Il lavoro sulle lingue: Lakhous: «La letteratura senza la lingua diventa saggistica» [1]
Lo scrittore algerino Amara Lakhous è riconosciuto soprattutto per la scelta delle lingue usate nella sua scrittura. Egli sa bene quando usare una certa lingua. Questo scrittore, emigrato e arrivato in Italia nel 1995, già dopo pochi anni adotta, sfidando se stesso, l’italiano come lingua di scrittura. lnfatti ha imparato a usare l’italiano non soltanto per comunicare e sopravvivere, ma anche con l’ambizione di ricavarne una forma letteraria distintiva, caratterizzata da un ibridismo che utilizzasse una tavolozza di idiomi molto vari. Il miscuglio linguistico nelle opere lakhousiane è scoppiettante ed è un effetto voluto dallo scrittore, che viene riprodotto sia nella versione araba, che in quella italiana; ognuna con la sua specificità, il suo modo di combinare le parlate e i codici. Per esempio, nelle versioni arabe dei racconti, Lakhous gioca con l’arabo e le sue declinazioni, oltre che con altre lingue straniere, come il francese o l’inglese. Mentre nelle versioni italiane include l’italiano e i dialetti oltre alle parlate arabe, le lingue europee e l’inglese. Questo lavoro sulle varianti linguistiche viene compiuto in funzione della varietà dei personaggi.
Nella produzione dello scrittore italo-algerino, si riscontra un uso significativo del plurilinguismo, perché Lakhous afferma di non poter scrivere i suoi testi in modo soddisfacente senza ricorrere ad espressioni idiomatiche che, in certe situazioni, sono più espressive che i modi grammaticali e lessicali di una sola lingua o di un unico registro.
Per Lakhous, è una grande fortuna essere scrittore bilingue, e, perché no, anche plurilingue. La sua esperienza narrativa in Italia è cominciata con la scrittura di versioni gemelle di ogni romanzo, una in italiano e una in arabo, cercando, da un lato, di arabizzare l’italiano, utilizzando immagini e modi di dire della tradizione araba, e, dall’altro, di ita!ianizzare l’arabo, mettendo l’immaginario italiano a disposizione del lettore arabo.
«In ltalia, sono l’unico romanziere che scrive in italiano e che riscrive le sue opere in arabo, penso di essere un caso particolare anche in Algeria e nel mondo arabo. La questione della lingua mi interessa molto. Ho sempre vissuto nel plurilinguismo linguistico. Quindi, non riesco a vivere con una sola lingua. Un giorno, negli Stati Uniti, ho detto che ero un poligamo linguistico. Parlavano dei musulmani e ho detto: Ecco un poligamo, ma un poligamo linguistico» [2] .
Quindi, la riscrittura delle sue opere è un lavoro unico e originale. Amara Lakhous preferisce la riscrittura dei testi dei suoi romanzi alla traduzione. Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, per esempio, è stato scritto in arabo e pubblicato nel 2003, poi è uscito anche in una nuova versione italiana, nel 2006. Infatti, per il nostro autore, la riscrittura, a differenza della traduzione, consente tanti vantaggi. Il traduttore non ha il potere di tagliare e aggiungere, non ha il diritto di cambiare i nomi dei personaggi. Per esempio, Lakhous non ha mantenuto gli stessi nomi dei personaggi scrivendo Divorzio all’islamica a viale Marconi e Al-Qahira assaghira, il nome del capitano del Sismi, Giuda è stato sostituito con ‘Sandri’ e Akram con ‘Hanafi’ in Al-Qahira assaghira. Poi c’è anche la questione dei proverbi, che tradotti non sono altrettanto efficaci. Quando lo stesso scrittore, il proprietario dell’opera, elabora una riscrittura, può fare quello che vuole e quello che considera meglio per trasmettere il suo rnessaggio, Riscrivendo l’opera lo scrittore puô permettersi di inventare nuovi proverbi, o di adattare quelli in uso, mantenendo sempre lo stile e l’efficacia. Ad esempio, in Divorzio alI’islamica o viale Marconi, si nota che, sul piano linguistico, lo scrittore ha l’opportunità di dire alcune cose in italiano e altre in arabo. Safia, l’egiziana, quando parla della vita sessuale, lo fa sentendosi a suo agio in italiano, ma non nella sua lingua d’origine, e lo stesso per le parolacce, le dice solo in italiano. Da questo emerge anche il bisogno di adattare la scrittura e la lingua usate a seconda del pubblico a cui il testo è destinato.
In effetti, nel caso lakhousiano la lingua italiana non sostituisce completamente la lingua araba, piuttosto entrambe fanno parte della stessa ipotesi creativa, dello stesso progetto letterario e dell’utopia narrativa ovvero del Manifesto dell’autore, di questo arabizzare 1’italiano e italianizzare l’arabo, che si concretizza non solo in una scrittura in doppia lingua, ma in uno stile linguistico ibrido, contaminato e metropolitano, corne lb definisce l’arabista Francesco Leggio nella postfazione di Un pirata piccolo piccolo. Il pubblico ha imparato a conoscere questa caratteristica nei due scritti che hanno segnato l’ingresso di Lakhous nel panorama letterario italiano: Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2006) e Divorzio all’islamica a viale Marconi (2010). Il suo italiano viene influenzato e subisce interferenze dall’arabo, dal persiano, dall’albanese, dal rumeno, dalI’inglese e dal francese, e da diverse altre lingue e il risultato sono racconti divertentissimi, grazie ai loro personaggi, e questo aspetto è particolarmente evidente nelle versioni italiane.
Cominciamo con l’analizzare più da vicino la lingua araba, che gode di una posizione di rilievo nei romanzi di Lakhous. Infatti, oltre all’arabo standard, usato per citare qualche versetto dal Corano, o qualche proverbio, egli utilizza le parlate locali, che condividono poco o nulla con l’arabo standard, sono delle vere lingue madre; esse costituiscono, infatti, l’arabo dell’oralità e del quotidiano. Per questo Lakhous ha riservato loro una particolare attenzione ed è stato bravissimo a giocare con gli idiomi, come quello tunisino e quello egiziano o marocchino, in modo intelligente. Infatti, la prosa lakhousiana attribuisce uno status letterario anche al linguaggio del quotidiano, orale e parlato, come ha sottolineato Francesco Leggio.
Quelli che seguono sono alcuni esempi di espressioni o di singole parole prese in prestito dalla lingua araba e che, spesso, vengono tradotte o spiegate in italiano all’interno dei romanzi, o capite facilmente dal contesto. Questo aspetto caratterizza soprattutto Divorzio all’islamica a viale Marconi, in cui la lingua araba e le sue declinazioni vengono usate non solo dagli arabi, ma anche dagli italiani, come da Cristian e dal capitano del Sismi.
« Wildi ye kebdi! Figlio mio, fegatino mio!»; «La zakat, l’elemosina per i poveri»; «il maktùb, il destino»; «la shebka, una parola che viene spiegata in precedenza da Safia e che significa il denaro o l’oro offerto alla fidanzata»; «Un versetto o hadith»; «Abu al-banat, padre di femmine!»; «La salat, la preghiera»; «Anti tàliq, sei ripudiata»; «un muhàllil» [3] ; «misk al khitam, un lieto fine»… (Divorzio all’islamica a viale Marconi: 13-40-60-62- 67-71-84-146) [4].
Nel suddetto romanzo, esistono anche veri e propri prestiti dall’arabo, come il modo di salutare islamico «Assalamu aleikum! Aleikum salam!», o alcune parole che vengono usate dagli arabi per rafforzare il messaggio trasmesso come: «Kafira, miscredente»; «Fitna, seduzione»; «Haram, illecito», eccetera… e questo vale anche per gli altri romanzi di Amara Lakhous. Però, sono le declinazioni nazionali dell’arabo ad essere più diffuse nei testi lakhousiani. Citiamo qualche esempio della parlata tunisina usata da Cristian, che è vissuto in Tunisia, visto che suo nonno era immigrato in questo Paese, in Divorzio all’islamica a viale Marconi:
«È stato lui a insegnarmi le prime parole in arabo tunisino: Shismek, come ti chiami? Shniahwelek, come stai? Win meshi, dove vai? Yezzi, basta! Nhebbek barsha, ti voglio bene assai. E altre ancora» (Divorzio all’islamica a viale Marconi: 17); «Ma tkhafish: non aver paura!» (Ibidem: 105). Compare anche un verso tradotto da Il canto della vita, il famoso poema del poeta tunisino Abu al-Qasim al-Shabbi, questo verso viene citato anche nell’inno tunisino: “Quando il popolo decide di vivere, il destino non può che piegarsi” (Ibidem: 30).
Citiamo poi qualche esempio della parlata egiziana, della quale troviamo usati alcuni appellativi: “Bash Mohandes’(ingegnere,); “Hagg” (rivolta ad un pellegrino o ad un anziano e che vuol dire colui che ha compiuto il pellegrinaggio, e che si usa come segno di rispetto). O anche proverbi ed espressioni idiomatiche: «In Egitto si dice: “Al maktùb aggabin, lazem tchufo l’ain!”, cioè che è scritto sulla fronte gli occhi lo devono vedere per forza! Nessuno può sfuggire al maktùb, il destino»; «“La tajùz ala al mayyit illa arrahma”, dei morti bisogna avere solo pietà» (Ibidem: 29-123)… «Ye msibti Che catastrofe!» (Ibidem : 168).
Inoltre, ci sono vari proverbi mutuati da varie declinazioni dell’arabo: «In Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, viene anche calcato un proverbio maghrebino: “Non puoi attraversare il fiume senza bagnarti” (Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario: 50) [5].
Nello stesso romanzo Arnara Lakhous ha inserito l’arabo in varie occasioni: ‘Harraga’, immigrati clandestini, come viene spiegato più avanti nel romanzo. «Allah alam, solo Dio lo sa»; «Il merguez, una salsiccia fresca e speziata, fatta con la carne del montone, ovviamente halal, e diffusa fra i maghrebini» (Ibidem : 50-98-119).
Si possono perciò classificare i romanzi a seconda della presenza delle lingue. Come abbiamo già accennato, la presenza di termini ed espressioni prese in prestito dalla lingua araba è significativa soprattutto in Divorzio all’islamica a viale Marconi. Negli altri romanzi, esistono meno prestiti e calchi dall’arabo o dalle sue declinazioni, con un maggior ricorso ad altre lingue e soprattutto ai dialetti italiani, però, lo scrittore mantiene sempre il suo caratteristico modo di scrivere, mescolando i modi di dire arabi con quelli italiani.
In Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, Lakhous sperimenta altre lingue, che danno colore all’intreccio del romanzo, come l’albanese e il rumeno, usate in modo ironico e divertente, ma anche eloquente, sulla bocca del talentuoso imitatore di voci plurilingue, l’italiano Luciano Terni.
Citiamo qualche esempio dell’albanese: “Luan” (che significa leone); “Miir bene, mir bene” (molto bene, secondo un modo di dire proprio degli albanesi); «Non me ne frega una rochka!»; “Lek” (la moneta albanese) ; il “kanun” (la legge) (Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario: 48-58).
Sempre in modo ironico, Luciano Terni, interpretando la presunta gola profonda Luan, così descrive il suo plurilinguismo:
«Io parlo l’albanese, il tedesco, il francese, l’italiano, un po’ di spagnolo e un po’ d’inglese. Inoltre conosco tante parolacce in rumeno, serbo, polacco, russo, cinese, nigeriano, arabo, moldavo, indû, portoghese, turco e giapponese. E so dire vaffanculo in quasi tutte le lingue del mondo. Nel nostro lavoro bisogna conoscere le lingue e soprattutto le parolacce» (Ibidem: 56).
Quindi Luan si dimostra specializzato nel linguaggio mafioso, il suo è un gergo formato soprattutto di parolacce, e qui emerge I’ironia di Lakhous, che non esita a scrivere usando un registro popolare, oppure un lessico sgradevole, per ottenere l’effetto desiderato. Amara Lakhous insista molto sui proverbi, perché sono veri portatori di cultura e di significati.
Il mistilinguismo nei romanzi di Lakhous è anche favorito dall’uso dell’inglese, come quello usato da Madame Beauty, che è nata a Benin City in Nigeria: «I’m ready, sono pronta» (Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario: 138); o citiamo anche il proverbio nigeriano «The fish is good, but II bas boues, il pesce è buono, però ha le spine!» (Ibidem:143); «Follow the money, segui i soldi»; «No news, good news!» (Ibidem: 75). Citiamo anche le espressioni inglesi in Divorzio all’islamica: «Marcello, come here!» (Divorzio all’islamica a viale Marconi: 31) insieme ai ripetuti «War on Terror» e la denoninazione del call center “Little Cairo”.
In aggiunta, ci sono anche i prestiti dal francese che incrementano il miscuglio linguistico nelle opere di Lakhous. Il francese viene usato soprattutto dai personaggi che hanno avuto un contatto diretto con tale lingua, corne, ad esempio, l’algerino Ahrned/ Amedeo, che proviene da un Paese in cui il francese gode di una notevole diffusione: «Louis Aragon: “la femme est le future de l’homme”» ; «La verità ferisce: La vérité blesse»; «Non sono nella bocca del lupo, “ La gueule du loup”» (Scontro di civilta per un ascensore a piazza Vittorio:108-128).
Oppure Enzo Laganà, che frequentava sempre la Francia e in special modo Marsiglia: «C’è la crème de la crème» ; «Voilâ, les jeux sont fait !, La frittata è fatta!» (Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario: l6-139). In un’occasione, Enzo elenca anche i nomi di van piatti francesi, come la “salade niçoise” (l’insalata nizzarda); la “soupe au pistou e l’aioli” (la zuppa tipica di Nizza) e la “tarte tatin” (la torta tatin)… Anche Safia l’egiziana, essendo appassionata della Tv straniera, ricorre ad alcune espressioni e detti francesi, esprimendo punti di vista in modo sciolto e ironico: «C’est la vie, ma chère»; «Sono d’accordo con i francesi quando dicono: “Ceux qui parlent ne font pas et ceux qui font ne parlent pas” coloro che parlano non fanno e coloro che fanno non parlano» (Divorzio all’islamica a viale Marconi: 60-28.).
In Scontro di civiltâ, Amara Lakhous descrive anche le interferenze date al mistilinguismo degli immigrati in Italia, attraverso il personaggio romano Sandro Dandini:
«Sono il proprietario del bar Dandini che si affaccia sui giardini di piazza Vittorio. La maggior parte dei miei clienti è straniera. Li conosco molto bene, sono in grado di distinguere facilmente tra un bengalese e un indiano, tra un albanese e un polacco, tra un tunisino e un egiziano. Ad esempio i cinesi pronunciano la lettera L al posto della R, corne “Buongiolno signole, un’alanciata glazie !. Gli egiziani pronunciano la B al posto P, come “Ber favore un banino con bollo”» (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio:.91).
Il gioco della variazione linguistica, per delineare i vari personaggi, è uno dei fattori sui quali si sofferma l’analisi dello stile della produzione italiana di Amara Lakhous. Egli si mette in evidenza, nel panorama letterario italiano, con un linguaggio inconsueto, con una lingua colorata dove l’italiano, e le sue espressioni vernacolari, siciliane e romanesche, si mescolano all ’arabo, nelle varianti egiziane e tunisine. Questo è l’ibridismo letterario di Arnara Lakhous, basato sull’innovazione linguistica introdotta nei suoi racconti [6].
In definitiva, l’espediente narrativo di questo scrittore è sempre divertente e rende la lettura dei suoi romanzi piacevolissima, grazie soprattutto all’uso sapiente di diversi registri linguistici. Lakhous mette in bocca ai suoi personaggi differenti dialetti, diverse modalità comunicative, ma tutte efficaci. Secondo Valentina Fedele[7],
«L’autore ci aiuta a immedesimarci nei loro pensieri attraverso un linguaggio colloquiale, facendo spesso ricorso a diverse declinazioni linguistiche, come le menzionate declinazioni dell’arabo, o ai difetti di pronuncia, come lo scambio della P con la B per gli immigrati egiziani, o della R con la L dei cinesi, o anche ad inflessioni dialettali come il siciliano e il calabrese ed altre ancora».
II lavoro sui dialetti italiani
“Mi dicono che il mio è un italiano strano, non conforme ai canoni classici, ma è proprio quello che voglio, perché l‘espressione che ne viene fuori rispecchia di più la realtà e la mia singolarità” (Amara Lakhous) [8].
Ormai padrone della lingua standard, Lakhous ha deciso di cimentarsi con i dialetti, anzi, con le parlate regionali. Egli riesce ad amalgamare con ironia italiani regionali e dialetti. I suoi romanzi si distinguono soprattutto grazie a uno sperimentalismo linguistico e all’utilizzo di un linguaggio, che è stato definito polifonico, e che l’ha fatto accostare a Gadda.
«Siamo di fronte ad una rimodulazione dell’italiano in senso plurilinguistico, siamo di fronte ad un pastiche di gaddiana inenioria. Il lavoro sui dialetti è voluto apposta perché l’attenzione al vo1go dialettale è un must per Lakhous. I miei maestri sono stati Gadda, Sciascia e Pasolini, i quali hanno sempre (dato importanza alle sfumature dialettali e ai detti popolari» [9].
Ogni suo romanzo è caratterizzato dall’uso di dialetti precisi. Troviamo il napoletano, il milanese e il romanesco in Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Il testo di Divorzio all’islamica a viale Marconi viene arricchito dall’uso del siciliano di Cristian e da qualche accenno al romanesco, rozzo e furbone di Teresa. E le due ultime opere scritte in Italia sono marcate dalla presenza del calabrese di Enzo e di sua madre.
In effetti, la lingua di Lakhous è molto vicina allo standard e, nei suoi romanzi, la presenza di termini dialettali è sempre determinata da una intenzione realistica che aiuti ad incarnare l’effettiva realtà del Paese. Infatti, anche se l’italiano è la lingua nazionale, ed è ormai maggioritaria, il patrimonio dialettale non è mai scomparso e lo si sente ancora ben presente nel parlato quotidiano, se non sempre nel lessico, sicuramente nell’accento. Questo fatto è chiarissimo in Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, soprattutto grazie alla figura della mamma, che sembra molto attaccata al suo calabrese.
«Mia madre mi ha sempre parlato un po’ in calabrese, si è rifiutata di seguire le raccomandazioni degli insegnanti sull’importanza di usare esclusivamente l’italiano con i figli. Una volta, dopo l’ennesimo avvertimento, ha risposto: «Alla casa mia parru cumu piacia… parlo come mi pare!». Mio padre ripeteva sempre che gli esseri umani hanno sempre lo stesso destino degli alberi: privati delle loro radici, muoiono. E non c’è una radice più forte della lingua. Credo avesse ragione. Ogni persona che lascia la propria terra è come un albero trapiantato altrove, guai a privarlo delle proprie radici» (Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario: 34).
Nelle pagine del romanzo, l’idioma calabrese viene usato da Lakhous in special modo durante le telefonate tra Enzo e sua madre, con singoli termini o espressioni, o anche modi di dire tipici. Anche Enzo sembra attaccato alla sua lingua madre, pur essendo giornalista e, per formazione, perciò, sia portato ad usare l’italiano standard, si trova a esprimersi in calabrese, soprattutto in certi contesti, come i monologhi o i dialoghi con la “mammona”. Il nostro scrittore è riuscito a inserire il calabrese e i modi di dire calabresi in modo assai divertente. Citiamo alcuni esempi:
«Quella santa donna di mia madre. Mi ripete sempre: «Enzu’, figliu mia, ‘u tiempu unn’aspetta nissunu. Vedi che resterai solo! Ti devi sposare e fare figli» (Ibidem:15)
«Prima fa’ guai, e poi ti nascondi sempre. Pazienza sauta pazienza» [...] «… Mo’ ci mancavano sulu i mafiosi albanesi e rumeni». [...]
«Enzu’! Non mi pigliare per fessa. Si’ statu fora da casa quattru iuorni. La macchina tua è ancora parcheggiata nello stesso posto, davanti al macellaio, non hai ritirato la posta, non hai risposto la telefono di casa, non hai…». [...] «Non ti preoccupare, mamma». «Mi dici che non mi devo preoccupare e poi come al solito fai ‘i capa tua! Non so nemmeno deve sei mo’! pazienza, santa pazienza! » (Ibidem : 27- 28).
E infine l’epilogo del romanzo, che è costituito dal famoso proverbio calabrese «chine nàscia rutunnu non mora quadratu» (Nel romanzo, quest’ultimo proverbio viene citato anche in italiano: «Chi nasce rotondo non muore quadrato»).
Abbiamo espressamente citato alcuni brani dei dialoghi tra Enzo e sua mamma per mettere in rilievo anche l’ironia e il tono divertente di Amara Lakhous. Per questo, troviamo vari modi di dire distintivi dei calabresi come per esempio la pronuncia della u al posto della o di Enzo, figlio, tempo o di nessuno, e il pronome possessivo femminile mia al posto del maschile ‘mio’, e unn’ al posto di non. O la forma della coniugazione del verbo ‘essere’ con il pronome personale ‘tu’ (si’ statu al posto di sei stato) e la pronuncia di ‘fora’ al posto di ‘fuori’. O anche l’uso del verbo tenere al posto di avere e degli articoli indeterminativi ‘na al posto di una e nu invece di dire un. E infine, notiamo l’esempio della forma calabrese tipica del gerundio in ‘disttruggiennu’ al posto di ‘distruggendo’.
Anche in La zingarata della verginella di via Ormea, ritroviamo lo stesso dialetto calabrese, usato nell’opera precedente, che fa capolino in diverse occasioni, oltre alle parlate popolari come il torinese.
Passiamo adesso a Divorzio all’islamica a viale Marconi, nel quale una delle voci narranti, quella di Cristian/Issa, si esprime in un perfetto italiano standard, intervallato da interferenze sicule, il che però non sfocia mai in un vero e proprio dialetto, seppur mitigato e intenerito ai fini della comprensibilità, ma conferisce al testo una caratterizzazione più efficace. Cominciamo con questo brano del monologo di Cristian in cui evoca certe differenze linguistiche tra l’italiano e il siciliano:
«…Mi accorgo di un problema che avevo completamente sottovalutato: per sembrare credibile devo parlare un italiano stentato, e pure un po’ sgrammaticato. A volte mi capita di dimenticare la parte che sto interpretando. Mi devo identificare nel personaggio di Issa, un immigrato tunisino. Cerco di ricordare la parlata dei miei conoscenti arabi, soprattutto di quelli tunisini. Devo imitare anche il loro accento. L’ideale è parlare un italiano con una doppia cadenza: araba, perché sono tunisino, e siciliana, perché sono un immigrato che ha vissuto in Sicilia. Forse meno italiano parlo meglio sarà. Decido senza esitazione di sospendere momentaneamente molte regole grammaticali, quindi via il congiuntivo e il passato remoto. Mi scassa la minchia rinunciare al nostro adorato passato remoto» (Divorzio all‘islamica a viale Marconi: 45).
Questa affermazione metalinguistica rivela le origini del personaggio e la sua vera lingua madre. Quando dice “il nostro adorato passato remoto”, il possessivo ha senso se riferito al siciliano, non certo all’italiano in cui tale tempo verbale non è veramente privilegiato; citiamo un esempio dell’uso del passato remoto: «Una settimana passò, da quando mi trasferii in questo appartamento» (Ibidem: 64). Infatti, successivamente nel testo, Cristian non può resistere dal ricorrere al siciliano, soprattutto durante i monologhi, oppure nelle circostanze in cui prevalgono registri mediobassi o in cui perde il controllo, e le sue riflessioni prendono allora i tratti di fonologia, morfologia e sintassi dell’italiano regionale siciliano, Citiamo qualche esempio:
«Fimmini rom con gonne lunghe» (Ibidem: 12) ; «Chi ci trase Garibaldi con la Tunisia? Ci trase, ci trase» (Ibidem: 17) . In questi due esempi ci sono accenni al sistema vocalico siciliano: fimmini invece di femmine o donne, chi in luogo di che. E anche al sistema lessicale: trasire per entrare.
Ci sono anche varie frasi in cui si nota l’aferesi del dimostrativo, come nell’esempio di !sta al posto di questa in «Ma perché mai hanno tutta ‘sta fretta?» (Ibidem: 32). E compare anche la morfologia pronominale dialettale, marcata dal raddoppiamento fonosintattico, come in “a mmia” al posto di “a me”. Si nota anche l’inversione del soggetto, che mima la tipica sicilianità testuale, come per esempio in «Insomma, inconoscibile sono» (Ibidem: 11).
Rimane solo da citare il proverbio usato da Cristian, per insistere ancora sulla particolare attenzione data dallo scrittore all’uso dei detti popolari, «Cu’ parra picca, campa cent’anni!» (Ibidem: 46), questo proverbio siciliano significa “chi parla poco, campa cent’anni”.
Questi appena visti sono alcuni esempi dcl siciliano, mescolato con maestria all’interno del testo italiano di Divorzio all’islamica. Ma oltre a quest’idioma, c’è anche il romanesco, usato dalla figura di Teresa, la locandiera, e il dialogo seguente, tra la romana e il finto imnigrato tunisino Cristian, include qualche esempio di questa parlata:
« ‘A bellooo, ché sei egiziano anche tu?».
«No, sono tunisino». «Er paese di Afef ! ». «Sì».
«‘A Tunisia! Ahà, che bello! Ce so’ stata quantro vorte , l’anno scorso so ‘nnata a Hammarnet. Ho approfittato pe vvisità a tomba de Craxi. ‘O conosci Bettino Craxi?»» (Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio: 46).
Passiamo adesso al primo romanzo scritto in italiano dal nostro scrittore italo-algerino, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, in cui si mescolano vari idiomi a seconda dei personaggi. Nell’ intreccio compaiono tanti italiani e ognuno è proveniente da una comunità diversa, di conseguenza, e per essere più fedele ai costumi e ai modi di dire di tali figure, Lakhous non ha esitato a creare un miscuglio linguistico molto perfezionato, un testo ibrido che include, oltre alle diverse lingue che si interferiscono, diversi dialetti italiani.
C’è il napoletano della portiera Benedetta Esposito: «Maro’, aiutace tu? che scuorno» (Ibidem: 31); «Mannaggia’ a vecchiaia E vabbuo’»; «Io tengo a cuore il loro interesse e sono sempre a disposizione loro. Diteini voi: questo significa forse entrare nei fatti loro? San Genna’, mettece ‘a mana toja !. San Genna’, pienzace tu!»; «Guaglio’, addo’ vaje?»; «Ho giurato, quant’è vero San Gennaro» (Ibidem: 33).
«Ero contenta assai assai»; «Guaglio’ Non so come si chiama, e a Napoli siamo abituati a dire cosi» (Ibidem: 34-35); Quest’ultima dichiarazione spiega un’abitudine linguistica che, nel romanzo, è stata causa di malintesi.
Oltre al napoletano c’è anche il milanese del superbo professore Antonio Marini che ripete le parole di suo padre:
«E la madonna, dove l’è che sem? [...] Antonio, te ghe d’andà a Rôrna, lassa minga scapà l’ucasiun de laurà quand gh’è l’ucasiun, fieu! Laurà l’è pregà!» (ibidem: 71). D’altra parte, Marini dichiara espressamente il suo pregiudizio sui romani, partendo da una considerazione sul loro dialetto:
«La pigrizia è il cibo quotidiano dci romani. Basta ascoltare il dialetto che usano nelle loro conversazioni: si mangiano metà delle parole per pigrizia. Io mi arrabbio quando i miei colleghi romani dell’università mi chiamano Anto’, e rispondo innervosito: «Mi chiamo Antonio » (Ibidem: 74).
La replica a questo pregiudizio viene in seguito dal barista Sandro Dandini con il suo rornanesco esilarante:
«Amede’ è Amedeo. A Roma siamo abituati a cancellare le prime lettere o le medie o le finali dei nomi; io, ad esempio, mi chiarno Sandro perô il mio vero nome è Alessandro, mia sorella si chiarna Giuseppina ma noi la chiamiamo Giusy, mio nipote Giovanni tutti lo chiamano Gianni, mio figlio si chiama Filippo pero siamo tutti abituati a chiamarlo Pippo, e ci sono tanti altri esempi del genere» (Ibidem: 91).
Dalla scelta di usare vari idiomi si capisce che Amara Lakhous intende comunicare, attraverso la scrittura, con tutti i suoi lettori. La sua lingua, anzi le sue lingue sono sciolte, fluide, nonostante caratterizzino testi ibridi o ibridati, non producono testi pasticciati. E grazie a queste lingue, lo scrittore algerino, ormai multi o internazionale, è riuscito a raggiungere un vastissimo pubblico, composto da lettori di tanti Paesi del mondo. Perché Lakhous, tramite la lingua, è riuscito a creare opportunità di interculturalità.
La letteratura, in effetti, rappresenta un modo di comunicare, una modalità per entrare in relazione con la società ospitante, per avviare un confronto, un dialogo tra soggetti portatori di culture diverse, anche tramite lingue diverse. Laura Mancini afferma:
«Quella che Lakhous con tanto impegno ha composto è la lingua dell’altro, la cul defnizione ci viene da un bellissimo saggio di Derrida: ll monolinguismo dell’altro. A partire dall’assunto che la lingua non può mai essere in un rapporto di appartenenza o di identità con l’individuo che se ne serve, Derrida, attraverso una riflessione che procede per tasselli contraddittori e paradossali, afferma che la lingua che l’individuo parla non è mai la propria, ma è la lingua dell’altro. Giunge così a teorizzare lo stato di alienazione non alienazione come proprietà perduta per sempre (à jamais,) o di cui non ci si potrà riappropriare mai (jamais)» [10].
Laura Mancini aggiunge anche che il caso di Lakhous appare differente rispetto a quello di altri scrittori dell’immigrazione in Italia, che, usando l’italiano o le sue varianti regionali, desiderano avere vantaggi sociali o anche statali [11]. Invece con Lakhous, si nota che il valore del suo dialetto sembra più concretamente ascrivibile a una volontà di completezza sperimentale letteraria, tutt’altro che socialmente impegnata.
Concludendo sullo stile narrativo e linguistico di Amara Lakhous, si può affermare che il nostro scrittore, con le sue opere, ha basato la sua produzione sull’innovazione delle tecniche stilistiche utilizzando soprattutto il mistilinguismo e la varietà dei linguaggi. In ogni romanzo troviamo una struttura e un linguaggio differenti. In Un pirata piccolo piccolo, Lakhous ha fatto ricorso al monologo, scrivendo il testo in un arabo mescolato con la parlata algerina. Scontro di civiltà è un romanzo corale, o collettivo, in cui intervengono dodici diversissimi personaggi e ognuno di loro parla a modo suo e in una sua lingua. In Divorzio all’islamica, incontriamo due narratori di sesso diverso e di appartenenza diversa, un’egiziana che parla perfettamente l’italiano e un italiano che parla arabo-tunisino e l’italiano mischiato al siciliano. In Contesa per un maialino, Lakhous ritorna al racconto in prima persona di Enzo Laganà. Mentre in La zingarata della verginella, esistono due narratori, lo stesso Enzo Laganà e Patrizia, che raccontano parallelamente storie, in parte collegate, e che sono arricchite dal dialetto calabrese e dall’accento torinese.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] Amara Lakhous, Je suis un polygame linguistique 06/03/2013. Le site officiel d’Amara Lakhous,http//www.amaralakhous.com/.
[2] Citazione tradotta dal fiancese da Amara Lakhous: «En Italie, je suis l’unique romancier qui écrit en italien et qui réécrit ses oeuvres en arabe. Je pense être aussi un cas particulier en Algérie et dans le monde arabe. La question de la langue m’intéresse beaucoup. J’ai toujours vécu dans un pluralisme linguistique. Je ne peux donc pas vivre avec une seule langue. Un jour, aux Etats-Unis, j’ai dit que j’étais un polygame linguistique. Ils parlaient des Musulmans, et j ‘ai dit «voici an polygame, mais un polygame linguistique».
Amara Lakhous, Je suis un polygame linguistique!, 06/03/2013, Le site officiel d’Arnara Lakhous. http//www.amaralakhous.com/.
[3] Questo termine viene chiarito nel romanzo attraverso le spiegazioni di Safia e di Cristian, come nel seguente brano: «Il mio ex marito mi spiega che il muhallil è conforme alI’Islam. Questa parola deriva da halai e significa letteralmente: rendere lecito qualcosa. [...] Secondo il suo piano mi dovrei sposare con un altro rnusulmano e poi divorziare. Così potremo tomare di nuovo a essere marito e moglie».
[4] Amara Lakhous, Divorzio all ‘islamica a viale Marconi, e/o, Roma, 2010.
[5] Amara Lakhous, Contesa per un mailino italianissimo a San Salvario, E/O tascabili, Roma. Settembre 2014.
[6] Brano modificato estratto dalla recensione di Laura Mancini, La lingua di “Divorzio all’islamica a viale Marconi”, Test. Flaneri, 12 giugno 2011 http://www.edizionieo.it/review/1993/.
[7] Valentina Fedele, Amara Lakhous: Un piarata piccolo piccolo, edizioni e/o, Roma, 2011, http://www.sociologia.unical .i t/daedalusPDF23/8%20Fedele. pdf.
[8] Amara Lakhous in un’intervista con Rosella Clavari: Rosella Clavari, intervista/incontro con lo scrittore Amara Lakhous. Scritti d’Africa, wwv.scrittidafrica.it, 09 aprile 2010
[9] Andrea Groppaldi, La lingua della letteratura migrante: identità italiana e maghrebina nei romanzi di Amara Lakhous, © Italiano LinguaDue, n. 2, 2012,fi1e:///C:/Windows!system32/confi/svstemprofi]e/Down1oads/28 14-10575-1-PB%20(I ).pdf.
[10] Laura Mancini. La lingua di Divorzio all’islamica a viale Marconi’’, Flaneri, 12/06/2011, http://www.edizionieo.it/review/1993/.
[11] Laura Mancini: «L’uso dei dialetti oppure dell’italiano nella produzione narrativa degli altri scrittori apparsi nella scena letteraria italiana sembra spinto da volontà di impegni sociali o anche politici» (Ibidem).
Riferimenti bibliografici
Amara Lakhous, Je suis un polygame linguistique 06/03/2013. Le site officiel d’Amara Lakhous, http//www.amaralakhous.com/.
Amara Lakhous, Divorzio all‘islamica a viale Marconi, Roma, 2010.
Amara Lakhous, Contesa per un mailino italianissimo a San Salvario, E/O tascabili, Roma, 2014.
Valentina Fedele, Amara Lakhous: Un pirata piccolo piccolo, Edizione e/o, Roma 2011
Amara Lakhous in un’intervista con Rosella Clavari: Rosella Clavari, intervista/incontro con lo scrittore Amara Lakhous. Scritti d’Africa, wwv.scrittidafrica.it, 09 aprile 2010
Andrea Groppaldi, La lingua della letteratura migrante: identità italiana e maghrebina nei romanzi di Amara Lakhous, © Italiano LinguaDue, n. 2, 2012
Laura Mancini. La lingua di « Divorzio all’islamica a viale Marconi’’, Flaneri, 12/06/2011, http://www.edizionieo.it/review/1993/.
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Alaa Dabboussi, nato in Tunisia, dottore in lingua, letteratura e civiltà italiana, ha seguito un corso magistrale e ha ottenuto il master nel 2015 presso la Facoltà delle lettere e delle scienze umanistiche de La Manouba. Presso lo stesso Ateneo ha discusso nel 2021 la sua Tesi di dottorato. Insegna letteratura italiana all’Università di Cartagine e la sua ricerca scientifica si focalizza sullo studio della letteratura di frontiera e sugli scambi interculturali dell’area del Mediterraneo.
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