Stampa Articolo

Montagna per tutti?

overtourism-e1716807775146di Chiara Dallavalle 

Di recente ho letto con molto interesse l’articolo di Irene Borgna “Il primo passo” sul numero di luglio 2024 della Rivista del CAI, in cui si pone una questione cruciale: fino a che punto vogliamo spingere la colonizzazione della montagna? Ormai lo spazio montano è stato completamente appropriato, seguendo la logica secondo cui anche le aree più recondite e selvagge vanno rese fruibili a tutti. La montagna deve essere accessibile in toto, a qualunque altitudine, in qualunque periodo dell’anno, e da parte di qualunque tipo di turista.

Se l’assenza di neve pregiudica il turismo invernale classico, basato prevalentemente sullo sci, allora la montagna può essere sfruttata attraverso la creazione di percorsi per le mountain bike, tracce per l’arrampicata, sentieri escursionistici accessibili anche in pieno inverno. Se alcune vette potrebbero rimanere irraggiungibili ai profani dell’alpinismo, che problema c’è? Si costruiscono enormi cabinovie che trasportano centinaia di persone sul tetto delle Alpi in pochi minuti. Insomma, per dirla con le parole di Irene Borgna, la montagna è ormai diventata no limits (Borgna: 2024), in cui nessuno è disposto a rinunciare a nulla, pur di poter godere di un’esperienza adrenalinica e farsi un selfie dicendo “C’ero anche io!”.

La scomparsa totale del senso del limite quando ci si accosta agli spazi naturali si intreccia in modo preoccupante con il recente fenomeno dell’overtourism, un concetto che sta guadagnando spazio negli studi socio-antropologici. Il termine descrive la crescita eccessiva di visitatori in determinate destinazioni turistiche, tale renderle estremamente sovraffollate e con conseguenti impatti negativi sui residenti, sia in termini economici che sociali (Milano, Novelli and Cheer 2019). Inoltre, sempre più spesso gli effetti negativi dell’overtourism riguardano anche i costi ambientali dell’eccessiva antropizzazione della montagna.

Proteste delle popolazioni delle Canarie

Proteste delle popolazioni delle Canarie

Le infrastrutture necessarie per ricevere costantemente flussi ingenti di persone vanno spesso a deturpare dal punto di vista paesaggistico ed ecologico porzioni di territorio totalmente inadatte per gli arrivi di massa. L’overtourism sta portando in alcuni territori a vere e proprie ribellioni da parte dei locali, che si dichiarano stremati dall’assalto di orde di turisti. È ad esempio il caso delle Isole Canarie, i cui abitanti nei mesi scorsi sono scesi in piazza per chiedere di mettere un tetto agli accessi turistici (Deiana 2024). Anche in Italia si iniziano a scorgere gli effetti negativi di un turismo che inizia a depauperare le aree più gettonate, come nel caso di molte città d’arte, di zone di mare come il Salento e dello stesso Trentino.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Il turismo tutto sommato è un fenomeno relativamente recente, innescato dall’innalzamento del benessere medio dei Paesi Industrializzati, che ha consentito ai propri cittadini di concepire per la prima volta il viaggio come forma di svago. La mobilità è sempre stata un tratto distintivo dell’essere umano, ma fino ai primi decenni del ventesimo secolo ci si spostava essenzialmente per necessità. Le persone abbandonavano la propria terra spinti dalla povertà, dal desiderio di conoscere e abitare nuovi territori, oppure per migliorare la propria posizione economica. Si trattava di una mobilità dilatata nel tempo: le persone non si spostavano per poche settimane, ma quasi sempre per periodi di tempo molto lunghi, a volte anni interi, spesso per tutta la vita.

Pochi erano coloro che si potevano permettere di viaggiare per il puro piacere del viaggio in sé stesso. I famosi viaggi di formazione che i giovani rampolli della nobiltà europea si concessero a partire dal XVIII secolo erano riservati agli appartenenti ad un’élite economica e culturale. Il cosiddetto Grand Tour, in cui i viaggiatori avevano l’occasione di aumentare la propria conoscenza in ambito artistico, culturale e storico facendo un vero e proprio viaggio di istruzione, può essere considerato l’antenato del nostro turismo di massa ma rimaneva riservato a persone con una solida posizione economica che garantiva loro le risorse finanziarie necessarie per trascorrere lunghi periodi lontani da casa.

turismo-massa-usura-mondo-libroIl turismo in senso moderno nasce proprio quando questa disponibilità economica diventa diffusa. Per come lo intendiamo oggi si caratterizza come uno spostamento circoscritto nel tempo, solitamente l’estate, finalizzato a fare un’esperienza gratificante in un luogo diverso da quello della propria residenza abituale. Il sociologo Rodolphe Christin, nel suo interessante libro Turismo di massa e usura del mondo, sottolinea il fatto che tutti noi, nati a partire dagli anni ’60, siamo cresciuti con il mito del turismo. Per chiunque di noi non potersi concedere una vacanza, farsi un fine settimana fuori porta, trascorrere qualche giorno al mare o in montagna durante le proprie ferie, è vissuto come un’enorme privazione. Viaggiare è diventata un’attività determinante per la nostra felicità. Tuttavia, quello che noi percepiamo come un bisogno essenziale “naturale” è in realtà un prodotto culturale, indotto dal modello consumistico in cui siamo più o meno consapevolmente immersi. Secondo Christin il desiderio di conoscere qualcosa di “altro” dalla nostra vita quotidiana è stato sapientemente trasformato in una vera e propria industria: il turismo di massa. L’industria turistica ha mercificato i luoghi attraenti del pianeta, nutrendosi del nostro desiderio di evasione:

«Ormai è di moda decantare senza sosta le virtù della deterritorializzazione e del cambiamento permanente. Ad alimentare questa frenesia motoria è arrivato anche il turismo, che agli inizi ha persino assunto le vesti di una falsa emancipazione (le ferie retribuite, che come molti altri progressi sociali hanno contribuito a rendere accettabile il capitalismo). Se vogliamo definirne l’idealtipo, l’individuo ipermoderno è privo di radici; è un «nomade» senza territorio, tecnologicamente connesso e affettivamente solo; è un’entità intercambiabile ed erratica dalla composizione fluida, spinto, anzi costretto, alla mobilità dall’insoddisfazione ma anche dai suoi appetiti» (Christin 2019:10).

Il luogo che noi nuovi nomadi scegliamo di visitare (o consumare) diventa allora il luogo in cui vogliamo, o speriamo di fare un’esperienza unica. Siamo alla ricerca costante di bellezza e di emozioni, e il turismo di massa ci spinge verso location spesso costruite ad hoc per rispondere a questi bisogni.

Per tornare alle nostre montagne, il turismo di massa le ha già in parte trasformate in enormi parchi divertimento, in cui il turista può fare trekking, canyoning, ciclo turismo, hiking, bird wathing e via dicendo. Esperienze forti, appaganti, veicolate dagli operatori turistici, che hanno modellato il territorio su misura del turista. L’indotto è enorme. Piste da sci, faraonici impianti di risalita, rifugi in quota accessibili a tutti, boschi e prati pronti ad ospitare le nostre scampagnate con figli e cane. Tutto ormai in montagna è molto domestico e rassicurante. L’imprevisto, il rischio, il pericolo sono stati completamente cancellati dal nostro immaginario. Ecco perché quando crolla un pezzo del ghiacciaio della Marmolada travolgendo 11 persone, quando un escursionista viene aggredito da un animale selvatico, quando degli incauti ragazzi sono trascinati via da un fiume in piena, la nostra reazione è lo shock unito all’immediato avvio della ricerca del responsabile umano.

9788862744911_0_424_0_75Un’altra montagna rispetto a quella che mi è stata insegnata dai miei nonni, dove devi stare attento perché se ti siedi su un masso potrebbe spuntare una vipera. E dove ti devi sempre portare l’equipaggiamento giusto perché può arrivare un temporale improvviso e sopra una certa quota la temperatura calerà bruscamente anche in piena estate. E devi essere in grado di leggere i segnali che indicano il sentiero, perché perdersi è facile e la sera scende rapidamente. Devi scegliere con attenzione dove appoggi i piedi perché potresti scivolare. E se non sei certa di trovare dell’acqua portane con te perché non si sa mai. E così via, una lista infinita di insegnamenti che mi hanno aiutato a stabilire una relazione diretta, senza morale, con la montagna. Un luogo che, è vero, ci regala grandi emozioni, ma che non va mai misurata con il metro umano, che tende a semplificare classificando qualsiasi esperienza in buona e cattiva. La montagna sa essere splendida ma anche inospitale e terrificante, come lo sono tutte le manifestazioni naturali in generale.

Sfortunatamente questa dimensione, quella del rischio e del pericolo, è proprio ciò che gli artefici del turismo a tutti i costi vogliono allontanare il più possibile dalle menti dei villeggianti. Ne segue che sempre più spesso arrivano in montagna persone impreparate a quell’ambiente: persone che salgono in quota in infradito, oppure imboccano sentieri senza aver prima valutato la propria preparazione, che si perdono e talvolta diventano, purtroppo, anche vittime inconsapevoli di incidenti mortali. Sempre più spesso il soccorso alpino viene chiamato ad effettuare salvataggi che si sarebbero potuti evitare, se gli escursionisti fossero stati preparati all’ambiente a cui si stavano accostando. I difensori del turismo di massa in montagna ribattono che la presenza massiccia di persone è positiva perché porta benessere economico anche alle comunità locali e rivitalizza economie che altrimenti languirebbero. È veramente così? Al contrario, come già avviene in molte città italiane ed europee, la sovraesposizione turistica sempre più spesso rende invivibile il proprio territorio ai locali, facendo lievitare i costi degli immobili e in generale aumentando il costo della vita, oltre a lasciare scie di rifiuti prodotti dalla maleducazione dei visitatori.

Rifiuti ad alta quota

Rifiuti ad alta quota

Ritorno allora alla domanda iniziale: la montagna deve necessariamente essere per tutti, a tutti i costi?  A mio parere la risposta sta nella ricerca di una relazione più lenta, meno mordi-e-fuggi, con le terre alte. Il turismo è indubbiamente una risorsa per le economie montane, ma solo quando entra in punta dei piedi in questi territori. In chiusura riprendo ancora le parole di Irene Borgna, quando afferma la necessità di darsi nuovamente un limite, di smettere di alzare l’asticella nello sfruttamento delle montagne, e provare invece a fare un passo indietro. Può essere un limite posto da norme e leggi, quando si incontrano amministrazioni locali particolarmente lungimiranti. Ma può essere anche un limite che ciascuno decide di darsi, attraverso forme di rinunce personali, accettando di non voler a tutti costi fare tutto, ovunque e in qualunque momento. Forse il turismo può diventare una risorsa per le comunità locali quando sì fa turismo diffuso, un turismo a misura d’uomo (ma anche di flora e fauna), che privilegia un dialogo con la montagna più silenzioso e meno arrogante. Un turismo lento, sostenibile, rispettoso degli ecosistemi, che dialoga con i residenti, che contribuisce a stabilire reti di prossimità, forse può essere la strada per rigenerare quel che resta delle nostre montagne.

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Riferimenti bibliografici
Borgna I. 2024, Il primo passo., in La Rivista del Club Alpino Italiano, luglio 2024,186-187.
Breda, N. 2013, La montagna vista dalla pianura. Implicazioni per la montagna, per la pianura e per l’antropologia, in Bonato L. e Viazzo P.P. (a cura di) 2013, Antropologia e beni culturali nelle Alpi. Studiare, valorizzare, restituire, Edizioni dell’Orso, Alessandria.
Christin, R. 2019, Turismo di massa e usura del mondo, Eleuthera Milano.
Deiana, S.D. 2024, Alle isole Canarie, più di 50mila abitanti protestano contro il turismo di massa, https://www.lifegate.it/canarie-turismo-proteste
Milano C., Novelli, M. Cheer, J. 2019, Overtourism and Tourismphobia: A Journey Through Four Decades of Tourism Development, Planning and Local Concerns, in Aa,Vv. 2019, Tourism, Planning and Development, 16: 353-357, DOI:10.1080/21568316.2019.1599604

 _____________________________________________________________

Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.

______________________________________________________________

 

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>