di Antonello Ricci
In occasione della scomparsa inaspettata di Nicodemo Librandi, noto imprenditore calabrese del vino di Cirò, ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa che lo ricordasse dal mio punto di vista di antropologo ed ex musicista, per via della pluridecennale amicizia e della reciproca stima che ha caratterizzato il nostro rapporto. Nicodemo è venuto a mancare il 31 agosto 2023 per un improvviso aggravarsi della malattia che lo aveva colpito: aveva settantotto anni. In questo articolo alternerò ricordi personali, rievocazioni di episodi della nostra collaborazione e riflessioni sulla cultura del vino, sulla musica di tradizione orale e su quanto ho potuto percepire del suo legame con il mondo contadino del quale si vantava di essere parte [1].
Ho incontrato Nicodemo Librandi per l’ultima volta il 16 agosto 2023 nell’accogliente studio della sua azienda. Gli avevo portato un mio libro sulla cultura musicale dell’area grecanica in provincia di Reggio Calabria (Morello, Ricci 2018) che lui aveva esplorato nel corso delle sue ricerche sui vitigni autoctoni e sui palmenti di pietra di Ferruzzano (Sculli 2002).
Qualche giorno prima, durante un colloquio riguardante un evento che avrebbe voluto realizzare a fine settembre in occasione della “Festa della vendemmia”, mi disse che era sua intenzione riprendere il nostro discorso sulla cultura musicale tradizionale alla ricerca dei legami fra musica e vino nell’orizzonte del mondo contadino calabrese. Ripercorremmo alcune considerazioni su cui ci eravamo già confrontati e intesi.
Non si conoscono espliciti collegamenti fra la viticultura e qualche specifico repertorio musicale, anzi i lavori della vigna sembrano essere i meno presenti nei racconti e nelle testimonianze del mondo contadino, dove, al contrario, si ricordano e si evidenziano con ricorrenza i lavori agricoli dei cereali, del grano soprattutto, come contesti entro cui si faceva musica suonata e cantata. La vendemmia non vi sembra contemplata, nonostante i riferimenti alla cultura classica evidenzino un esplicito collegamento fra la trasformazione dell’uva in vino e il mito dionisiaco le cui forme rituali erano caratterizzate da suoni e danze. Nei repertori presenti nelle raccolte di canti popolari legate ai nomi di Giuseppe Pitrè e Raffaele Lombardi Satriani, invece, si trovano esempi di testi di canzoni che rinviano alla mietitura, alla trebbiatura, alla spannocchiatura, alla filatura, alla tessitura e via dicendo.
Tuttavia l’ideologia del mondo contadino attribuisce virtù benefiche e salutari al vino. Ho sentito più volte nella mia esperienza di ricerca sul campo, soprattutto in Calabria, l’affermazione che l’acqua fa la muffa, fa gonfiare la pancia, inumidisce il corpo e lo fa ammalare, invece il vino tonifica e mantiene sano l’apparato digerente. L’accoglienza contadina non prevede la mescita di acqua, ma di vino, e il bicchiere non viene mai rabboccato e si attende che sia completamente vuoto per essere nuovamente riempito. Il vino che cade accidentalmente sulla tavola si saluta con espressioni di propiziazione, come se fosse un’offerta, una libagione, e a volte si inumidisce la punta delle dita e ci si cosparge la fronte e la nuca, come una benedizione.
La sacralizzazione del vino, in quanto sostituto simbolico del sangue di Cristo, nella cultura contadina, è stata ampiamente attestata da Lombardi Satriani (2000). Il legame fra musica e vino è a volte esplicito, come nelle affermazioni che sottolineano la virtù coadiuvante del vino per le buone esecuzioni cantate e strumentali. Ripetutamente i suonatori e i cantori reclamano la mescita del vino durante le loro esecuzioni, adducendo la secchezza della gola a causa del cantare o del suonare uno strumento a fiato impegnativo come la zampogna. L’assunzione di vino, però, non è mai pensata in termini di perdita del controllo e della coscienza che determinerebbero la caduta della qualità musicale e del dominio delle azioni, comportamento sempre vituperato.
Eravamo dunque d’accordo a non cercare improbabili accostamenti didascalici fra il vino e le espressioni musicali tradizionali. Mi spiegò come intendeva organizzare la giornata che, ci tenne a precisare, sarebbe stata a inviti selezionati. Da un po’ di anni le attività culturali della sua azienda si erano spostate dalla “Casedda”, nella sede di Cirò Marina – una costruzione in stile rurale adibita a incontri e conferenze, poi trasformata in luogo di accoglienza per la vendita – alla tenuta Rosaneti, una splendida proprietà tra i comuni di Casabona e Rocca di Neto con alcune costruzioni rurali tra cui un casino di campagna con annesso palmento per la pigiatura dell’uva, oggi ampiamente ristrutturato e musealizzato. Proprio nel palmento Nicodemo avrebbe voluto collocare la prima parte dell’evento, proponendo una pigiatura coi piedi accompagnata da alcuni interventi musicali.
Bisognerebbe far emergere il legame fra la musica e la vendemmia, mi diceva. Certo non si riferiva a qualche canzone folk a tema vinicolo, al contrario stava pensando al fatto che durante i lavori agricoli, come già ricordato, i contadini hanno sempre cantato e suonato, cioè lo stare insieme in campagna dava vita a una condivisione di momenti ludici e di impegno lavorativo. Egli aveva fatta sua l’idea che i contadini che fanno musica e cantano non sono dei cantautori che compongono una canzone a tema, cioè non c’è un canto per la vendemmia, uno per la semina, uno per la mietitura da eseguire nei momenti opportuni. In tutte queste occasioni lavorative però i contadini cantavano e suonavano perché faceva parte di un loro stile culturale di comportamento. Ma anche perché, in molti casi, la musica e il ritmo funzionano da coadiutori del gesto lavorativo, hanno una funzione euritmica per alleviare la fatica e la noia ripetitiva dei lavori nei campi.
L’espressività musicale di tradizione orale è anche una modalità comunicativa che serve a trasmettere contenuti spesso impossibili da veicolare in altra forma che non sia metaforizzata mediante i versi cantati. Nei racconti soprattutto delle contadine ricorrono di frequente episodi in cui una relazione amorosa, altrimenti disapprovata, è ritenuta lecita se comunicata in forma di canto a botta e risposta fra i due amanti. La formalizzazione verbale e musicale rende possibile la trasmissione dei sentimenti, anche perché i versi dei canti non sono mai espliciti, ma metaforici e costruiti su schemi letterari preesistenti e di volta in volta adattati alla realtà del momento (Ricci, Tucci 1997).
Tra le virtù attribuite al vino, prima ricordate, c’è anche quella di ammorbidire e rendere elastica la pelle di alcuni strumenti musicali. Gli descrissi la scena di apertura del film Suono di famiglia contenuto nel volume che gli avevo portato: un vecchio tamburello viene rianimato bagnando la pelle con il vino. Immaginando la scena i suoi occhi cerulei si illuminarono. Aggiunsi che altri strumenti musicali popolari hanno bisogno di essere inumiditi per suonare bene, come le zampogne il cui otre viene tenuto morbido soffiandovi dentro del vino. Eravamo entrati in sintonia.
Lo stesso contatto intellettuale si manifestò in preparazione dell’edizione del 2001 di “Cantine aperte”. Gli parlai delle botti e delle falci usate come strumenti musicali in alcune occasioni festive (Rossi, De Simone 1977: 65-71), a cui quella volta si sarebbero aggiunti damigiane nude, scale di legno a pioli, zappe e vanghe e altri attrezzi agricoli. Si entusiasmò all’idea, e così i piazzali davanti alla “Casedda” e alla cantina divennero il set di una performance percussiva che due musicisti misero in atto trasformando gli attrezzi da lavoro in strumenti sonori. Poi, un flauto di canna guidò i visitatori attraverso i locali di produzione e stoccaggio del vino, fino al palco collocato davanti ad alcuni enormi contenitori di acciaio che risuonarono in sintonia con gli strumenti musicali popolari durante il concerto del gruppo Xicrò con cui si concluse l’evento.
Ci furono tante altre occasioni di incontro e di stretta intesa. La serata inaugurale della “Casedda”, come luogo di appuntamenti culturali, per la quale decidemmo una conferenza-concerto su musica e strumenti musicali tradizionali calabresi. Ci fu anche una puntata della trasmissione televisiva “Linea verde” che si svolse tra i filari della tenuta Rosaneti a partire dall’impianto sperimentale a spirale che ricorda un labirinto, vera e propria arca dei vitigni autoctoni della regione. Per quella occasione egli volle evidenziare il rapporto fra musica, mito e vino con il suono dei flauti di canna pastorali.
Sto ricordando tutto questo per ripensare alla figura di Nicodemo Librandi, imprenditore dallo stile di lavoro unico, non soltanto in Calabria. Aveva inventato una modalità imprenditoriale pionieristica e profetica, di tipo umanistico. Se guardiamo allo scenario odierno nel quale è usuale, e spesso anche fuori luogo e un po’ posticcio, il continuo richiamarsi a radici e tradizioni locali in una forma retorica e priva di spessore storico e culturale, il ruolo di Nicodemo è stato quello di un apripista, un capostipite indiscusso di una nuova stagione dell’imprenditoria agricola contemporanea, non solo calabrese, dalle radici antiche. Ricordo con quanto orgoglio mi parlò del corpo di vignaioli cirotani di cui disponeva per le sue vigne, tutte persone selezionate esclusivamente sulla base delle competenze e dei saperi locali maturati su una reale esperienza di lavoro della terra. A loro aveva dedicato un libro (Squillace 2015) fotografandoli nel contesto lavorativo, dove i saperi agricoli si esprimono con i gesti e con gli atteggiamenti dei corpi.
Il solco più incisivo è stato quello del cosiddetto “Patto Librandi”, come Nicodemo battezzò un protocollo lavorativo diretto a un certo numero di viticoltori riuniti allo scopo di orientare nella giusta direzione la modernizzazione della viticultura e della vinificazione tradizionale cirotana. Con lo stesso orgoglio sottolineava anche il rapporto economico-contrattuale con i suoi dipendenti, una vera e propria aristocrazia di maestranze che facevano a gara per poter entrare nel giro dell’azienda. Ne ho avuto conferma direttamente da alcuni di loro con i quali sono entrato in contatto per i lavori a una mia piccola vigna di eredità paterna.
La forza imprenditoriale di Nicodemo Librandi non è derivata soltanto dalla dimostrata capacità di penetrazione in un comparto economico-produttivo, come quello della vinificazione italiana, fortemente prevenuta verso le proposte provenienti dal Sud. Sottolineava spesso la difficoltà incontrata a superare il pregiudizio verso i vini meridionali, il cui gusto era definito, in maniera sminuente, con l’aggettivo “vernacolare” e perciò inadatti a superare i confini di un apprezzamento locale o al massimo regionale. A mio avviso, la sua principale leva di forza è stata la spinta verso la ricerca e lo studio partendo dalla consapevole acquisizione di conoscenze di ciò che esiste o è esistito in un determinato territorio, con l’aggiunta della più volte ribadita consapevolezza del vantaggio climatico di cui godono le coltivazioni meridionali e che consente ai viticoltori una maggiore possibilità di adattamento delle coltivazioni ai tempi stagionali e alla geomorfologia dei luoghi.
Il suo progetto di ricerca – ne parlammo tante volte, a più riprese – aveva molti tratti in comune con un approccio etnografico, vale a dire con una conoscenza profonda e dettagliata della realtà a cui si vuole prestare attenzione. L’esempio più evidente è costituito dalla sua indagine sui vitigni autoctoni della Calabria (Il gaglioppo e i suoi fratelli 2009), condotta fra il 2001 e il 2002, dando luogo a un thesaurus della biodiversità della vite nella regione, oggi custodito in maniera viva nell’impianto di Rosaneti. Si trattò di una vera e propria ricerca sul campo volta a individuare luoghi e persone e a indagare sui vitigni, sulla qualità dei suoli per disegnare una ricca e culturalmente densa mappatura della biodiversità viticola calabrese.
Un approccio scientifico, attento alle conoscenze della ricerca in ambito accademico, come dimostrano i contatti da lui avuti con scienziati del comparto viticolo ed enologico nazionale, è stato con continuità modellato dall’approccio umanistico a cui ho fatto cenno: vale a dire la consapevolezza che i vantaggi del nuovo emersi dalla ricerca scientifica si devono innestare e germogliare nel tronco antico della storia del territorio. Il suo interesse per le testimonianze archeologiche del mondo magno-greco non è stato mai proposto nella consueta maniera acritica che immagina il vino dei contadini di oggi come lo stesso offerto agli atleti dell’antichità. Al contrario, le evidenze classiche, le tracce del mondo popolare, la cultura contadina contemporanea hanno costituito la base su cui modellare il futuro della produzione vinicola calabrese. Tutto questo è confluito nel Dottorato Honoris Causa in Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali che gli è stato conferito il 12 maggio 2023 dall’Università Mediterranea di Reggio Calabria, sulla cui pagina internet è possibile leggere le motivazioni e ascoltare la Lectio Magistralis da lui tenuta [2].
Ritornando alla musica. Man mano che lo conoscevo, la figura di Nicodemo Librandi mi ricordava quella del grande compositore ed etnomusicologo ungherese Béla Bartók il quale, a partire dalle conoscenze acquisite con la sua ricerca etnografica sulla musica popolare dell’Est Europa (Bartók 1977), diede vita a una delle più feconde e originali esperienze di composizione musicale del ‘900. Dai canti e dalle melodie sentite e registrate dalla viva voce dei contadini ungheresi egli seppe estrarre i modelli compositivi, gli stili esecutivi, le caratteristiche generative del fare musica di quel mondo popolare, riproponendole attraverso la creatività delle proprie composizioni. Nello stesso modo Nicodemo Librandi ha operato sulla coltivazione della vite e sulla produzione del vino, dando vita a una delle più innovative realtà produttive che oggi il territorio calabrese può vantare. Ebbi modo di rappresentarglielo in più occasioni e questo è stato, probabilmente, uno dei motivi della nostra continuativa intesa amicale e culturale, alla ricerca dei molteplici nessi fra la musica e il vino.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] Una prima versione di questo scritto dal titolo Nicodemo Librandi – Ricordi tra musica e vino è stata pubblicata su “Il Quotidiano del Sud”, 4 settembre 2023. Per questa pubblicazione il testo è stato rivisto, ampliato e integrato.
[2]https://www.digies.unirc.it/articoli/27175/conferito-il-dottorato-hc-in-scienze-agrarie-alimentari-e-forestali-a-nicodemo-librandi. Nella pagina web sono riportati tutti gli esiti pubblicati delle ricerche vitivinicole di Nicodemo Librandi.
Riferimenti bibliografici
Autori Vari
2009, Il gaglioppo e i suoi fratelli. I vitigni autoctoni calabresi, Tecniche Nuove, Milano.
Bartók Béla
1977, Scritti sulla musica popolare, a cura di D. Carpitella, Boringhieri, Torino.
Lombardi Satriani Luigi M.
2000, De sanguine, Meltemi, Roma.
Morello Mimmo, Ricci Antonello
2018, Suono di famiglia. Memoria e musica in un paese della Calabria grecanica, Nota, Udine, con CD e DVD.
Ricci Antonello, Tucci Roberta
1997, I “Canti” di Raffaele Lombardi Satriani. La poesia cantata nella tradizione popolare calabrese, Prefazione di Luigi M. Lombardi Satriani, AMA Calabria, Lamezia Terme, con due CD.
Rossi Annabella, De Simone Roberto
1977, Carnevale si chiamava Vincenzo, De Luca, Roma.
Sculli Orlando
2002, I palmenti di Ferruzzano. Archeologia del vino e testimonianze di cultura materiale in un territorio della Calabria Meridionale, Edizioni Palazzo Spinelli, Firenze.
Squillace Virgilio
2015, I vignaioli del Cirò. Voci e volti di una storia, Rubbettino, Soveria Mannelli.
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Antonello Ricci, professore ordinario di Discipline DemoEtnoAntropologiche presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo (SARAS), “Sapienza” Università di Roma, dove presiede il corso di laurea magistrale in Discipline EtnoAntropologiche. Conduce ricerche sul campo nell’Italia centrale e meridionale sui temi delle culture pastorali, dell’ascolto, della museografia e dei beni culturali DEA, della antropologia visiva e della festa. Tra le sue pubblicazioni: Sguardi lontani. Fotografia ed etnografia nella prima metà del Novecento, Milano, 2022; cura di L’eredità rivisitata. Storie di un’antropologia in stile italiano, Roma, 2020; Suono di famiglia. Memoria e musica in un paese della Calabria grecanica (con M. Morello) Udine, 2018; Il secondo senso. Per un’antropologia dell’ascolto, Milano, 2016; I suoni e lo sguardo. Etnografia visiva e musica popolare nell’Italia centrale e meridionale, Milano, 2007.
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