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Miraggi nella Contea. Infanzie negate, tesori, orchi negromanti

copertinadi Giuseppe Giacobello

Truvatura, nell’uso letterario ‘trovatura’, è parola adottata in Sicilia e in zone della Calabria per evocare scoperte prodigiose, rinvenimenti di sacre meraviglie, soprattutto tesori incantati nel sottosuolo e vincolati a rappresentazioni dell’aldilà che coinvolgono i luoghi in cui le vicende sono ambientate, le entità a guardia dei beni preziosi (serpenti, draghi, folletti, fate, orchi, animali d’oro, demoni ecc.) e le speleologie cerimoniali da attivare per le insidiose ricerche. Tesori immaginati, concepiti nel mito, non separabili da plausibili giacimenti, da concreti tentativi di scavo e, di tanto in tanto, da clamorosi quanto improbabili arricchimenti. Tesori, e persone convinte della loro esistenza, complicati da studiare in prospettiva unitaria.

A queste leggende plutoniche, come le hanno denominate gli eruditi del XIX secolo, sono oltretutto correlate tradizioni negromantiche di remota attestazione, i cui adepti hanno creduto nella possibilità di occultare o disoccultare ricchezze operando sui dispositivi rituali di tutela attribuiti ai custodi extra-umani o alle anime di persone sacrificate, uccise, all’atto del nascondimento. Per le aree europee ed extra-europee d’influenza cristiano-cattolica, acquisiscono così rilevanza gli incartamenti processuali dell’Inquisizione ecclesiastica d’età moderna, dove questi comportamenti cerimoniali sono rubricati tra i peccati/reati di eresia e superstizione, e le testimonianze della giustizia secolare, per rapimenti e omicidi implicati in tentativi di riscatto cruento, sanguinario, a beneficio presunto degli spiriti guardiani.

Per la Sicilia, il primo versante, quello inquisitoriale-ecclesiastico (secc. XVI-XVIII), è stato già studiato da Maria Sofia Messana (Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna, 1500-1782, Palermo, 2007) e da Melita Leonardi (Inquisizione e ‘superstición’ nella Contea di Modica tra XVI e XVII sec., in «Archivum Historicum Mothycence», 2000; Governo, istituzioni, Inquisizione nella Sicilia Spagnola. I processi per magia e superstizione, Acireale-Roma, 2005; Inquisizione, tesori, angeli e demoni in Sicilia tra etnografia e testimonianza storica, in «Bruniana & Campanelliana», 2013); mentre attualmente è oggetto d’indagine anche da parte di Pier L. J. Mannella, che sta conducendo un nuovo spoglio sistematico della documentazione conservata a Madrid (Archivo Histórico Nacional, Inquisición – Sicilia, libros 898-902) e presto fornirà un primo saggio in fase di avanzata stesura (Negromanti e investigatori tesaurici in Sicilia nei secoli XVI-XVIII).

Del secondo versante, basato su attestazioni rintracciabili negli archivi della giustizia secolare dei secoli più recenti e già segnalate per il loro potenziale utilizzo etno-storiografico da Giuseppe Bonomo (Introduzione a AA.VV., La magia: segno e conflitto, Palermo, 1979), ci danno adesso modo di discutere Alessandro D’Amato e Marcella Burderi con Il sacrificio di Clementuzzu. Storie e leggende di tesori nascosti in Sicilia (Le Fate Editore, Ragusa, 2018).

Il libro ruota intorno alle incerte notizie, in parte tramandate ancora oralmente, relative al rapimento e all’uccisione di un bambino, forse di una bambina, forse di entrambi, avvenuti a fine Ottocento nell’allora Circondario di Modica (in precedenza ‘Contea’); delitti messi in relazione con una cerimonia finalizzata allo svincolo di un presunto tesoro incantato, dai risvolti procedurali crudissimi come l’ingestione del fegato del piccolo da parte dei rapitori e la combustione del suo cadavere.

Ai fatti aveva già accennato Serafino Amabile Guastella nella corrispondenza con Giuseppe Pitrè (oggi più accessibile grazie al riordino curato da Giorgio Brafa Misicoro: Lettere di Serafino Amabile Guastella a Giuseppe Pitrè. Carteggio epistolare 1873-1898, Ragusa-Palermo, 2003). Il primo merito di D’Amato e Burderi è stato pertanto quello di riaprire una questione apparentemente ignorata, ripercorrendo tracce già disponibili e aggiungendo nuova documentazione.

1Una concordata strategia saggistica caratterizza l’opera: anticipare qualche indizio, evocare qualche aspetto sorprendente, ma rimandando di continuo i principali sviluppi, talvolta le ipotesi di soluzione, mentre il lettore è trattenuto in ampliamenti di orizzonti, in osservazioni di ordine più generale. Si comincia pertanto con una Prefazione di Giuseppe Barone, a cui si devono diversi studi storiografici sull’area sud-orientale dell’Isola, e un’Introduzione di entrambi gli autori. Sono due brani “di servizio” che lasciano capire il respiro complessivo delle riflessioni attivate e alimentano subito più d’una curiosità; ma, per l’appunto, non concedono di più. Coinvolgono e dilazionano. Come gli inserti promozionali (anche video) predisposti per la presentazione del libro al recente Salone di Torino.

Mi piace pensare che Alessandro e Marcella abbiano preventivato almeno due categorie di lettori ideali: da un lato la stragrande maggioranza di coloro che potrebbero avvicinarsi a queste pagine conoscendo poco l’immaginario folklorico europeo e dunque restando sbalorditi, se non sconcertati, dalle implicazioni goticheggianti di una credenza popolare d’ingannevole sapore fiabesco; dall’altro lato la sparuta pattuglia di “cultori della materia” o “addetti ai lavori”, che vorrebbero subito individuare le nuove scoperte dei due studiosi bene equipaggiati nell’esplorazione di uno specifico territorio, ma sono cortesemente e costantemente pregati di “attendere in linea”.

Ecco spiegato l’immediato inserimento, proprio nella Prima parte, dell’ampio contributo di D’Amato (Miti, simbolismi e leggende di truvature in Sicilia), finalizzato ad estendere le coordinate di un fenomeno che in alcun modo può essere circoscritto alle contrade modicane, anche se proprio da quelle contrade provengono attestazioni e studi importanti. Nel capitolo d’esordio di questa prima parte (Un antico manoscritto: leggende di tesori nascosti, tra sacro e profano), la diffusione storica viene affrontata considerando memorie erudite dei secoli scorsi e in particolare un testo settecentesco già fatto conoscere a inizio Novecento da Mattia Di Martino (Tesori nascosti da ritrovare indicati e descritti in un antico manoscritto, in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», 1901), suscitatore, a sua volta, di uno degli studi antropologici più lucidi oggi disponibili in materia di tesori incantati: Emanuele Amodio, “Munita munitami minutissima”. Mappe dell’oro e mondo sotterraneo nella cultura siciliana, in Anonimo Ragusano, ‘A Truvatura. Mappe del tesoro nascosto nella Contea di Modica e dintorni (a c. di E. Amodio, Ragusa, 1987).

Ricollegandosi alle testimonianze demologiche di fine Ottocento e primo Novecento, e alla rilettura operata su queste da Giuseppe Cocchiara (autore particolarmente caro ad Alessandro D’Amato, che vi ha dedicato diversi studi) e da Vincenzo Manzini (La superstizione omicida e i sacrifici umani, Padova, 1930), con il secondo capitolo della prima parte (Incantesimi, magie e simbolismi mitico rituali) si entra nel merito delle uccisioni cerimoniali e della comprensione antropologica attivabile intorno ad esse. L’obiettivo è sempre quello di creare uno sfondo di riferimenti più generali che da un lato possano relativizzare il caso modicano, affrontato nello specifico più avanti, e dall’altro possano illuminarne, comparativamente, aspetti non coperti dalla documentazione locale.

2Lo si può constatare ancora con il terzo capitolo (I luoghi delle trovature), che affronta una delle componenti centrali di queste credenze, intimamente legate alle epifanie spiritiche e agli investimenti simbolici con cui le comunità territoriali hanno identificato gli ambienti tesaurici, e poi con il quarto (I guardiani del tesoro. Gli esseri soprannaturali) e con il quinto (I guardiani del tesoro. Gli animali fantastici), che riconnettono le riflessioni di D’Amato a quanto egli stesso ci ha già fatto conoscere in precedenza con uno studio concepito insieme a Giovanni Amato (G. Amato – A. D’Amato, Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia, Ragusa, 2015).

Opportunamente rallentati, per essere intanto ragguagliati, arriviamo alla Seconda  parte del libro, curata da Marcella Burderi (Il tesoro e il sangue. La storia di Clementuzzu Amato, con appendice fotografica). Anche qui troviamo predisposta un’utile “area di sosta” introduttiva: un primo capitolo (Modica nella seconda metà dell’Ottocento) che aiuta a conoscere il sistema di vita locale implicato nei fatti che s’andranno a esaminare. La chiave di lettura è nel brano conclusivo:

«gli anni che coincidono con la storia che stiamo per narrare registrarono un grande mutamento, in cui la nascita dello Stato Unitario giocò un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico dell’intero territorio in cui la modernizzazione, con la costruzione di ferrovie, l’espansione dei circuiti mercantili, lo sviluppo della navigazione a vapore, la nascita delle maggiori scuole, l’affermarsi delle piccole e medie imprese, dovette fare ancora i conti con le resistenze del passato».

Mutamenti della modernità e permanenze del passato arcaico. La Sicilia, insomma. Con il secondo capitolo di Marcella Burderi (Il contesto sociale della ricerca storico-etnografica) e con il suo terzo (Clementuzzu Amato e Giuseppa) entriamo finalmente nella vicenda centrale e nella ricerca svolta per tentare di farla affiorare. Anche se in Sicilia (e in Europa) i bambini non sono stati le uniche vittime sacrificali dei cavatesori negromanti, per lo specifico caso modicano sono istruttive soprattutto le pagine dedicate alla condizione femminile del baliatico, alla realtà dell’infanzia abbandonata e, dunque, ai cosiddetti trovatelli, esposti o proietti. Pagine che dicono molto sul valore socialmente “riduttivo” accordato alla vita infantile in un contesto economico di antico regime (seppure in via di cambiamento); pagine che prendono forza dai due documenti che meglio restituiscono il contributo di questo libro: il sunto storico di una sentenza giudiziaria del Tribunale di Modica (datato 1886 e oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Ragusa), con i dettagli di un’indagine svolta da un Ufficiale di Pubblica Sicurezza; un cuntu popolare in forma poetica sulla “passione” di Clementuzzu, correlabile ai repertori narrativi dei cantastorie e dei contastorie di strada o alle orazioni agiografiche del ciclo pasquale, recitato da una straordinaria “testimone” del luogo, Santina Covato, e audio-videoregistrato nel 2011 da Marcella Burderi e Biagia Gurrieri (oggi confluito nell’archivio multimediale “Memorie Orali degli Iblei” www.memorieoralidegliiblei.it – altra meritoria iniziativa nel campo dell’Oral History che dobbiamo a Marcella).

3Fedele al divergente impianto narrativo del libro, ai lettori di «Dialoghi Mediterranei» non svelerò oltre l’approdo delle ricerche di Alessandro e Marcella e i misteri sulla sorte di Clementuzzu e anche di Giuseppa, la bambina che nelle memorie rintracciate è forse confusa con lui: entrambi comunque finiti nelle mani di orchi e orchesse negromanti e nelle spire dei loro miraggi plutonici.

In questa sovrapposizione di identità, di storia e mito, di scrittura e oralità, si concentrano i nodi principali di uno studio sulle trovature e le sfide che l’antropologia e l’etnostoriografia dei nostri due autori hanno bene innescato, altrettanto bene diversificato, ma, per loro stessa ammissione, non ancora condotto a termine.

Molti restano gli interrogativi. Soltanto un coperchio è stato sollevato. Troppi indizi lasciano sospettare che le vittime legate a queste usanze non siano state poche. Ancora nei decenni immediatamente successivi, riviste demologiche importanti come «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» (1897) e «Lares» (1932) forniscono notizie di episodi simili avvenuti a Messina e Catania.

D’altra parte, a mente fredda, e anche alla luce dell’intera prima parte del libro, le credenze sui tesori incantati non possono essere univocamente risolte nell’analisi di questi comportamenti estremi. Qui, infatti, c’è una domanda decisiva dal punto di vista antropologico: quanto o in che senso estremi? Abbinata a una domanda decisiva in prospettiva storica: perché le fonti principali ne tacciono o ne riferiscono in maniera frammentaria, lacunosa o sottodimensionante?

Va da sé, ogni comportamento umano e ogni eventuale suo documento non si producono affinché antropologi e storici (per dirne due tra i tanti) possano farne oggetto d’analisi. Staremmo altrimenti in un delirante, pirandelliano, “vivere che si guarda studiare”. Le tracce del passato si generano e sopravvivono secondo dinamiche quasi sempre avulse e diventano “documenti” soltanto dopo essere state concepite come tali da una determinata intenzione storiografica. A quel punto occorre fare i conti con quel che si trova o con quel che si è capaci di vedere; e a questi vincoli non sfuggono neanche i documenti “autoprodotti” dalla ricerca etnografica. Così, però, gli interrogativi crescono anziché diminuire: nel clima censorio della moderna cultura cristiano-occidentale, perché di questi “delitti di superstizione”, certamente avvenuti, sembra esserci giunto così poco?

Tra i secoli XVI e XIX, a “documentare” i tesori incantati in Sicilia (ma anche altrove) sono stati soprattutto uomini di religione che in quelle usanze da loro chiamate “superstizioni” vedevano eresie e peccati; mentre, tra la seconda metà del secolo XIX e la prima del XX, sono stati soprattutto folkloristi che, malgrado alcune idilliache visioni della vita popolare e malgrado la cospicua restituzione narrativa di leggende plutoniche (per la Sicilia tra le più ingenti in Europa), in quelle stesse usanze vedevano relitti irrazionali e cascami antimoderni. Tutti loro, stando alla fisionomia culturale con cui ce li rappresentiamo di solito, avrebbero avuto più d’un interesse a non tacere.

Ma, allora, a cosa è stato veramente sacrificato Clementuzzu?

Dialoghi Mediterranei, n.32 luglio 2018 
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Giuseppe Giacobello,  ha conseguito il dottorato di ricerca in Etnoantropologia all’Università di Palermo e oggi insegna discipline letterarie al Liceo Artistico “F. Arcangeli” di Bologna. Tra le pubblicazioni: Lo spirito del gioco. Campi di esperienza mitico-cerimoniale nella tradizione del Lotto in Sicilia, «Archivio Antropologico Mediterraneo», 1999; Frontiere mitiche: leggende plutoniche e fiabe del sottosuolo, in AA.VV., La fiaba e altri frammenti di tradizione popolare, Firenze, 2006; Peripezie dell’impresa plutonica, in AA.VV., Epica e storia, Palermo, 2006; Storie di trovatura. Da Pitrè a Camilleri, in AA.VV., Pitrè e Salomone Marino, Palermo, 2017; Oltre quel che c’è. Oracoli, giochi di sorte, tesori nascosti, incanti sotterranei, Palermo, in stampa.
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