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Migrazioni interiori tra Oriente e Occidente

copertina-silviadi Silvia Pierantoni Giua

Come per una torta a più strati, di cui si può apprezzare la globale dolcezza o dalla quale si può trarre il piacere di scoprire i diversi ingredienti che la compongono, così Il libro di Khalid ha vari livelli di lettura: se ne può gradire la trama avvincente o la scorrevolezza dello stile narrativo, a cui la traduzione di Francesco Medici rende giustizia; oppure ci si può addentrare nella profondità delle riflessioni filosofico-esistenziali a cui si è sollecitati; o, ancora, scoprire un mondo sotterraneo attraverso le ricchissime note a piè di pagina che evocano ulteriori universi intrecciati, come l’origine dell’espressione “pantaloni alla zuava” o la citazione della poesia ispiratrice di tale o talaltro pensiero.

Si tratta del primo romanzo pubblicato in lingua inglese negli Stati Uniti (New York, 1911) da parte di un arabofono, Ameen Rihani, uno dei numerosi intellettuali della diaspora siro-libanese di fine ’800. È un libro dai preziosi intarsi storico-culturali dove ogni scelta è curata da Medici nei minimi dettagli: dalla traslitterazione fonetica dei nomi arabi alla qualità della stampa; dalla riproduzione delle illustrazioni originali di Khalil Gibran all’invito per la stesura della pre e della postfazione ai due specialisti del dialogo interculturale Paolo Branca e Khaled Fouad Allam. Tuttavia, nonostante si tratti di un vero classico della letteratura di migrazione, quest’opera non è circoscritta al pubblico elitario degli “addetti ai lavori” ma si apre ad una fruzione di più ampio respiro: quella di coloro che desiderano intraprendere un viaggio che attraversa i due emisferi del Globo e che vivono questo cammino anche come una traversata interiore.

La scrittura non è virtuosistica né criptica, piuttosto è un mezzo attraverso il quale il lettore può perdersi in suggerimenti, pensieri, per poi ritrovarsi e ricongiungersi con una realtà più ricca e sfaccettata.

khalid_frontespizio-originaleL’autore dell’opera, intellettuale e diplomatico libanese nonché promotore della rinascita culturale araba del ’900, lascia dunque aperta questa possibilità di lettura “a più strati”, dove la materia degli opposti da lui lavorata (Oriente/Occidente, individuale/collettivo, scienza/fede e così via) pare un chiaro-scuro masaccesco in cui i colori contrastanti risultano nel loro insieme giustapposti; è una danza di luce e ombra che non diventa spigolo ma armonia nella differenza.

Rihani rimanda Oriente e Occidente rispettivamente alla sfera spirituale e a quella logica, all’invisibile e al materiale; tale parallelismo tuttavia non intende attribuire caratteristiche immobili ed esclusive all’una e all’altra civiltà, si tratta piuttosto di una semplificazione per far accedere i lettori alla dialettica dei contrari.

L’identità del protagonista Khalid corrisponde ad entrambi i mondi poiché egli crede che «lo spirituale non debba essere limitato dal naturale, ma debba andare ben al di sopra, al di là o al di sotto di esso, colmando, sostenendo, purificando ciò che, nella natura esteriore, non è che un simbolo dell’invisibile»[1].

La complementarietà tra Oriente e Occidente, così come tra spirito e corpo, è il fil-rouge che percorre tutto il libro, messaggio che fa dell’autore il precursore del dialogo interculturale, dialogo che non appare necessario in termini morali né ideologici ma che risulta indispensabile perché ciascun essere umano possa intraprendere la ricerca della propria identità:

«Lo spirituale non deve e non può essere separato dalla sfera sensoriale, e nemmeno da quella sensuale. La vera vita, la vita piena, pura, vigorosa, sublime è quella in cui tutte le più nobili e alte aspirazioni dell’anima e del corpo stesso trovano campo libero e illimitato, nella prospettiva di sviluppare la qualità divina nell’uomo» [2].

La diversità è dunque ricchezza e la cultura straniera, ci suggerisce ancora una volta Khalid, è necessaria per lo spirito individuale così come per quello di una Nazione, pena mediocrità e mero provincialismo [3].

La prima edizione italiana Kahlil Gibran, IL PROFETA, preface by Augusto Mancini, translated by E. Niosi-Risos, Lanciano, Gino Carabba, 1936

La prima edizione italiana Kahlil Gibran, IL Profeta, prefazione Augusto Mancini, traduzione E. Niosi-Risos, Lanciano, Gino Carabba ed., 1936

Oltre a queste importanti considerazioni, che fanno dell’opera una pietra miliare della letteratura di migrazione, Il libro di Khalid è molto altro: un invito alla consapevolezza, un viaggio nei meandri dell’intimo dell’uomo, una lode alla pace e alla forza dell’amore, un elogio al pensiero e alla laicità, alla responsabilità individuale e all’importanza del cambiamento personale, una dichia- razione di biasimo per fronzoli e apparenze, un cantico alla bellezza della semplicità e al lusso della normalità. Come suggerisce Fouad Allam nella postfazione, esso è un inno alla passione di esistere, una preghiera che non si trova nella Bibbia e nel Corano ma che è racchiusa nel segreto del cuore a cui si può accedere solamente se si è saputo compiere il proprio viaggio interiore [4].

Al centro dell’opera, le riflessioni sulla necessità della costruzione di un pensiero critico:

«Giorno verrà che non sarà più necessario scrivere libri, promulgare leggi, creare religioni per gli altri: ciascuno scriverà il proprio libro  − nel corso della propria vita −, e quel libro sarà il suo codice e il suo credo. Quel Libro della Vita sarà palazzo e cattedrale della sua anima in tutti i mondi [5].

Khalid, giovane libanese, compie il suo viaggio alla fine del XIX secolo con il suo migliore amico Shakib andando negli Stati Uniti per poi rientrare in patria, dopo vari anni di peripezie lavorative e personali, dove lo attendono altrettante fatiche e sofferenze. Ma si può andare dall’altra parte del mondo senza aver mosso un solo passo e si può restare immobili avendo percorso migliaia di chilometri. Il passaggio che Khalid compie da Oriente a Occidente corrisponde invece ad un percorso interiore che procede dalla parte più cosciente di sé ad una più inconscia per giungere poi all’acquisizione di un’ulteriore consapevolezza al rientro nella società d’origine.

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Illustrazione originale di Kahlil Gibran

La diversità culturale allora è il riflesso della complessità del suo mondo interiore e, per estensione, di quello di ogni essere umano; l’appartenenza ad una specifica civiltà è il modo in cui si declinano gli stessi ed universali meccanismi psichici e sociali; e così, ecco che una canzone nata nell’emisfero opposto a quello in cui si è cresciuti risuona familiare quanto la ninna nanna materna, e un gusto diverso dall’abituale può risvegliare una parte acre di noi con cui ancora non abbiamo fatto i conti.

Il libro di Khalid ci offre dunque lo spunto per riflettere sulla convenzionale divisione Oriente/Occidente in termini diversi da quelli di un’opposizione o di una possibile tiepida tolleranza: quelli di una complementare appartenenza alla stessa natura umana. L’individuo è un insieme di molteplici mondi che non possono esprimersi solo all’interno dei limiti della società di appartenenza. Ed ecco il motivo del desiderio di andare, di scoprire cosa c’è al di là delle barriere sociali e geografiche, oltre ciò che ancora non si conosce di sé.

Così Khalid  «proprio non sapeva farsi bastare − ci viene detto −  l’orizzonte che riusciva a scorgere, per quanto vasto e bello. La sua anima anelava sempre a ciò che era al di là, al di sopra o al di sotto della linea visibile» [6]. È questa spinta a portarlo al di là dell’Oceano e delle sue abitudini, fino a giungere a New York dove la dimensione onirica dell’ignoto si sgretola contro il muro della realtà: Khalid prende coscienza di aver abbandonato i panni di cittadino per trovarsi cuciti addosso quelli di migrante, condizione ardua ma che, in quanto tale, racchiude un’opportunità di crescita. Uscire dalla zona di confort permette infatti di aprirsi all’orizzonte infinito della propria identità.

Al Siddharta arabo, che appare ai nostri occhi come un bambino senza filtri né limiti e bisognoso di andare a fondo di ciascuna esperienza, fa da contralto la figura del fedele amico Shakib, caratterizzato da una predominante di logica e ragione, contrapposizione enunciata all’inizio del loro viaggio, quando i due giovani sono in procinto di partire «l’uno su un molo reale e tangibile, l’altro su uno immateriale e invisibile» [7].

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Ameen Rihani, 1921

Ancora una volta, attraverso il rapporto tra i due amici, Rihani mette in gioco la dialettica degli opposti, la stessa che permette al nostro protagonista un passaggio a quello stato di maturità in cui un aspetto non esclude l’altro ma, anzi, lo completa. Oriente e Occidente albergano entrambi nel cuore di Khalid e di entrambi egli discerne tratti e norme positive e negative, fa suoi alcuni aspetti e si distacca da altri, criticandoli severamente. A tal proposito, il protagonista ci fornisce un ulteriore spunto, ovvero il carattere mutabile delle costruzioni sociali poiché «ciò che attualmente consideriamo fondamentale nella storia delle nazioni e degli individui era, in passato, ritenuto insignificante, e viceversa» [8].

È difficile abbandonare le proprie riserve, abbattere convinzioni e pregiudizi. Dietro la chiusura c’è la paura della diversità, salvo poi rendersi conto che questa stessa diversità è parte di noi. Le difficoltà di rapporto con l’altro sono dunque da cercare nell’inconsapevolezza della nostra realtà interiore, mentre la coscienza della nostra alterità permette di metterci in relazione con l’altro non percependolo più come straniero. Certo, ciò costringe a fare i conti con la parte più oscura di sé, con i tratti scomodi e scabrosi della nostra intimità, mentre sarebbe molto più rassicurante trattare come esterno a noi tutto ciò che consideriamo “cattivo”. Il rifiuto della complessità soggettiva non solo implica la perdita dell’opportunità di costruire sé stessi. Identificando il male come esterno a noi ed esclusivo dell’altro porta in seno il rischio dell’assolutismo. Questo concetto è stato ben analizzato dallo psicoanalista Gérard Haddad nel libro Nella mano destra di Dio [9 ] in cui l’autore suggerisce che mettersi al riparo dalla finitezza insita nell’essere umano, in altri termini, sostituirsi a Dio, può sfociare nel fanatismo, nella pretesa di possedere la verità assoluta. Ciò non vuole essere un’incitazione al relativismo poiché come Khalid non apprezziamo la mediocrità; nel passaggio del libro in cui afferma di essere un estremista, un purista [10], egli sostiene un concetto ben diverso da quello citato poc’anzi sul fanatismo, ovvero difende il coraggio di andare a fondo del proprio pensiero e denuncia la vigliaccheria di aderire ciecamente ad un’ideologia dove, al contrario, il pensiero è cristallizzato; biasima quindi il pressappochismo e mette in guardia dall’indottrinamento e dall’ipocrisia del dogmatismo.

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Illustrazione originale di Kahlil Gibran

Tacciata di dogmatismo è spesso, nell’opera di Rihani, la religione cattolica − nello specifico l’ordine dei gesuiti −, sovente oggetto di scherno e di ironia da parte del protagonista; ma, più in generale, Khalid critica ogni possibile credo trasformato in verità assoluta. Egli infatti considera che economia, religione e cultura debbano coesistere per elevarsi, altrimenti si riducono a bigottismo, ipocrisia e presunzione [11]. Il desiderio di Khalid è abbracciare la verità, dovunque riesca a trovarla poiché «ogni religione, in effetti, è buona e vera, se persegue il nobile scopo del suo fondatore. E sono tutte false quando sono asservite agli ignobili interessi dei loro sommi sacerdoti» [12].

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Ameen Rihani

Il suggerimento che trapela tra le pagine di questo libro è allora quello di allenare il pensiero, di dotarsi di giudizio critico, condizione necessaria affinché ogni persona sia autore (o soggetto) e possa scrivere il senso del mondo a partire da se stesso poiché, come dice lo scrittore Salman Rushdie, «ceux qui n’ont pas le pouvoir de raconter de nouveau cette Histoire qui domine leurs vies, de la penser, déconstruire, de s’en moquer et de la changer selon les temps qui changent, sont vraiment des impotents, car ils ne peuvent pas penser de manière nouvelle» [13].

L’adesione totale senza discernimento ad un’ideologia, che essa sia religiosa o meno, è un pericolo dal quale Khalid ci mette in guardia poiché spesso «i dogmi chiudono come dighe quei canali della nostra anima che avrebbero potuto farci conquistare tesori ben più grandi e farci ascendere ad altezze ben più elevate» [14]. Il Libro di Khalid sembra dunque presupporre il pensiero laico, ovvero la libertà di poter esercitare la propria credenza (compresa quella dell’ateismo) nel rispetto degli altri.

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Uno scorcio del Museo Rihani in Libano

Quest’opera, dei primi del ’900, è di una spiazzante attualità. Le tematiche del dialogo tra le culture sono quanto mai necessarie nella nostra epoca dove la globalizzazione è messa al servizio del cieco profitto a breve termine e le differenze si chiudono in correnti estremiste dal carattere sanguinario. La domanda di Khalid è dunque particolarmente pertinente: «al giorno d’oggi, attraverso quali fitte e oscene sterpaglie dobbiamo passare, attraverso quali siepi di cactus e campi di cardi dobbiamo penetrare […]?» [15].

La rivoluzione proposta dall’autore è pacifica: un movimento culturale, un invito al pensiero e alla scoperta di ciò che, negli stessi anni in cui veniva pubblicato il libro, Freud definiva come inconscio. Una riforma attraverso l’ «emigrazione della mente (poiché) l’anima dev’essere libera, come la mente, prima che si abbia il diritto di appartenere a un governo libero, prima che si possa giustamente godere dei propri diritti e compiere i propri doveri da cittadini» [16].

Una migrazione interiore dunque che porti a ciò a cui anche il Candido di Voltaire era approdato: «Che ciascuno allora coltivi con pia sincerità una qualche vigna come quella del mio eremita, e il mondo non sarà più bisogno di essere riformato!» [17].

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Ameen Rihani, Il libro di Khalid, traduzione e cura di Francesco Medici, Messina, Mesogea, 2014: 276
[2] Id.: 227
[3] Cfr. A. Rihani, Il libro di Khalid, cit.: 280
[4] Id.: 372
[5] Id.: 60
[6] Id.: 86
[7] Id.: 98
[8] Id.: 65
[9] Cfr. Gérard Haddad, Dans la main droite de Dieu. Psychanalyse du fanatisme, Parigi, Premier Parallèle, 2015.
[10] Cfr. A. Rihani, Il libro di Khalid, cit.: 262
[11] Id: 118
[12] Id.: 323
[13] Salman Rushdie, Mille jours en ballon, cité par F. Benslama, La psicoanalisi alla prova dellIslam, Milan, Casa Editrice Il Ponte/Tempo Libro Srl, 2012: 35.
[14] A. Rihani, Il libro di Khalid, cit.: 128
[15] Id.: 319
[16] Id.: 320
[17] Id.: 252
Riferimenti bibliografici
Haddad, Gérard, 2015, Dans la main droite de Dieu. Psychanalyse du fanatisme, Parigi, Premier Parallèle.
Rihani, Ameen, 1911 ed. 2014, Il libro di Khalid, Traduzione e cura di Francesco Medici, Messina, Mesogea.
Rushdie, Salman, cit. da F. Benslama, 2012, La psicoanalisi alla prova dellIslam, Milano, Casa Editrice Il Ponte/Tempo Libro:  35.
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Silvia Pierantoni Giua, si specializza in arabo e cultura islamica durante il corso di Laurea Magistrale in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università degli studi di Milano. Approfondisce poi la tematica della radicalizzazione islamista in occasione della stesura della sua tesi di laurea di Ricerca in Psicoanalisi diretta dallo psicoanalista F. Benslama, che ha discusso nel giugno 2016 all’Università Paris VII di Parigi. Attualmente si occupa della stesura di un progetto per la prevenzione del fenomeno del fanatismo.
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