vicenne non fosse costituita dalla presenza dei cavalli o dalle rispettive modalità di deposizione, ma dal loro numero elevato; le varianti di deposizione e le tipologie dei corredi sarebbero invece attribuibili all’ambito locale, essendo il territorio dell’Italia meridionale, in particolare quello beneventano, ricco di testimonianze sul linguaggio equestre che potrebbe essersi rafforzato dalla propagazione del culto di fondazione di Diomede, eroe legato alla figura del cavallo. Senza considerare la corposa bibliografia sul tema, la studiosa, a sostegno della sua interpretazione, cita vari esempi di fonti scritte contenenti riferimenti alla simbologia equestre: fra questi, l’agiografia di san Barbato (555-63) con l’episodio relativo al cerimoniale del Sacra Arbor [7], ma soprattutto, le Variae di Cassiodoro, opera più volte attraversata dal tema della valorizzazione dei cavalli [8]. Sulla base della tipologia degli oggetti di corredo di alcune tombe, in particolare la tomba 16, la storica ha anche proposto di far risalire la fondazione del sepolcreto non alla seconda metà del VII secolo, ma al VI, fase anteriore all’evento narrato da Paolo Diacono nell’Historia langobardorum, opera che, essendo stata redatta due secoli dopo, non dev’essere considerata una fonte sempre attendibile [9]; riprendendo le considerazioni di Walter Pohl e Florin Curta sui ‘Bulgari’, è stato infine ricordato come tale denominazione comprendesse diverse popolazioni e non un gruppo etnico ben definito. Per queste ragioni, piuttosto che riferirsi a un rituale di tradizione centrasiatica, le sepolture equine di Campochiaro/Vicenne sarebbero il riflesso di una strategia di distinzione sociale, non da parte di gruppi bulgari che avrebbero mantenuto le usanze delle steppe orientali, ma, esponenti di nuove élite, che avrebbero deciso di mostrarsi come cavalieri armati per rivendicare l’ideale di appartenenza alle origini guerriere e legittimare la collocazione in un sistema sociale e culturale in cui il cavallo era secolarmente un segno di distinzione (Provesi 2010, 108-9).
Nell’esaminare i manufatti in ferro prodotti in ambiente longobardo e nell’area merovingia orientale e richiamando l’attenzione sulle similitudini fra il contesto di Campochiaro/Vicenne e la necropoli bavarese di Moss-Burgstall (La Salvia 2011: 309-11), viene messa in discussione l’ipotesi che i gruppi guidati da Alzecone, menzionati da Paolo Diacono e altri autori medievali, debbano essere identificati con gli inumati delle due necropoli (quindi quella molisana e quella bavarese) [10]; questo, senza escludere che entrambi i contesti provino un movimento e stanziamento di popolazione per ragioni strategico-militari, nonché l’esistenza di profondi rapporti fra l’area merovingia orientale e il bacino carpatico.
Per contro, più di recente (Ebanista 2014: 462-7) si è ritenuta prevalente l’ipotesi della presenza di un gruppo alloctono. Il fatto che il seppellimento uomo-cavallo fosse una tradizione legata a usanze importate dall’esterno, potrebbe trovare conferma nell’alto numero di sepolture con cavalli che non trova riscontro in altre necropoli longobarde italiane. L’ipotesi di una presenza straniera che avrebbe mantenuto usanze tradizionali pur utilizzando manufatti ‘romano-bizantini’, sarebbe confermata, oltre che dalle tombe cavallo-cavaliere, da oggetti di ambito non locale e dalle ‘camere funerarie’, anch’esse non attestate nel territorio del ducato di Benevento. La maggiore ricchezza e qualità dei corredi delle necropoli di Campochiaro/Vicenne e Campochiaro/Morrione rispetto a quelli delle tombe a muratura rinvenute in altri contesti del territorio del ducato beneventano, potrebbe anch’essa rispecchiare la presenza di una nuova comunità con ampie risorse finanziare; perciò, la convivenza di differenti tradizioni culturali si potrebbe spiegare come la conseguenza del processo di acculturazione e assimilazione tra elementi alloctoni e popolazione locale, avvenuto nel corso del VII secolo. Come si può vedere restano ancora aperte possibili e diverse interpretazioni relativamente alla appartenenza e affiliazione culturale delle due necropoli, dei rituali funerari e degli oggetti presenti nei corredi. La contemporanea co-esistenza di gruppi etnici diversi e proposte culturali mescolate non deve sorprendere più di tanto, proprio nell’Italia meridionale, da sempre ricca di varietà e diversità non sempre pacificamente, ma sempre in ultima istanza, dinamicamente integrate.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Definizione semplicistica di medioevo per la quale esso si presenta come un’età dominata da oscurantismo, immobilismo, assenza di cultura, violenza, in cui popolazioni “barbariche” e arretrate vivevano sotto il giogo della superstizione e l’autorità di una Chiesa persecutrice e corrotta.
[2] L’Alto Medioevo è, per convenzione, quella parte del Medioevo che va dalla caduta dell’impero romano d’Occidente, avvenuta nel 476, all’anno 1000. A seconda dell’impostazione storiografica, il primo secolo di tale periodo si può talvolta sovrapporre al periodo precedente della tarda antichità, mentre l’ultimo secolo a quello successivo del basso medioevo. Tale periodo vide una continuazione delle tendenze evidenti fin dall’antichità classica, compreso uno spopolamento, avvenuto in particolare nei centri urbani, un declino negli scambi commerciali, un lieve aumento delle temperature e l’affermarsi del fenomeno delle migrazioni. Nel XIX secolo l’Alto Medioevo era spesso etichettato come “secoli bui”, una caratterizzazione basata sulla relativa scarsità di produzione letteraria e culturale di questo periodo. L’impero romano d’Oriente, o Impero bizantino, continuò a sopravvivere nonostante nel VII secolo il Califfato Omayyade avesse conquistato ampie porzioni di territorio precedentemente romano. Successivamente, molte delle tendenze elencate andarono incontro a una inversione. Nell’800 il titolo di “Imperatore” fu riproposto nell’Europa occidentale con Carlo Magno, detto “Il Grande”, il cui Impero carolingio influenzò di molto la struttura sociale e la storia europea. Le popolazioni europee intrapresero un ritorno all’agricoltura sistematica, con importanti innovazioni come la rotazione delle culture e l’aratro pesante. L’espansionismo dei barbari si stabilizzò in gran parte dell’Europa anche se quello vichingo si protrasse in larga misura nell’Europa settentrionale.
[3] A proposito delle prime scoperte in località Morrione, si veda: Ceglia 1991; Genito 1991, 329. Per i ritrovamenti successivi, si consultino in particolare: Ceglia 2000a; 2000b; 2004; 2007; 2008a; 2008b; 2010.
[4] La scelta di rappresentare un’immagine diademata dietro al retro del castone, un tipo di classe monetale espressione della maiestas del principe (forse in tal caso, il duca o il re) è sembrata fin da subito un aspetto di estrema rilevanza, in parte perché indicherebbe la volontà da parte dell’inumato di riferirsi a una persona ben precisa, dall’altra, perché, trovandosi in posizione nascosta, potrebbe riferirsi al legame speciale tra il possessore e il personaggio effigiato (Arslan 1991; Arslan 2000; Arslan 2004). Per altri approfondimenti sugli altri materiali provenienti dalla stessa tomba, si vedano pure: Genito 1988; Genito 1991; Ceglia 2010.
[5] Per la studiosa, i contributi più importanti in materia sono quelli degli storici Herwig Wolfram e Walter Pohl (La Rocca 2004).
[6] Secondo questa metodologia, l’elemento che definirebbe l’identità di un individuo sarebbe la sua posizione all’interno di una rete di relazioni sociali che coinvolgerebbe barriere orizzontali (classe e rango), verticali (genere) e diagonali (età, legame di parentela, etnia e religione). Si veda: Provesi 2010: 99.
[7] Il rituale prevedeva che, per guadagnarsi il favore di Odino-Wotan, i Longobardi girassero col cavallo attorno al noce consacrato al dio, cercando di colpire con la lancia la pelle di un capro sospesa all’albero.
[8] Si tratta di una raccolta di corrispondenze e documenti redatti per i sovrani goti e pubblicati nel 537, in cui Cassiodoro, per nobilitare le sue origini familiari, fa riferimento alle mandrie allevate dalla sua famiglia nel Bruzio.
[9] Provesi (2010: 102, 108) riprende a sua volta una considerazione di Stefano Gasparri (2005: 14-5).
[10] Le affinità fra le due necropoli sarebbero costituite dal fatto che, in due diversi contesti di carattere germanico, sono presenti elementi di derivazione “nomadico-orientale”, come le sepolture uomo-cavallo e le staffe. Lo studioso ricorda inoltre altre fonti storiche contenenti riferimenti ai Bulgari attribuite a Fredegario, Theophanes e Niceforo patriarca di Costantinopoli (La Salvia 2011: 309-11).
Riferimenti bibliografici
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Bruno Genito, Professore Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte Iranica e dell’Asia Centrale, presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” (UNO) dal 2005, ha diretto la Missione Archeologica Italiana in Iran, dell’Azerbaigian dal 2016, dell’Uzbekistan dal 2008 dell’UNO in collaborazione con il Ministero Italiano degli Affari Esteri, l’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze dell’Azerbaigian, Baku, l’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze dell’Uzbekistan, Samarkanda, l’Ente Iraniano per la Cultura, l’Artigianato e il Turismo e l’ISMEO; è stato vicedirettore della Missione Archeologica Italiana nel Turkmenistan (1989-1994), dell’UNO in collaborazione con il Ministero Italiano degli Affari Esteri, l’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica, e l’Università di Stato di Ashabad, nonché direttore della Missione Archeologica Italiana in Ungheria (1983-1997) (UNO), in collaborazione con il CNR, l’IsIAO, il Ministero Italiano degli Affari Esteri, l’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze d’Ungheria, Budapest. Responsabile di numerosi progetti scientifici, è membro di diverse Società e di comitati scientifici di riviste.
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