C’è a Mazara una piazza che sembra proprio una terrazza sul mare africano, peraltro intravisto fra i rami dei sommacchi sottostanti che rendono gradevole per largo tratto il maestoso lungomare. Da questo splendido punto di osservazione, ma soltanto in determinate circostanze metereologiche, capita talvolta di scorgere, lontanissima, proprio quando l’occhio sogna come reale l’abbraccio delle acque e del cielo, la minuscola roccia azzurrina di Pantelleria, la figlia del vento, che fa esclamare alla gente del luogo: «si si viri Pantelleria veni a diri chi l’acqua è pi la via», cioè che sta per arrivare la pioggia.
Nella piazza, in posizione centrale, poco prima della grande scalinata che conduce sul lungomare, una strana inquietante fontana di bronzo cattura immediatamente l’attenzione del forestiero, mentre lascia del tutto indifferenti i mazaresi. È la fontana che sul finire degli anni Cinquanta del Novecento il concittadino Pietro Consagra, scultore già famoso sulla scena artistica internazionale, volle regalare alla città natale per significare l’emergere dagli abissi marini di quattro longilinee creature primitive chiamate dall’evoluzione della specie umana a dominare la terra. Purtroppo, quasi immediatamente dopo la solenne inaugurazione, non si riuscì a percepire il significato di quel messaggio di civiltà, né le autorità municipali negli anni successivi vollero o seppero valorizzare, come risarcimento estetico alle fatiche e ai dolori dell’esistenza, quel dono che nelle intenzioni legava la storia di Mazara al suo destino civile, sulle acque come sulle campagne. Incominciò così, nella città ingrata, a mancare l’acqua e la fontana prima si ammalò e poi incominciò a morire nonostante anche qualche flebo liquido distribuito da ignari giardinieri sulle quattro creature simboliche di bronzo, che proprio dal ritmo diversificato dell’acqua dicevano gioia, affetti, dolori e solitudine, a completamento della rappresentazione plastica distintamente assegnata a ciascuna statua dall’artista. Poco distante poi, in questo palinsesto di desolazione, la crescita dei rami degli alberi sottostanti del lungomare, impedì alla vista di osservare l’unione del cielo e del Mediterraneo, e l’effetto visivo immaginato e costruito da Consagra, per improvvida costante pigrizia, inopinatamente venne negato.
Ai giorni nostri questa piazza comunque presenta una singolare curiosità: è intitolata ad uno sconfitto della storia, ad Abd Allah Ibn Mankud detto Mokarta, Signore supremo di Mazara, Marsala, Trapani e Sciacca, vinto nel 1075 nella battaglia decisiva dal Conte Ruggero d’Altavilla. Una intitolazione, come si capisce, in contraddizione rispetto all’eterna prassi della damnatio memoriae degli sconfitti, un Mokarta morente, siccome vuole un’antica credenza, sotto le zampe del cavallo condotto dal Conte normanno. Proprio nelle vicinanze, sopra il portone d’ingresso della Cattedrale.
Ma in quello spazio urbano c’è anche qualche elemento che ci riporta a Ferrara e ci racconta una curiosità. A pochi giorni dalla tragica scomparsa nei cieli di Tobruk di Italo Balbo (e vive ancora qualche militare mazarese testimone del controverso episodio bellico) il Podestà volle intitolare la piazza (delibera n. 168 del 13 luglio 1940) allo scomparso Governatore della Libia che veniva talvolta a Mazara ad intrattenersi con amici. L’iniziativa però ebbe una vita effimera perché, dopo l’arrivo degli anglo-americani, i nuovi amministratori si premurarono di cancellare le tracce dell’episodio, revocando, nel 1944, la delibera podestarile e intitolando invece la piazza al Mokarta ritenuto, chissà perché, più democratico di Balbo. Mistero dei convulsi trapassi storici e politici.
Tuttavia, in una città che dava l’assalto ai mulini e ai forni perché stremata dall’indigenza, la esecuzione della nuova delibera non fu per nulla agevole per indisponibilità di risorse finanziarie. Però qualche saggio amministratore proveniente dalla democrazia pre-fascista ebbe pronta una soluzione: rivoltare la lapide ed utilizzare il verso ancora immacolato, come in quel torno di tempo del resto avveniva per le giacche e i cappotti poi rivoltati. Restava qualche perplessità ma alla fine la tenacia antifascista e la parsimonia dei pubblici amministratori di quei tempi ebbero la meglio su ogni disquisizione di natura storiografica. Si dimenticò però un elemento dissacratore che la sorte, nelle terre pirandelliane, alimenta con i suoi connotati beffardi.
Un bel giorno infatti – erano passati alcuni anni – il proprietario del palazzo su cui la targa era stata collocata decise di procedere al restauro della facciata e di affidare temporaneamente la targa al gestore del sottostante distributore di benzina, collocato in prossimità di un famoso circolo cittadino. Accadde allora l’imprevisto. Al termine dei lavori di restauro il povero muratore, che nulla sapeva di lettere dell’alfabeto, forse dietro suggerimento malizioso e nostalgico, collocò la lapide in un senso allora politicamente scorretto, cioè mostrando il nome del Maresciallo dell’aria, Italo Balbo, (con tanto di fascio littorio ) e non più quello del saraceno sconfitto[1] .
Avvenne allora una scena che sembrava uscita dalle penne di Brancati o di Flaiano o di Longanesi o di Savinio oppure di Sciascia: la gente, radunatasi ben presto sotto la lapide, fu portata a credere che l’Amministrazione comunale socialcomunista, in segno di pacificazione cittadina, avesse avviato un cauto processo di revisionismo storico su due personaggi lontani nel tempo e nell’esercizio del potere politico-amministrativo. In fondo, argomentava qualcuno, il saraceno con quali pertinenti argomentazioni poteva essere definito prossimo alle idee democratiche rispetto a Italo Balbo, certamente organizzatore dei fasci ferraresi, squadrista della prima ora, quadrumviro della Marcia su Roma del 1922, ma anche aviatore comandante di due trasvolate atlantiche, Governatore generale della Libia ed infine, secondo la ricostruzione biografica puntuale di Claudio G. Segrè, frondista germanofobo e protettore degli ebrei?[2].
Comunque l’intervento immediato dell’Amministrazione locale smentì ogni ipotesi di revisionismo storico e pertanto Mokarta si riappropriò della titolarità toponomastica ed inoltre, senza obiezioni di natura etnica o religiosa, perfino del nome del circolo cittadino frequentato dai maggiorenti mazaresi. Non senza qualche episodico intermezzo balbiano, forse suscitato da qualche irriducibile nostalgico del regime politico appena defunto. Infatti, asserisce ancora qualcuno, per fare un giocoso dispetto ad avversari di contrario avviso politico, nelle lunghe notti di freddo invernale, quando un vento bagnato penetrava da tutte le parti nella piazza, c’era ancora chi, negli anni ’60 del Novecento, si divertiva per qualche minuto a rivoltare la lapide ballerina, quasi a significare la caducità di tanti episodi della Storia. Dal recto al verso della lapide, come il diffuso atavico scetticismo a Mazara comanda. Ieri come allora.
Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Note
1 Del resto ancora oggi la via intitolata a Daniele Ajello, che dal convento di S. Francesco scende verso via G.G. Adria, non reca il simbolo del fascio con l’indicazione dell’anno quinto dell’Era Fascista?
2 Nel Consiglio dei Ministri, com’è noto fu l’unico a votare contro le leggi sulle discriminazioni razziali