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Migrazioni e religioni

Cutro, Migranti in preghiera dopo la tragedia del 25 febbraio

Cutro, Migranti in preghiera dopo la tragedia del 25 febbraio

di Roberto Cipriani 

Premessa 

Émile Durkheim, il sociologo francese della solidarietà sociale, è certamente un punto classico di riferimento per il discorso sull’integrazione (Baglioni, Calò 2023), come ricerca di un equilibrio all’interno di un gruppo, di una comunità, di un’intera società. In effetti si verifica che un gruppo quasi si appropri degli individui per favorirne la coesione senza tuttavia ignorare il ruolo dell’individuo stesso (Durkheim 1893). Dal canto suo il sociologo statunitense Daniel Bell (1973) indica i luoghi specifici in cui l’integrazione avviene e precisamente nella società, nella politica e nelle istituzioni, nonché nella cultura e dunque nella religione.

Nondimeno l’attività di integrazione comporta una partecipazione volontaria ed intenzionale del soggetto, il quale non mostra un atteggiamento tendenzialmente passivo come nel caso della prima socializzazione intra-familiare ma si pone obiettivi di innovazione e cambiamento, in modo da mutare lo status quo pre-esistente al fine di creare nuove condizioni. Per Dominique Schnapper (2002, 2007, 2008), peraltro, si deve distinguere fra l’integrazione degli individui rispetto alla società, come inserimento consentaneo in essa, e l’integrazione della società nel suo insieme, come tale. Invece per Lapeyronnie (1992, 1993) ogni forma di integrazione rappresenta comunque il punto di vista del dominante sul dominato. Egli ribadisce perciò la centralità del soggetto nella sua pienezza di attore sociale che non è più un infante, un balbettante, ma che come immigrato giunge ed apprende. Dunque non può essere visto come un delinquente, ma piuttosto come un cittadino dell’umanità a pieno titolo.

schnapperHannah Arendt (1951) aveva ribadito con partecipe passione il “diritto di avere diritti”. Ma le procedure di socializzazione e integrazione di fatto operano a favore del sistema vigente e non tengono conto delle istanze individuali, messe a tacere dall’impetuoso ritorno del potere statale, dopo le vicende dell’11 settembre 2001, con l’abbattimento delle torri gemelle a New York. Il periodo successivo segna una forte crisi per le nazioni. Resta sullo sfondo appena l’idea di una comunità immaginata, astratta, lontana, irrealizzabile, utopica. La si vorrebbe universale, planetaria, con i medesimi diritti per tutti, senza distinzioni di appartenenza linguistica o culturale o confessionale o ideologica.

A fronte della crisi delle istituzioni, dalla scuola all’amministrazione della giustizia, dalle forze dell’ordine alle strutture religiose, la risposta data dalle organizzazioni non governative e da quelle senza fini di lucro non pare sufficiente. Ed intanto la globalizzazione avanza in settori sempre più numerosi e consolida il capitalismo finanziario, accrescendo le differenze fra Nord e Sud del mondo, fra quartieri popolari e zone residenziali, fra centri urbani e periferie marginali ed emarginate, fra istituzioni ed individui.

Anche la religione è una scelta sempre più molto personale e poco condivisa, cioè al di fuori di un’appartenenza comunitaria. Come sostiene Charles Taylor (1989, 1992, 2007) la fede religiosa non è più una ascrizione (ascription) quanto piuttosto un guadagno-raggiungimento soggettivo (achievement). In tal modo ci si costituisce in soggetti ma senza passare attraverso un’adeguata formazione di base. Di conseguenza la stessa azione di socializzazione prima e di integrazione poi appare come una forma ideologica repressiva, poco orientata al cambiamento, tesa a confermare l’esistente.

Una gran parte della partita si gioca nelle scuole: per esempio nelle diatribe sul crocifisso da affiggere in classe o sulla proibizione del velo o foulard nei luoghi pubblici, favorendo perciò un trend di de-assimilazione. Ecco dunque prevalere in Germania la funzione del lavoro, insieme con il ruolo del lavoratore straniero, Gastarbeiter appunto. Altrove al contrario si favoriscono processi di assimilazione sino a fare definire l’area londinese come se fosse quella di una sorta di Londonistan, in cui si intrecciano figure di meticci, di creoli, di ibridi. 

Values, Cities and MigrationsForme del multiculturalismo

Stati Uniti e Canada sono probabilmente i Paesi in cui maggiormente sono state studiate e messe in atto le politiche sociali sul multiculturalismo (Napoli, Mondini, Oppio, Rosato, Barbaro (2023). Non a caso nel continente nordamericano non è diffuso il concetto di meticcio, dando per scontato il fatto che le società sono spesso composite, stratificate per etnie. Nel contempo si registrano due opposte tendenze: quella specificamente razzista dell’intolleranza e quella paternalista del laisser faire. Il che non impedisce la diffusività della cosiddetta ossessione cromatica che associa il nero a tutto ciò che è negativo e pericoloso. Anzi a tale proposito è persino dato stabilire un tasso di minaccia per lo status quo correlato con la stessa graduazione di tipo cromatico: dal meno nero al più nero, ovvero dal meno temibile al più temibile.

Lì dove poi il termine di meticcio è presente, per esempio in Messico, esso incontra un atteggiamento particolarmente sfavorevole: il meticcio, infatti, diventa il capro espiatorio in diverse occasioni ed è identificato con una persona indolente, indisciplinata, imprevedibile, anche ritardata mentalmente (si presume). Qualcosa di simile avviene nell’ambito della teoria della “degenerescenza” di Gobineau (1853, 1855) (sposato con una creola) il quale vedeva una degenerazione nel passaggio dall’una all’altra etnia (o razza, a suo dire). Quasi coeva è l’ipotesi comtiana (Comte 1830-1842) relativa ad un imbianchimento della razza.

Di ben altro avviso è Gilberto Freyre (1936) che parla invece di “misgenazione”, che risulta in contrapposizione alla “degenerescenza” di Gobineau perché evidenzia la novità dell’incontro fra indios, africani e portoghesi, che mescolati fra loro rappresentano una vera e propria avventura “splendida” di dissoluzione, in cui esattamente il meticciato – termine rifiutato nella parte settentrionale del continente americano – viene invece rigenerato ed enfatizzato divenendo il pride, ovvero orgulho, orgoglio dell’esperienza brasiliana. Dal tropicalismo al negativo delle considerazioni di Claude Lèvi-Strauss (1955) si passa così al lusotropicalismo, che valorizza la prospettiva lusitana delle culture portoghese e brasiliana e va oltre il mero “differenzialismo etnico”, pensando piuttosto a dar lustro all’integrazione delle minoranze, come già avvenuto in passato in Brasile, con i flussi migratori italiani nello Stato di San Paolo e tedeschi nello Stato di Santa Catalina. Sulla stessa scia si è posto anche l’antropologo francese Roger Bastide (1971, 1980), profondo conoscitore della realtà sociale paulista.

Un altro sostenitore della peculiarità multiculturale dell’America Latina è il cubano Ortiz (1947) che parla esplicitamente di transculturalità come frutto della transculturazione (in opposizione all’idea dell’acculturazione di matrice statunitense), ben edotto dalla lezione di Bronislaw Malinowski (1945) secondo cui si registra sempre qualcosa in cambio di quel che si riceve. In effetti la transculturazione è un insieme di trasmutazioni costanti ed è creativa senza sosta ed irreversibile. Le due parti in causa si modificano. Emerge allora una nuova realtà che non è più un mosaico di caratteri quanto piuttosto un fenomeno del tutto nuovo, originale e indipendente. Con tale motivazione è legittimata la visione transculturale e si apre la strada alla mixità, ovvero all’ibridazione, poi ripresa da Néstor García Canclini (1989).

freyreLe proposte interpretative di Freyre, Ortiz e di García Canclini sono dunque assai diverse dalle idee di bricolage ed assemblaggio suggerite da Lévi-Strauss (1962). Diversamente dall’andamento che prevede una transizione dal puro all’impuro e dall’omogeneo al disomogeneo il meticciato rappresenta una terza via che prelude ad un futuro dell’umanità ben più articolato del presente. Già nell’India colonizzata dagli inglesi il meticcio ha avuto, attraverso le generazioni, una legittimazione quasi totale. Ma è stato soprattutto nel Brasile degli anni Trenta sotto Getulio Vargas (presidente dal 1930 al 1945 e poi dal 1951 al 1954) che l’idea di “purezza meticcia” ha raggiunto la sua piena cittadinanza, ribaltando gli andamenti abituali di progressiva purificazione della razza (o dell’etnia). Dunque si è parlato debitamente di un “estado novo”, di uno stato nuovo inteso sia come condizione sia come istituzione politica. Ed allora in chiave metaforica anche un ballo come il samba ha assunto un carattere egemonico, di connotazione patriottica e in chiave difensiva del meticcio come riferimento ideale per tutti. Il che è avvenuto in Brasile come nei Caraibi, nelle Isole Mauritius come nell’Île de la Réunion. Il risultato finale è quello di un’embricazione-sovrapposizione che dà origine ad una sorta di unico grande fiume derivante da tanti affluenti. 

Multidimensionalità e accommodation 

Nel filone statunitense di studi sull’emigrazione ha avuto un’influenza notevole il punto di vista espresso da Milton Gordon (1964), esponente della cosiddetta Scuola di Chicago e promotore di una sorta di ideologia popolare, ad uso degli Stati Uniti d’America. Gordon si sofferma soprattutto sulle tensioni in atto tra le nuove generazioni e tra i nuovi immigrati e vede nella guerra in Vietnam l’origine di una riemersione di forme tipiche, tradizionali, di razzismo.

gordonPer Gordon esistono sette forme di assimilazione (Borja 2022): culturale, strutturale, maritale (coniugale-matrimoniale), identitaria, pregiudiziale, discriminatoria, civica. Ciascuna di esse presenta vantaggi e svantaggi ma ognuna favorirebbe l’integrazione nella società statunitense. Di fatto, però, esistono ed operano intensamente diverse altre forme di assimilazione: socio-economica, educazionale, reddituale, occupazionale, legata al capitale umano (o culturale o sociale o relazionale o di altro tipo ancora), spaziale. Quest’ultima in particolare è richiamata da Massey (Massey, Mullan 1984; Massey, Denton 1985) appunto come spatial assimilation, in quanto prevede la possibilità di acquisto di residenze sempre più lussuose e vantaggiose per la presenza di urbanizzazione avanzata, di scuole prestigiose, di strade agibili e curate al massimo e così via. L’assimilazione, peraltro, può favorire la partecipazione in gruppi etnici estemporanei, non duraturi, giacché i singoli soggetti e/o i gruppi già coesi per conto proprio tendono a conservare le loro radici di origine, nonostante le nuove conclamate appartenenze. Pertanto le diversità persistono nel tempo e non si annullano del tutto. Non è un caso che chi ha studiato approfonditamente le dinamiche reali in atto ha accertato che solo dopo sei generazioni si può essere sicuri di un superamento delle matrici originarie e di un buon tasso di assimilazione compiuta (Warner, Srole 1945).

In pratica l’assimilazione (Green 2023), anche se realizzata, assume un carattere comunque flessibile e soggetto a modifiche in progress. Come ricorda Brubaker (2001), sebbene l’assimilazione comporti che un gruppo divenga simile ad un altro, nondimeno l’etnicità perdura, le basi culturali non scompaiono. Semmai sono i confini fra l’una e l’altra cultura che si assottigliano, tendono a rendersi meno evidenti, grazie ad un lento e graduale cambiamento. Ma l’assimilazione non ha luogo immediatamente e senza conseguenze. In effetti la tendenza è verso una certa segmentazione per cui è a partire dalla seconda e principalmente dalla terza generazione che si notano le prime significative differenze (Portes, Zhou 1993). Sono tre sostanzialmente i modelli che si presentano: quello dell’assimilazione tout court, quello dell’esclusione razziale (anche auto-proclamata e sostenuta ad ogni costo come nel caso delle comunità cinesi), quello del pluralismo culturale promosso dalle minoranze etniche. Negli ultimi due modelli vige comunque il sistema di enclaves etnico-economiche costituite a propria difesa.

Fra le risposte dialettiche rispetto a Gordon, è da annoverare quella fornita da Nathan Glazer (1993) che obietta non essere l’assimilazione l’unica modalità praticabile, giacché sono possibili altre soluzioni: o il pluralismo culturale o l’esclusione delle culture “altre”. Intanto la cultura WASP (White Anglo-Saxon Protestant) continua a prevalere negli Stati Uniti. Con essa vanno fatti i conti. Le minoranze lo sanno bene. Solo le denominazioni religiose riescono più agevolmente a sfuggire alla “cappa” WASP. Altrimenti vi è la soluzione detta accommodation, una delle quattro maniere intraviste da Park e Burgess (1921) per l’interazione sociale, in quanto si riferisce ad una procedura atta ad evitare conflitti e a favorire rapporti in quelle situazioni in cui si riconosce la presenza dominante altrui e dunque si è costretti ad una sorta di “vivi e lascia vivere”, nella misura in cui anche chi domina consenta tale soluzione.

steinerPiù agevole risulta, ovviamente, l’agire in un contesto in cui vi sia un tendenziale equilibrio tra le forze sociali in campo. In questo caso, è importante mantenere un buon grado di indipendenza, cercare accordi per alternanze di gestione o cooperazione su obiettivi di comune interesse. Le forme di accommodation possono andare dalle questioni etniche a quelle religiose, da quelle politiche a quelle territoriali, da quelle normative a quelle economiche. In ogni caso appare opportuno cercare intese, attraverso una divisione di competenze ed ambiti di intervento. Di comune interesse è poi l’evitare disordini e svantaggi. Infine non è detto che l’accommodation (Steiner 2023) porti ad una assimilazione totale o quasi; può anche essere una prima fase esplorativa in attesa di un momento più conflittuale. Insomma l’accommodation appare più che altro come una strategia momentanea per sopperire ad un disagio. E certamente si basa su un sapiente uso del tempo, senza risentirne molto in chiave di auto-stima e di fiducia nelle proprie chances.

Se si guarda al futuro delle problematiche concernenti le migrazioni e l’impatto fra le culture torna utile riprendere quanto suggerito da Howard Gardner (2006), lo studioso noto per la formulazione della teoria sulle intelligenze multiple. Ebbene, in chiave prospettica, si può ritenere che vi siano almeno cinque potenziali utilizzi delle nostre menti: il primo riguarda un modo disciplinato, a carattere scientifico, tendenzialmente non valutativo; il secondo concerne la capacità di sintesi ma anche di accuratezza, efficacia e significatività delle analisi; il terzo ha a che fare con la creatività e quindi con una opzione metadisciplinare, oltre gli steccati delle appartenenze accademiche e con grande disponibilità nel cercare di innovare l’esistente; il quarto investe l’aspetto comportamentale in senso stretto, cioè un atteggiamento fortemente rispettoso degli altri, al disopra pure della tolleranza per mostrare qualcosa di più e meglio della semplice “sopportazione”, mirando perciò all’accoglienza e all’empatia quanto più ampia possibile; infine, non manca un afflato etico, fatto di onestà e volontà cooperativa e costruttiva, prioritariamente comunitaristica e disinteressata.

Non si tratta di un’utopia astratta e lontana. Qualche segnale in questa direzione ci viene anche dalla cronaca più recente. Questa volta non si tratta di raccontare l’ennesimo dramma quanto piuttosto un evento che parrebbe straordinario eppure potrebbe entrare a fare parte della quotidianità. A Berlino, alla fine di febbraio del 2015, per la rappresentazione dell’opera lirica “Così fan tutte” di Mozart, sono entrati a far parte del coro 73 rifugiati siriani, che sono apparsi sulla scena (proprio nel momento in cui i due protagonisti lasciavano le rispettive fidanzate) per eseguire un canto, che inneggiava al paradiso (janna) ed era opera del cantante Ibrahim Qashush, ucciso il 4 luglio del 2011 ad Hama, per le sue proteste antigovernative. Al termine i coristi hanno mostrato le scritte sulle loro magliette che indicavano il luogo della loro provenienza: Damasco, Aleppo, Daraa, Homs, Lattakia.

Tale è, ad esempio, il quadro sociologico dell’esilio-immigrazione in Italia da parte degli italo-argentini indotti a lasciare l’Argentina a seguito del golpe militare del 1976. Chi ha vissuto sulla propria pelle tale stato di cose è un testimone “privilegiato” di prim’ordine, perché in grado di narrare eventi e percezioni, emozioni e disagi, forme di solidarietà ma anche rigetti più o meno larvati e/o più o meno garbati. I vissuti degli esiliati sono quasi sempre traumatici, né possono presentarsi diversamente, per la rottura che rappresentano con il passato e per la difficoltà di trovare un’adeguata collocazione, almeno sopportabile e sopportata – se non supportata – nel Paese eletto come destinazione, naturalmente immaginabile come il più promettente, per ragioni sociali e linguistiche, culturali e politiche, economiche e religiose.

simmelIn realtà, l’esiliato italo-argentino giunto in Italia, per esempio a partire dal 1976, risulta essere un vero e proprio “straniero in patria”. A dire il vero l’italo-argentino giunto in esilio in Italia ha nel contempo i caratteri dello straniero e del reduce, due categorie sociologiche ben analizzate da Schütz (1979: 375-403). In effetti lo straniero è «un individuo adulto del nostro tempo e della nostra civiltà che cerca di essere accettato permanentemente o per lo meno tollerato dal gruppo in cui entra» (Schütz 1979: 375). Ma d’altro canto «lo straniero comincia ad interpretare il suo nuovo ambiente sociale nei termini del suo solito modo di pensare» (Schütz 1979: 381). Il carattere di reduce è poi ben specificato dal fatto che «geograficamente ‘patria’ significa un certo spazio sulla superficie della terra. Il luogo in cui mi capita di essere temporaneamente è la mia ‘dimora’, il luogo in cui intendo abitare è la mia ‘residenza’, il luogo da cui provengo e al quale voglio ritornare è la mia ‘patria’» (Schütz 1979: 391-392).

La riflessione di Simmel, cronologicamente precedente a quella di Schütz, sottolinea piuttosto il carattere innovatore della presenza e dell’azione dello straniero, che agisce collocandosi fra i due termini opposti della distanza e della prossimità, tanto più, si potrebbe dire, nel caso di un oriundo qual è ad esempio un italo-argentino: in fondo lo straniero è un elemento del gruppo e lo è a titolo pieno, perché egli aiuta il gruppo stesso a definire e rafforzare la sua identità. Simmel lo chiama “nemico interno”, così come lo è un povero od un altro soggetto connotato da una qualche diversità. La coppia interno-esterno ma anche l’opposizione, proposta da Sumner (1959), fra in group ed out group ben si addicono alla condizione dell’italo-argentino giunto in Italia in esilio. Nondimeno lo straniero-reduce-esiliato rimane colui che fa breccia nella cultura di arrivo, rendendola disomogenea, differenziandola, frammentandola.

Nel caso specifico poi, l’italiano emigrato dapprima in Argentina per necessità economiche e rientrato successivamente in Italia a motivo delle persecuzioni militari del 1976 si trova nella singolare situazione di essere immigrato nel suo stesso Paese di origine. Ma al tempo stesso questo soggetto sociale peculiare si trova a giocare più ruoli e ad usufruire di diverse identità: è argentino ma pure italiano, ama ritornare in Argentina ma preferisce vivere in Italia. Il tutto, però, è vissuto non senza problemi ed incertezze di autodefinizione individuale e sociale.

Il fattore solidarietà, invero, rappresenta per molti un punto di convergenza interculturale. Si evita così il rischio di diventare capri espiatori di conflitti interpersonali e si si cercano convergenze politico-sociali su obiettivi comuni a carattere valoriale: giustizia, democrazia, partecipazione, uguaglianza, fraternità. Si intensificano, dunque, gli scambi, le soluzioni contrattuali, le interconnessioni di ruoli e status; si consolidano le convenienze reciproche e si contrattano le modalità più confacenti ad un’acculturazione priva di ostilità e contrapposizione. Nascono, così, forme durkheimiane di solidarietà organica, cui partecipano individui dotati di specializzazione professionale e culturale. 

hunghitonScontro di civiltà? 

Ancora una volta riemerge il riferimento all’opera di Huntington (1996a; 1996b) dal titolo Clash of Civilizations, già apparsa in forma di articolo sin dall’estate del 1993 nella rivista Foreign Affairs (Huntington 1993). A questo proposito si può sostenere, fondatamente, che si è trattato di una specie di profezia che si è auto-avverata in quanto il dibattito sulla contrapposizione fra culture diverse (Occidente ed Oriente, Nord e Sud, cristianesimo ed islam) non ha fatto altro che accrescere il divario fra le opzioni in contrasto ed ha invocato e favorito piuttosto il ricorso alla difesa e all’assalto più che alla discussione e al confronto, o alla convergenza su interessi comuni e alla ricerca di soluzioni condivisibili.

Allentata la tensione fra i due blocchi principali, quello marxista sovietico e quello antimarxista ed antisovietico, a seguito della storica caduta del muro di Berlino, gli scenari di guerra si sono spostati altrove, in Iraq come nei Balcani, in Afghanistan come in Siria. Nel contempo sono anche cambiate le forme della guerra (Kernic 2023), che ormai si combatte a forza di spot televisivi, di diretta ed immediata efficacia, che fanno leva sulle emozioni forti. E così dinamiche sociali e politiche che in passato sembravano lontane, nel tempo e nello spazio, si sono ravvicinate sempre più a noi ed ai nostri vissuti, sollecitando un’attenzione sempre maggiore, in quanto non possiamo ritenerci fuori da quanto sta avvenendo, specialmente nel contesto europeo caratterizzato da crescenti flussi migratori in arrivo.

Qualche decina di anni fa, per esempio, in Italia si scrivevano ancora molti saggi sull’emigrazione verso l’estero. Oggi ormai non si contano più libri e ricerche sull’immigrazione in Italia: una bibliografia parziale e provvisoria in proposito già annovera oltre mille titoli.

In effetti, il fenomeno sociale più macroscopico che abbia interessato l’Italia nell’ultimo scorcio del secolo scorso ed all’inizio del nuovo millennio – a partire dalla fine degli anni settanta – è senz’altro il massiccio arrivo di molti stranieri. È un fatto del tutto nuovo che ha trasformato il Paese da area di emigrazione verso l’Europa e le Americhe a territorio di immigrazione dal Nord‑Africa ma anche – in misura inferiore – persino dagli Stati Uniti e dalla Germania, per non dire – più di recente – dalle regioni balcaniche. Già al 31 dicembre 1992, secondo i dati del Ministero degli Interni, risultavano registrati come “regolari” 925.172 stranieri con un aumento del 7% rispetto al 1991, che a sua volta aveva già registrato un aumento del 10,5% rispetto al 1990. Al 31 dicembre 1998 gli stranieri soggiornanti registrati sarebbero stati – secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno – 1.033.235. Al 31 dicembre 2009 la popolazione straniera residente in Italia sarebbe ammontata ufficialmente a 4.235.059 unità, dunque con un aumento superiore al 400% nel giro di due decenni.  Gli stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2022 sono 5.030.716 e rappresentano l’8,5% della popolazione residente. 

cipValori e credenze 

A parte alcune esperienze minori, territorialmente e cronologicamente circoscritte, è la prima volta che l’Italia affronta in misura così vasta e in tempo di pace il problema socio‑antropologico dell’acculturazione, cioè dell’interazione fra culture e gruppi differenti, che però non si trovano in una condizione paritaria fra loro. In effetti la cultura del Paese in cui si giunge come immigrati è sempre di fatto maggioritaria in termini numerici ed egemone a livello socio‑politico ed economico.

La tendenza appare volta non solo al contatto fra le diverse culture ma pure allo scontro‑confronto ed al tentativo di affermare una certa superiorità di una cultura sulle altre. Un elemento emblematico è dato dall’appellativo che connota chi si trova in posizione di supposta inferiorità. Gli antichi greci e i romani chiamavano barbari gli stranieri, perché non si esprimevano correttamente e balbettavano in greco o in latino. L’arrivo a Napoli, nel 1943, delle truppe anglofone alleate portò alla diffusione, fra l’altro, dell’epiteto di “sciuscià” attribuito ai lustrascarpe, appunto shoe‑shine (boys), che si guadagnavano da vivere esercitando questo mestiere precario. Allo stesso titolo in Italia si sono chiamati per molti anni vu’ cumprà (letteralmente: vuoi comprare?) gli immigrati, specialmente nordafricani, dediti per strada alla vendita di tappeti ed accendini, fazzoletti di carta e fiori.

È evidente che lo stigma linguistico è un indicatore di tensione fra i gruppi coinvolti nella relazione sociale, che vede in questo caso una netta prevalenza della maggioranza residente sulle minoranze immigrate. Di ciò è prova anche il fatto che mentre gli italiani quasi nulla hanno preso dal vocabolario degli stranieri questi ultimi invece hanno accolto nel loro linguaggio comune diversi lemmi della lingua italiana.

L’interscambio tendenzialmente più paritetico si registra grazie alla celebrazione di matrimoni misti, che comportano una significativa convergenza di usi e costumi, cerimonie e credenze religiose (Cipriani, Faggiano, Piccini 2020). Si hanno allora conversioni dall’una all’altra fede oppure ogni coniuge mantiene il proprio credo, le proprie abitudini alimentari, i propri orientamenti e comportamenti.

Dunque l’esercizio di una reciproca influenza fra due culture è possibile. Ma lo è ancor di più fra culture di immigrati giunti in un medesimo paese, pur con diversa provenienza. Un motivo unificante può essere la stessa fede religiosa. In tal caso è indubbiamente l’islam che in Italia trova maggiori possibilità di comunicazione interetnica ed interculturale, per esempio, fra marocchini ed albanesi, fra turchi e pakistani. Ma gli esiti concreti non sembrano sviluppare al massimo tali potenzialità.

Va anche detto che le culture degli immigrati subiscono trasformazioni notevoli al loro interno ed in rapporto al paese di origine. Invece la cultura italiana si modifica assai meno, per quanto portata a tener conto delle nuove presenze. Forse, il tratto più caratteristico consiste proprio in questo scarto di un tale dislivello culturale che non facilita la sintonia fra culture, specie se profondamente diverse. Tuttavia una certa incidenza dei fenomeni immigratori è in qualche modo rilevabile, in particolare attraverso la necessità di entrare nel villaggio globale delle culture per trovarvi un’adeguata collocazione, definire la propria identità personale e nazionale, interagire con gli altri in modo corretto ed efficace, senza gaffes dovute a carenza di informazione sugli elementi peculiari della cultura altrui. Di certo vi è un incremento dei ritmi di adattamento e di integrazione, anche perché i problemi legati alla diversità non sono teorici ma concreti, non generici e futuribili ma specifici e quotidiani. E tali questioni sono molteplici per natura e complesse per articolazione interna, dunque non facilmente omologabili fra loro, né a livello economico né a livello giuridico, né in campo politico né in quello religioso. 

Il fenomeno dell’interreligiosità come risultato della migrazione 

Non è facile avere dati complessivi affidabili sul numero di seguaci di Chiese e religioni in Europa. Un quadro parziale (che copre più di 25 paesi, esclusa la Russia) è il seguente: 

Religioni Numero di fedeli
Cattolicesimo 260.457.890
Protestantesimo 73.330.350
Ortodossi Greci 35.861.140
Anglicanesimo 32.696.030
Altre religioni cristiane 9.966.980
Tutte le religioni cristiane 412.312.390
   
Islam 8.760.660
   
Altre religioni 1.526.490
   
Ebraismo 1.447.140
   
Non religiosi 53.058.980
Atei 18.452.730
   
Totale 495.558.390 

I cambiamenti più importanti nello scenario europeo sono avvenuti a seguito del flusso migratorio   che ha modificato i dati demografici delle singole nazioni in modo molto significativo, in base al numero di immigrati che costituiscono i quattro principali flussi di trasmigrazione provenienti principalmente dai paesi nordafricani verso Portogallo, Spagna, Francia e Italia, dalla Turchia verso la Germania, dal Medio Oriente verso l’Europa in generale, da India, Pakistan e Bangladesh principalmente verso il Regno Unito.

L’entità numerica dei flussi è ovviamente condizionata dalle politiche sociali attuate dai vari paesi. I problemi nascono all’inizio della consueta catena migratoria, quando le famiglie arrivano per unirsi all’immigrato che si è già stabilito nel paese di destinazione. A questo punto si gettano le basi per la nascita di una comunità che è linguistica, culturale e anche religiosa. Di conseguenza, si pone anche il problema della disponibilità di un luogo di culto. Ma questo non è sempre immediatamente realizzabile. E così possono nascere tensioni, magari anche per qualche azione di contrasto da parte delle vecchie religioni e Chiese. In definitiva, si tratta di una questione interculturale ed interreligiosa (Mosher 2022) sulla quale la stessa Unione Europea potrebbe essere chiamata a intervenire, a partire dalla legislazione. 

davie-2000Il pluralismo religioso in Europa 

Lo scenario delle società europee sta cambiando rapidamente, soprattutto nel campo delle religioni e delle Chiese. Nuovi flussi di credenti e di organizzazioni religiose stanno raggiungendo diversi luoghi in Europa, a volte molto lontani dai loro Paesi di origine. Il fenomeno dell’acculturazione religiosa e interreligiosa è una sorta di sfida tra i movimenti religiosi e la cultura locale. Oggi le relazioni tra molti popoli e religioni diverse stanno diventando più frequenti e durature (Cipriani 2017) rispetto al passato, quando le poche occasioni di contatto diretto (vis à vis) erano dovute solo a conflitti ed invasioni territoriali, per cui difficilmente vi era una mediazione significativa attraverso viaggiatori in cammino e merci esportate. La conoscenza reciproca era assicurata dai racconti che mercanti, ambasciatori, soldati ed esploratori facevano delle loro esperienze. Oggi esistono altri mezzi di comunicazione: dal telefono ad Internet, dagli aerei ai trasporti terrestri e marittimi (sempre più veloci e meno costosi), dalla posta elettronica alla comunicazione satellitare.

Tuttavia, l’assenza di un rapporto diretto rende la situazione più complicata: le barriere linguistiche persistono, così come le differenze economiche e politiche. Anche la diversità di cultura e religione contribuisce a mantenere la distanza reciproca. Sebbene ci sia stato un certo riavvicinamento, la diffidenza non è diminuita molto e a volte sembra aumentare per la difficoltà di verificare l’affidabilità degli interlocutori. Non è un caso che oggi le vittime di questa situazione paghino soprattutto in termini economici (frodi finanziarie, società fantasma, speculazioni sulle transazioni economiche, furti informatici, virus nella posta elettronica, frodi nell’uso delle carte di credito, eccetera).

Una reale conoscenza di coloro che appartengono a credenze politiche, ideologiche e religiose lontane e talora opposte è difficile da ottenere. In particolare, la geografia politica dell’Italia come dell’Europa è cambiata molto negli ultimi decenni e si prevede che cambierà ancora di più (soprattutto dopo l’adesione di nuovi Paesi all’Unione Europea). Il concetto stesso di Europa è ora in discussione. Sul tema del pluralismo religioso e del rispetto, l’Europa è caratterizzata da situazioni molto diverse (Davie, Hervieu-Léger 1996; Davie 2000; Davie 2002, Bolgiani, Margiotta Broglio, Mazzola 2006). In alcuni casi la libertà è molto limitata, in altri è ridotta, in taluni paesi aumenta, in altri diminuisce. Secondo Asma Jahangir (che lavora per conto dell’ONU sulla libertà di religione e di credo), ci sono limitazioni anche in Europa: per esempio in Olanda per l’aumento delle tensioni religiose ed in particolare in Francia per la legge del 2004 (che non permette alle donne musulmane di indossare il chador, il velo islamico, ed ai cristiani di portare croci oltre una certa misura).

Le diverse religioni e Chiese che operano in Europa mostrano diversi atteggiamenti verso il pluralismo religioso. Questo è stato reso chiaro da una grande indagine denominata RAMP (Religious and Moral Pluralism) realizzata in vari Paesi europei: Belgio, Danimarca, Finlandia, Gran Bretagna, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo e Svezia (Dobbelaere, Riis 2002). Le conclusioni della ricerca non sono state univoche: 

«nel modello che spiega il pluralismo come arricchimento culturale… l’effetto dell’impegno della Chiesa è positivo, il che significa che le persone con un alto grado di impegno nella loro Chiesa tendono anche ad apprezzare l’arricchimento culturale del pluralismo religioso. Nel secondo modello sul pluralismo come ‘un patchwork privato’, l’effetto è negativo, nel senso che le persone più impegnate tendono a dire che le persone dovrebbero aderire all’insegnamento della propria religione ed astenersi dallo scegliere tra altre religioni. Questa differenza fondamentale giustifica perché è importante non combinare questi indicatori in un unico indice sul pluralismo religioso» (Billiet et al. 2003: 156). In definitiva, «le Chiese sono sfidate a cambiare le loro posizioni. In precedenza, le Chiese come istituzioni autorevoli potevano proclamare una verità che era data per scontata dai membri della Chiesa. Nella tarda modernità, le Chiese diventano contesti opzionali uniti da legami affettivi, sostenuti da un linguaggio sacro comune e da tracce condivise di memoria» (ivi : 157). 

In pratica, la permanenza delle Chiese non è assolutamente garantita, poiché le scelte personali sono sempre più in vigore. Secondo Bontempi (2005: 162), 

«da molto tempo una realtà in Europa e ancora più recentemente, l’individualizzazione dell’esperienza religiosa ha portato a una trasformazione della struttura intima del credo. Si tratta dello sviluppo di un pluralismo di fedi che è un dato di fatto nella società occidentale, interiorizzato e vissuto, anche se non sempre positivamente, come parte dell’identità religiosa del singolo credente. Questa trasformazione, che segna una discontinuità nel rapporto tra religione e modernità, è il risultato del modo in cui la struttura stessa della fede è cambiata nella tarda modernità per incorporare la pluralità delle credenze. In un senso tutt’altro che banale, il pluralismo religioso significa che una religione passa attraverso un processo che ha già toccato la società moderna nella sfera pubblica grazie alla democrazia. Cioè, l’individuo non solo ha la possibilità di scegliere, ma è obbligato a scegliere. L’identità religiosa deve allora cercare di tener conto dell’esistenza di altre identità religiose, aspetti che modificano la sua struttura di credenze. In questo senso, anche le identità religiose più conservatrici, quelle più decise a rifiutare questo stato di cose, si trovano scelte e costantemente messe alla prova. In primo luogo, sono i giovani ad essere colpiti da queste dinamiche secolarizzanti, registrando un calo del senso di appartenenza religiosa, della stessa pratica rituale, della dipendenza spirituale. Ma l’abbandono della religione organizzata appare come un fattore che favorisce non il declino della religione ma il suo adattamento e ricomposizione da parte degli individui» (Bontempi 2005: 164). 

bolgianiI cambiamenti in corso non favoriscono il mantenimento delle soluzioni precedenti, soprattutto nelle relazioni tra Stato e Chiesa, che sono soggette ad «una forte pressione per il cambiamento. Questa pressione ha origine dal basso: con la diffusione di nuove identità religiose, gruppi e organizzazioni che vanno dai buddisti alle nuove Chiese protestanti ed alle varie comunità islamiche. Ci sono anche pressioni che vengono dall’alto, dagli effetti dell’integrazione europea che richiedono una rinegoziazione delle relazioni Chiesa-Stato di lunga data» (Bontempi 2005: 166). Gli Stati scelgono di volta in volta con quali religioni stabilire rapporti privilegiati, per avviare forme di cooperazione, per porre le basi di un sostegno socio-politico di legittimazione dal basso. Del resto, «le Chiese sono attori importanti in molti campi in cui agiscono anche la Commissione europea ed il Parlamento europeo» (Bontempi 2005: 168). Anche se il tentativo di inserire il riferimento alle radici cristiane nella Costituzione europea non ha avuto successo, rimane in essa un insieme di forme e contenuti che si riferiscono direttamente alla vita dei cittadini europei e quindi alla loro cultura ed espressione religiosa. Ma in verità «l’elaborazione di un diritto europeo alla religione non può risultare da una qualsiasi combinazione di leggi nazionali in materia, perché le differenze tra gli Stati sono troppo grandi. Tuttavia, è possibile individuare un fundamentum comune nei principi laici del costituzionalismo moderno che garantiscono la protezione del diritto alla libertà religiosa» (ibidem).

Dal 1971 la Chiesa cattolica ha creato un Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee e nel 1980 ha istituito una Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione europea. Le altre Chiese avevano promosso ancor prima una Conferenza delle Chiese Europee, con più di cento confessioni. Evitando ogni forma di concorrenza, tutte le Chiese insieme hanno redatto la Charta Oecumenica Europea il 22 aprile 2001. Infatti, «nel diritto comunitario, la libertà religiosa è esplicitamente protetta perché è una libertà relativa all’individuo» (Bontempi 2005: 171).

Le Chiese contribuiscono alla vita civile e quindi intervengono in misura non trascurabile nella costruzione dell’identità europea. Ma intanto «il carattere locale dell’ortodossia la lega profondamente alle realtà nazionali e, in alcuni casi, alle stesse istituzioni statali» (Bontempi 2005: 173). D’altra parte, però, il carattere interculturale ed interreligioso di molte società e nazioni europee favorisce lo sviluppo di intese, collaborazioni, convergenze, promuovendo processi di integrazione (Cotter, Hashemi 2023). C’è poi il complesso problema della presenza islamica e della sua collocazione nella società europea, anche in considerazione delle sue diverse anime, da quella sunnita a quella sciita e waabita, dal sufismo in Medio Oriente all’hanefismo in Turchia. «Si può quindi affermare che l’Islam rappresenta una condizione di crescente riflessività per le istituzioni laiche europee» (Bontempi 2005: 183). 

baumannConclusione 

Alcune nazioni europee sono in procinto di modificare la loro legislazione per adattarla alla nuova realtà europea: è quello che ha fatto anche il Portogallo, come sottolinea Helena Vilaça (2006: 57): «i cambiamenti nel sistema politico come la fine delle dittature nei Paesi iberici, l’alto flusso di immigrazione di popolazioni di religione islamica verso l’Europa centrale o la recente integrazione dei Paesi dell’Est nell’Unione Europea sono fattori che, prima o poi, portano ad una revisione dello status della religione nelle Costituzioni nazionali o alla riformulazione della legislazione religiosa, un fenomeno che in Portogallo si è tradotto nella nuova legge sulla libertà religiosa».

Un’azione tempestiva è stata intrapresa dalla Bulgaria, che già nell’anno scolastico 1997-1998 aveva introdotto l’insegnamento facoltativo della religione, sia cristiana che islamica, nelle scuole, poiché i rapporti tra cristiani e musulmani non offrono il destro a situazioni particolarmente conflittuali, il fondamentalismo non sembra avere molto peso, i giovani sono aperti verso culture e religioni diverse dalla loro; semmai resta qualche pregiudizio verso i nomadi (Bogomilova 2005: 236), che di solito scelgono di seguire la religione dominante dove si trovano: non è un caso che tra loro ci siano ortodossi e musulmani, cattolici ed ebrei, ma anche protestanti.

Una conferma del ridotto fondamentalismo dei giovani viene da altri studi su Malta (Abela 1995). In Francia (Talin 1995), invece, esso esercita una certa attrazione, soprattutto nel Rinnovamento carismatico, nell’Opus Dei, in alcune forme di integrazionismo, in taluni gruppi protestanti e tra gli ebrei, oltre che tra i musulmani. In Germania (Wahl 1995) gli allineamenti fondamentalisti tra i giovani sono abbastanza vari e sono dovuti a problemi di ricerca di un’appartenenza sociale gratificante. Infine, c’è il caso della Turchia (Çelebi 1995) dove i giovani definiti “Giovani Turchi” non sembrano essere inclini al fondamentalismo perché non sono agenti dell’islam politico.

Le prospettive per il futuro depongono a favore di soluzioni meno confliggenti per cui è prevedibile che si ridurranno le divergenze ed i pregiudizi, a partire da una maggiore predisposizione all’accoglienza dei migranti (Baumann, Nagel 2023), senza tenere molto conto delle loro differenze di confessione, culto, modelli comportamentali, abiti ed abitudini. 

Dialoghi Mediterranei, n.61, maggio 2023
 
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Roberto Cipriani, professore emerito di Sociologia all’Università Roma Tre, è stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia. Ha condotto numerose indagini teoriche ed empiriche. La sua principale e più nota teoria sociologica è quella della “religione diffusa”, basata sui processi di educazione, socializzazione e comunicazione. Ha condotto ricerche empiriche comparative in Italia a Orune (Sardegna), in Grecia a Episkepsi (Corfù), in Messico a Nahuatzen (Michoacán) ed a Haifa (Israele) sui rapporti tra solidarietà e comunità. Ha realizzato film di ricerca sulle feste popolari. Fa parte del comitato editoriale delle riviste Current Sociology, Religions, Sociedad y Religión, Sociétés, La Critica Sociologica, Religioni e Società. È Advisory Editor della Blackwell Encyclopedia of Sociology. È stato Directeur d’Études – Maison des Sciences de l’Homme – Parigi e “Chancellor Dunning Trust Lecturer” alla Queen’s University di Kingston, Canada. È autore di oltre novanta volumi e mille pubblicazioni con traduzioni in inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese, portoghese, basco, catalano e turco.

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