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Mitologie e ritualità nelle acque magiche dello Stretto

coverdi Orietta Sorgi

C’è un luogo in Sicilia che, più di ogni altro, sembra rivelare in modo pregnante alcune caratteristiche peculiari dell’insularità: la sua storia millenaria e la collocazione nel Mediterraneo, la complessa stratificazione culturale e la straordinaria permanenza del mito che dal mondo antico arriva ai nostri giorni. Che la Sicilia sia un esempio di storia cumulativa (Buttitta 2015), dove i diversi popoli, avvicendati nel tempo, non hanno cancellato il vecchio ma lo hanno assorbito in un processo di lenta sedimentazione, è un fatto ormai legittimato. E che la stessa sia considerata un’isola dominata dal sacro, è anch’esso un argomento riconosciuto da autorevoli studiosi a partire da Diodoro Siculo, quando ravvede l’origine della vita nella primigenia comparsa del grano ad Enna, da allora consacrata a Demetra e Kore; o quando accenna all’isola di Ortigia a Siracusa, ritenuta un dono divino ad Artemide, o, nello stesso luogo, alla ricca sorgente del Ciane in onore degli dèi.

Tuttavia lo stretto di Messina, in particolare, per la sua natura acquea che divide due spazi di terra e dunque per il suo porsi come spazio liminare di confine o frontiera, sembra maggiormente sussumere i caratteri dell’ibridismo e della contaminazione. Si tratta infatti di una “soglia”, snodo fondamentale per la navigazione che permette il collegamento fra le diverse rotte, ma, contestualmente, rappresenta un’interruzione pericolosa, un punto d’incontro fra il mare e la terra, dove facilmente possono originarsi fenomeni di corrente, gorghi e vortici che rendono impervio il passaggio.

Naufragio, ex voto, santuario Maria santissima di Capo d'Orlando, sec. XVIII

Naufragio, ex voto, santuario Maria santissima di Capo d’Orlando, sec. XVIII

Per esorcizzare i pericoli di questo difficile attraversamento sono sorti, in quel luogo, numerosi miti protettivi e leggende di fondazione. Ulisse, nelle sue peregrinazioni, rimase incantato dal canto mortifero delle Sirene, riuscendo, grazie alla sua astuzia, a superare quel difficile passaggio fra i due scogli abitati da Scilla, feroce e mostruosa, e da Cariddi, informe e vorace, un vero e proprio gorgo che inghiotte qualsiasi cosa. Se ne parla nel XII canto dell’Odissea quando la maga Circe illustra al viaggiatore i pericoli a cui andrà incontro nell’attraversare le rupi cozzanti dello stretto di Messina e delle Planctae. Come gli Argonauti che alla guida di Giasone, attraversarono con successo le rupi del Bosforo alla ricerca del vello d’oro. Rocce mobili collocate in prossimità degli stretti che si aprono e si chiudono sollevando onde altissime, fuori da ogni possibile controllo. Esse segnano l’irruzione del caos, una sfida all’ordine “naturale” delle cose, che divide la terra ferma dalle acque provocando una rottura fra la linea di superficie del mare e gli abissi venuti a galla, confondendo e mescolando l’orizzonte conosciuto con l’oscurità.

Fin dall’antichità ogni interruzione fra una terra e l’altra è stata dunque considerata una fonte di rischio e, per questo, richiedente l’intervento divino. Nell’immaginario degli uomini il mare è sempre stato caratterizzato da una forte ambivalenza: fonte di vita e conoscenza ma anche luogo foriero di morte. La profondità degli abissi marini rappresenta pertanto il rovescio della dimensione terrestre ma anche di quella celeste, il limite fra ciò che è conosciuto e ciò che rimane oscuro e indecifrabile. La navigazione è da un lato un’esperienza esplorativa e di sopravvivenza, dall’altro può essere intesa come una “prova”, spesso mortale, dal momento che solcare le acque non è mai un’impresa sicura. Non a caso l’Ulisse dantesco trova la morte per la sua stessa hibrys, quando osa sfidare gli dèi e attraversare le colonne d’Ercole dello stretto di Gibilterra, fino a quel momento ignoto agli umani.

Messina, La vara dell'Assunta (Archivio Russo, Muccio)

Messina, La vara dell’Assunta (Archivio Russo, Muccio)

Ma vi è un episodio, in particolare, che più di ogni altro riassume il carattere della prova ed è quello di Colapesce, il tuffatore mitico al pari di Teseo, figlio di Poseidone. Nella leggenda di fondazione riportata da Pitrè, l’eroe di Messina è chiamato da Federico II a sostenere una gara di abilità, tuffandosi nelle acque dello stretto alla ricerca dell’anello lanciato negli abissi dall’imperatore. Il giovane riemerge tante volte con successo, ma è costretto a ripetere l’impresa spinto dal sovrano che rinnova la sfida lanciando l’anello in fondali sempre più profondi. Fino a quando Colapesce, nella sua duplice dimensione terrestre e acquatica, non resterà negli abissi a sorreggere le colonne della Trinacria.

Su queste premesse si sviluppa la riflessione di Sergio Todesco, in una serie di saggi che hanno scandito, in varie occasioni, il suo percorso scientifico e che ora sono raccolti e riproposti nelle edizioni del Museo Pasqualino. Si tratta come il titolo avverte – L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni – di vari contributi che intendono esplorare il territorio ibleo-peloritano, riportandone alla luce quella dimensione simbolica e sacrale ancora estremamente viva, sotto la coltre della modernità. In primo luogo, la città di Messina, che oggi, secondo l’autore, è stata consegnata al terzo millennio nelle vesti di un “non luogo”, in realtà mantiene un livello sotterraneo ancora tutto da raccontare, uno spazio metaforico in cui il mito e la storia, traghettano l’un l’altro vicendevolmente.

Accade così che nel complesso e articolato pantheon cattolico e nel susseguirsi di riti e festività legate al territorio ibleo, nelle diverse cadenze stagionali, riappaia di volta in volta quel substrato mitologico del mondo greco e latino che il cristianesimo ha riplasmato sovrapponendosi con nuove figure storiche e analoghe funzioni. Pertanto, sotto la categoria della santità cristiana, emergono vicende agiografiche realmente vissute da uomini e donne che, a motivo di un’esistenza virtuosa o di azioni particolarmente edificanti, sono stati in qualche modo percepiti dalla comunità come eletti da Dio, intermediari fra il cielo e la terra, rappresentanti, come i numi dell’Olimpo, di un progetto salvifico sull’umanità.

Grazie a questi processi sincretici fra i culti pagani e quelli cristiani, Messina, per la sua posizione strategica, è stata collegata, fin dalle sue origini, ad eventi mitici primordiali avvenuti in illo tempore e da quel momento fondativi e garanti del divenire storico. Crono, il più giovane titano fra i figli di Urano, per castrare il padre gli lancia addosso il falchetto, che atterrando, ritaglia quell’ansa naturale dove oggi sorge il porto di Messina. Orione, accecato dal padre della fanciulla da lui violata, si ferma, dopo un lungo peregrinare, nell’area dello stretto, fondando il Capo Peloro.

Messina, i Giganti, 1902

Messina, i Giganti, 1902

Altri autori, in tempi più moderni, vollero collocare la nascita della città in un tempo metastorico garante delle epoche successive, appropriandosi delle vicende narrative di Ercole, Enea, Eolo fino al Medioevo cristiano con San Paolo e San Francesco di Paola, mentre, sul piano epico-cavalleresco re Artù e la fata Morgana, sua sorella, eletti al rango di eroi civilizzatori, progenitori mitici che hanno conferito una volta e per tutte identità culturale e memoria a quel sito. Ancora oggi, in virtù di questa commistione, la città festeggia la sua patrona, l’Assunta, rievocando l’episodio dei vangeli apocrifi della “Dormitio Virginis” ma, al tempo stesso, celebrando in processione i due giganti, Mata e Grifone, fondatori del capoluogo, discendenti, con ogni probabilità, dai resti dei ciclopi.  

Anche il culto di San Giacomo, largamente diffuso nel territorio dei Nebrodi, nei panni di garante della cristianità, viandante e pellegrino, traghettatore delle anime dei morti nell’aldilà, ma anche dei vivi in un viaggio verso la salvezza, rivela elementi precristiani. In virtù della sua vicenda esistenziale, il pellegrinaggio, elemento centrale del martirio, è talvolta rappresentato in salita come la scala di Giobbe, ma rivela stretti collegamenti con la via Lattea, formata dalle gocce di latte sparse dal seno di Era mentre allattava Eracle.

La devozione locale per San Nicola da Bari, martire proveniente dall’Oriente, è legata alla presenza di un liquido oleoso, la manna, che trasuda dal suo corpo, a cui si attribuiscono poteri benefici e taumaturgici. Venuto dal mare, il santo protegge i naviganti dalle tempeste e le sue celebrazioni, ricadenti il 6 dicembre, nel solstizio di inverno, si pongono in generale come vittoria sulla morte e momento di rifondazione del tempo e della vita. Un periodo dell’anno particolarmente incerto e precario perché legato all’arrivo dell’inverno e del freddo, dunque alla paura della fine imminente della natura e dei raccolti. Da qui il legame con i riti dell’antichità di matrice precristiana quali i Saturnali romani, nel loro significato trasgressivo di feste dell’opulenza e dell’eccesso, come il Carnevale, poste come condizione per una piena rigenerazione della vita. Non è senza significato che alle celebrazioni del santo siano ancora legati il tema dell’uccisione dell’animale sacrificale come capro espiatorio, vedi il caso di Roccavaldina, e lo scambio rituale dei doni, soprattutto dei panuzzi votivi.

Alcari Li Fusi, U Muzzuni (ph. G. Fiorentino)

Alcari Li Fusi, U Muzzuni (ph. G. Fiorentino)

Infine è da ricordare, a mò di ulteriore esempio, ma rimandando alla lettura dei testi per una casistica più approfondita, la festa del Muzzuni di San Giovanni ad Alcara Li Fusi, dove convergono elementi pagani sotto le apparenze della vicenda evangelica del Battista. A San Giovanni vengono attribuiti – com’è noto – poteri magici e divinatori: egli è colui che precorre gli eventi e i suoi movimenti nel grembo di Elisabetta le rivelano la nascita del Dio Salvatore, fino a quel momento avvolta nel mistero. D’altra parte il Muzzuni di Alcara Li Fusi – una brocca dal collo mozzato come la testa del Battista – ricoperta di ori e gioielli ed esposta all’aperto, rivela al contempo, i tratti arcaici di una serie di cerimonie agrarie di origine pagana.

In definitiva il lavoro di Todesco si muove parallelamente su due livelli: quello dell’essere e dell’immanenza, individuato nel substrato mitico, quale schema profondo a fondamento del concreto realizzarsi dei fenomeni in esame, che mostra, in ultima analisi, un’intima connessione con le antiche cosmologie agrarie del mondo precristiano. Si tratta di un’opera di scavo per riportare alla luce il peso di una lunga durata che incrocia necessariamente il livello del divenire, qui ricostruito scrupolosamente attraverso il susseguirsi dei processi storici delle singole comunità locali, grazie all’apporto di una ricca messe di documenti d’archivio talora inediti e poco conosciuti.

Infine – ulteriore merito del volume – un’attenta e dettagliata indagine etnografica delle principali feste religiose della provincia messinese, ancora estremamente vive e operanti, con tutto il dispiegarsi del tessuto organizzativo che viene messo in opera, dagli artefici, confraternite, clero e devoti ai manufatti, simulacri, fercoli e luminarie.

A questo si aggiunge, nell’ultima sezione, un resoconto puntuale delle più note maestranze e tradizioni artigianali dell’arte figurativa a carattere devozionale: stampe religiose, ex voto dipinti e anatomici in cera e argento, pitture su vetro. Un contributo importante e un ulteriore traguardo della collana promossa e diretta da Rosario Perricone, che nel ricordo del mai dimenticato Antonio Pasqualino, persegue con tenacia e ostinazione il compito di portare avanti il valore della tradizione nel segno del rinnovamento. 

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio
Note 
Buttitta, Antonino, 2015, L’isola di Ludovico, in Sorgi-Militello (a cura di), Gibellina e il Museo delle trame mediterranee. Storia e catalogo ragionato, Palermo, Assessorato Regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, edizioni CRICD: 42-46

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

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