Montalbano e il Mediterraneo
Nato quasi per caso, almeno stando alle dichiarazioni del suo autore, il commissario Montalbano acquista via via un crescente spessore che lo differenzia in maniera sensibile dai modelli che inizialmente ne avevano ispirato la figura.
Come afferma lo stesso Andrea Camilleri, «ho cominciato a scrivere dei libri gialli per darmi una sorta di ordine, per avere una gabbia solida in cui imbrigliare il racconto. [...] Poi ho visto che funzionava e ho trattato Montalbano come un personaggio in progress, che si modifica di libro in libro» [1].
Questo affinamento progressivo ne fa una figura che – a differenza di altre seriali, come Sherlock Holmes o Maigret – «invecchia, partecipa alla vita di tutti i giorni», insomma cresce e si modifica per aspetti tutt’altro che secondari, cosa che, testimonia l’autore, «mi rende più difficile stargli dietro» [2]. È proprio sul rapporto con l’ambiente circostante che Camilleri scandisce via via le differenze tra Montalbano e Maigret, da lui assunto inizialmente come referente principale nel processo che lo ha portato ad abbozzare i tratti distintivi del suo commissario di polizia. «Ho questo grosso debito verso Simenon», confessa Montalbano.
«Quando ho cominciato a scrivere i miei gialli, il problema è stato quello di differenziare Montalbano da Maigret. In parte credo di esserci riuscito, soprattutto nel modo di condurre l’indagine. [...] Ho inoltre fatto ricorso a un piccolo escamotage per accentuare la differenza tra i due [...] Maigret è felicemente maritato e sua moglie (quando lui non va a mangiare alla Brasserie Dauphine) gli prepara squisiti piatti. Anche a Montalbano piace mangiare [...] allora ho scisso la signora Maigret in due: la ‘cammarera’ Adelina che gli prepara i piatti che piacciono a lui e la fidanzata Livia» [3].
Non è però questo il tratto distintivo principale tra i due personaggi. Se entrambi condividono l’impegno etico sociale e la fede in valori in via d’estinzione a differenziarli profondamente è un aspetto fondamentale, sul quale richiama l’attenzione lo stesso Camilleri:
«La cosa che non finirò mai di rimproverare a Simenon e al suo Maigret, è quella di essere un personaggio atemporale: Maigret attraversa un periodo della Francia, che è la Francia del Fronte popolare, la Francia della guerra, la Francia di Vichy, la Francia terribile, eppure non c’è nulla che dentro il personaggio Maigret venga recepito dalla realtà che lo circonda, se non l’esatta individuazione della limitata realtà afferente, che riguarda l’omicidio, il delitto. Lì è bravissimo, ma è come se al posto degli occhi avesse un microscopio che gli impedisce una visione generale del mondo e della realtà che lo circonda, sociale, politica eccetera. Invece il mio personaggio la vive questa realtà, la vive tutti i giorni, la vive direi quasi civilmente, da civis, da cittadino che ha le sue idee» [4].
Questo stretto rapporto con lo spazio e il tempo in cui vive segna profondamente il suo modo di condurre le indagini e di venire a capo dei problemi che si trova ad affrontare, caratterizzato da un’immersione ambientale, da un annusare, un soppesare a occhio, distante dallo «spiegare» deduttivo dei segugi di impostazione scientifica e dal «comprendere» dei detectives più filantropi, in quanto non si basa soltanto sull’analisi del fatto delittuoso in sé, ma prende piuttosto avvio dall’interpretazione del contesto in cui le singole azioni (anche quelle criminali) si inseriscono: gli ampi scenari delle relazioni sociali, della cultura, dell’economia e della politica. Per questo «i romanzi dove Montalbano è protagonista», ha affermato Camilleri, «non possono ignorare la realtà circostante» [5]: e questa realtà è, innanzi tutto, il vasto contesto del Mediterraneo e, all’interno di esso, la Sicilia.
«L’isola, sostiene Camilleri, è lo spazio più aperto che esista. Sembra chiuso per tutti i suoi lati dal mare, ma il mare non chiude, il mare apre: il mare è la comunicazione col resto del mondo» [6]. Ecco perché la Sicilia non può essere separata dall’intero bacino del Mediterraneo e per quale motivo, di conseguenza, è non solo legittimo, ma istruttivo parlare, come fa Claudia Canu Fautré, di “giallo mediterraneo” per approfondire il significato del ciclo dei romanzi che hanno come protagonista Montalbano [7].
«Vorrei innanzi tutto tentare di chiarire cosa intendo per ‘giallo’ mediterraneo. Sino a qualche anno fa la bibliografia critica sull’argomento era assai scarna: si potevano leggere commenti dubitativi sulla reale esistenza di un ipotetico genere poliziesco di stampo mediterraneo e, più spesso, un’accusa da parte della critica verso le sempre più numerose etichette create dall’editoria a scopo prettamente commerciale. Nel panorama contemporaneo, invece, grazie al lavoro di ricerca condotto dagli studiosi e grazie anche alle riflessioni prodotte dagli stessi scrittori, tra i quali ricordiamo Massimo Carlotto – il cui apporto è stato fondamentale – si può parlare di ‘giallo mediterraneo’ con maggiori strumenti critici»[8].
Il ‘giallo mediterraneo’ si caratterizza innanzitutto per un forte radicamento nei territori e nei paesi circoscritti all’area del Mediterraneo.
«La componente localistica è quindi la prima vera e propria impronta che lo rende fortemente riconoscibile anche perché il legame con il territorio viene vissuto in maniera viscerale dagli investigatori, commissari o detective di vario genere, e anche per le componenti sociologiche legate alle culture mediterranee che, esplicitamente o meno, entrano a far parte dell’inchiesta» [9].
Gli elementi che lo caratterizzano sono “identificabili nei seguenti punti:
- radicamento nel territorio che determina la psicologia dell’investigatore e il suo stile di vita;
- capacità di render conto delle condizioni sociali e delle eventuali trasformazioni in corso in maniera più o meno esplicita;
- il personaggio dell’investigatore diventa un personaggio a tutto tondo di cui si conosce spesso la vita e lo stile di vita;
- critica nei confronti di un sistema capitalista. Mancanza di una verità certa da contrapporre al sistema;
- coincidenza tra tempo narrativo e tempo storico;
- memoria individuale che diventa memoria collettiva;
- importanza della Storia intesa nell’accezione braudeliana di «longue durée» [10].
Di particolare rilievo per introdurre la componente fondamentale del ‘giallo mediterraneo’ è quest’ultimo punto, che evidenzia «l’importanza della Storia intesa nell’accezione di longue durée» elaborata da Fernand Braudel in Les memoires de la Méditerranée:
«il n’y a d’histoire compréhensible vraiment qu’étendue largement à travers le temps entier des hommes. Temps long et géographie, car cette dernière est immédiatement présente dans la mise en situation de chaque grande réalisation culturelle et politique»[11].
Se il Mediterraneo si caratterizza innanzitutto come uno spazio geografico che condivide il mare, un certo clima, una vegetazione particolare ed alcuni paesaggi, è solo all’interno di una concezione storica che il Mediterraneo si definisce come patrimonio comune o luogo di influenze reciproche.
La Storia costituisce all’interno dello spazio mediterraneo il filo rosso che permette di riunire culture, lingue e popoli diversi. Ma quando si parla di storia del Mediterraneo non si può per l’appunto prescindere dal lavoro compiuto dal grande storiografo francese nel pensare questa storia millenaria in linea con il concetto da lui definito come longue durée. Fernand Braudel tratta della storia del periodo che va dalla Preistoria al compimento della conquista romana dimostrando come, all’interno del contesto storico mediterraneo, le evoluzioni delle civiltà antiche siano del tutto percettibili e comprensibili solo e unicamente nell’estensione temporale di lunga durata» [12].
Ne scaturisce, come legittima conclusione, che
«l’importanza del luogo e il forte radicamento dei personaggi, primo fra tutti il detective, nella loro terra d’origine si afferma come elemento costitutivo di fondamentale importanza per il ‘giallo mediterraneo’ allo stesso modo e con la stessa pregnanza della Storia. Raggiungiamo con tali considerazioni il pensiero di Braudel quando parlando di Mediterraneo combina “Temps long et géographie” come binomio imprescindibile. Riflettendo questa cronotopia nelle sue costruzioni narrative il giallo ci lascia percepire il Mediterraneo nella sua essenza. Il Mediterraneo, così difficile da definire in maniera univoca, trova con il giallo mediterraneo un volto che è quello dei popoli che lo raccontano»[13].
Emerge così la centralità del legame tra storia e memoria, che stimola a fare dell’una e dell’altra
«le coordinate al cui interno si snoda, nelle finzioni che vedono protagonista Montalbano, il recupero del passato. Tuttavia, proprio l’apparente assenza di quest’ultimo autorizza a interrogarsi sui rapporti del commissario con esso. Quasi mai descritto minuziosamente, oggetto di allusioni laconiche, il passato è trasportato dalla dimensione della storia a quella della memoria. La sua incorporazione narrativa è prima di tutto un’operazione memoriale. Di memoria personale dell’autore prima ancora che del personaggio da lui creato. Detto altrimenti, attraverso i riferimenti a un contesto storico, Camilleri evoca prima di tutto la propria storia, o più precisamente una memoria che potrebbe essere la sua, strettamente legata al periodo della sua giovinezza»[14].
Il contributo “siceliota”
Camilleri intreccia così, in modo sapiente, memoria individuale e memoria collettiva in una concezione del tempo che pare sospeso tra le tre dimensioni del passato, presente e futuro in cui si articola e tra le quali viene a cadere ogni barriera.
«I primi romanzi del ciclo di Montalbano […] racchiudono nel medesimo impasto linguistico che ha contribuito alla fortuna della serie una sottesa e sobria drammaticità: una sorta di antica memoria – memoria di una regione che un tempo fu Magna Grecia – vibra infatti sia negli accenti del narratore e delle sue creature sia nei paesaggi: splendidi e terribili al contempo, struggenti alla stregua dell’umanità che vi si muove. Le scelte linguistico-stilistiche di Camilleri nel descrivere la Sicilia sprigionano l’identica forza evocativa che è propria dei paesaggi dell’isola. Lo scrittore, la cui “voce [...] immensa, cavernosa [...] risuona dalle profondità di mondi sepolti [... con] i timbri forti della recitazione antica dei cantastorie” [15], fa risuonare in un idioma unico, “una koinè creata lavorando su una base dialettale, un dialetto della memoria che si contorce e mescida di continuo”[16], la coesistenza di antico e contemporaneo, concretizzandola in squarci di natura o lembi di città la cui tremenda evidenza non esclude, talora, il conforto di un’imprevista leggerezza»[17].
Questa concezione del tempo incide anche sul modo di considerare e descrivere lo spazio:
«I paesaggi della campagna, distesa in una sorta di atavica – ma non rassegnata, né ribelle – conferma di sé, le zone urbane, i cui anfratti e margini traducono in degrado l’illusione del progresso, costituiscono nei romanzi di Montalbano lo sfondo, nonché la concretizzazione di una dialettica, autenticamente tragica, tra mutamento e permanenza. Dall’atmosfera degli spazi entro i quali e tramite i quali questa dialettica (o meglio ossimoro) si palesa viene coinvolto e avviluppato anche il tempo (anch’esso, come si accennava da subito, categoria tragica), tempo che pare sospeso, impasto, di innumerevoli riverberi e screziature, indugia su tale limbica sospensione, entro cui gli strappi e strattoni della modernità paiono tacitati e assorbiti, o a malapena increspano l’impassibile disegno che gli antichi avrebbero chiamato Fato, ne ricava una storia che è la storia: quella più ampia, quella autentica, di cui l’intreccio giallo è, volta per volta, momentanea e parziale declinazione. Secondo Carolina Tundo «lo scrittore ricostruisce luoghi mentali, che non esistono più, attraverso una lingua che a sua volta non esiste – perché non è siciliano, bensì una sua reinvenzione su base locale» riuscendo a cogliere – e soprattutto a far cogliere ai lettori – la profondità di un luogo (spazio e tempo insieme) frutto di antinomie coesistenti, geneticamente «polifonico, contraddittorio e quindi barocco»[18].
Cantore di una «conflittualità identitaria»[19] che è allo stesso tempo irrinunciabile e irredimibile, Camilleri sembra anche per tale motivo meritare la definizione, attribuitagli da Nino Borsellino, di «gran tragediatore» [20]: «le contraddizioni incomponibili sono infatti nodo drammatico per eccellenza»[21].
Se dall’ambiante vasto del Mediterraneo passiamo a quello più ristretto della Sicilia sono di particolare interesse, per chiarirne il significato e l’incidenza sul tema che stiamo trattando, gli apporti di Carlo Diano, in particolare ciò che egli scrive in un suo breve quanto incisivo testo del 1965, nel quale viene sottolineato
«il contributo della Sicilia alla storia del pensiero greco, e, se questa è la matrice dalla quale non possiamo separarci senza negare la nostra natura di esseri razionali, alla storia del pensiero umano: Empedocle e Gorgia. Due giganti, e l’uno e l’altro collegati con la Magna Grecia, con Crotone ed Elea. Ed è nel quadrilatero di Crotone ed Elea, di Agrigento e Leontini, che vengono poste le basi ontologiche e logiche della problematica nell’ambito della quale il nostro pensiero ancor oggi si muove. Crotone ed Elea: Pitagora e Parmenide, e Parmenide è da Pitagora» [22].
Di particolare importanza è l’apporto di Empedocle, in quanto a lui si deve la prima teoria dei colori,
«ed è sul colore, come illusoria apparenza dell’essere, colore che nella parola si manifesta come ritmo e come suono, è su di esso che Gorgia fonda la sua teoria dell’arte come ἀπάτη o inganno. Non era una teoria nuova: era già nell’ottavo libro dell’Odissea e nell’Inno ad Ermete, ma come poetica di una determinata sfera divina ed umana, quella contraddistinta dalla μῆτις che in sé riunisce la sapienza pratica e tecnica, e connesse con l’una e con l’altra la menzogna e la frode. Contro di essa era la poetica della pura teorèsi e del vero, e come l’una è opposta all’altra in Omero e nell’Inno ad Ermete, così lo è in Pindaro. Ma in Gorgia l’ἀπάτη si pone come teoria assoluta dell’arte, e come poetica di quella delle forme della poesia che in sé le riassumeva tutte, e voglio dire della tragedia. La quale, egli diceva, “è un inganno, in cui chi inganna, è più giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare, è più sapiente di chi non è ingannato».
Ora il punto è questo: se l’arte è inganno, non lo è come menzogna dell’artista, ma perché la realtà stessa è inganno. Questo inganno, o ψεῦδoς, è ontologico e non psicologico, è lo ψεῦδoς dell’è che può essere è, non è’ ed è e non è insieme, e in sé non è nulla: l’inganno appunto di un’esistenza a cui l’essenza è legata solo dall’accidente. E da esso può nascere tanto la commedia che la tragedia. Ne segue che la parola, perduta ogni distinzione di vero e falso, non può agire più come segno logico, ma solo come strumento psicologico, in un gioco di suoni che allettano e di parvenze che operano sulla parte irrazionale dell’uomo e ne sollecitano gli affetti. Di qui la teoria e la tecnica retorica e stilistica con la quale Gorgia stupì i suoi contemporanei, e che, per le premesse da cui muove, è qualche cosa di più di un fatto letterario.
E qui per chiudere voglio dire una cosa. Il senso dell’essere che guidò come un istinto Gorgia, è per eccellenza proprio della Sicilia. Da essa nasce il prodigioso senso del colore e tutto quel che di magico e d’irreale è nella sua arte. Nell’antichità creò la commedia. Era riserbato ai tempi nostri che esso si esprimesse come tragedia: una tragedia chiusa e senz’esito, che come confine ha il nulla, la tragedia che è al fondo dell’arte di un Verga, di un Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, come struttura stessa dell’esistenza, indipendente dall’azione, e però senza salvezza» [23].
Davvero interessante e istruttivo è questo riferimento a Empedocle e alla sua teoria del colore perché da essa nasce la centralità dell’illusione e dell’apparenza, quella problematizzazione del concetto di realtà in seguito alla quale la parola perde la sua specifica relazione con il significato, smarrisce la sua faccia interna, da segno regredisce a significante che si manifesta come ritmo e come suono. Ne consegue che
«immediatamente quella forma viene presa dallo spazio esterno e si scioglie in colore. Un mondo come quello di Ulisse e dei Feaci non può essere se non colorato. La plasticità è in netta contraddizione con esso. […] Pensate all’incontro di Ulisse e di Nausicaa. Il poeta non descrive, narra, con arte estremamente sobria, e i discorsi prevalgono sulla narrazione. Ma quale miracolo! Noi sentiamo il mare e il cielo senza vederli, siamo presi nella magia del colore, di cui ogni parola è costituita, senza poter dire che esso sia qui e non lì. Solo una analisi di dettaglio può sviluppare quello che io accenno richiamandomi ai ricordi di ciascuno. E il poeta ne ha coscienza, e nel suo linguaggio simbolico ci dà la chiave stessa di ciò che egli sente e vive. La palla di porpora del gioco di Nausicaa, quella che lanciano in alto i due suoi fratelli, afferrandola prima di toccare coi piedi la terra, sono il simbolo e l’emblema stilistico dell’arte che a quel mondo è propria. E come c’è il colore e c’è l’atmosfera, c’è anche la musica, intima anch’essa, sottesa alla parola e alla rappresentazione, dimensione esistenziale più che forma isolabile e definita; la danza non ne è che il segno esterno» 14
Non è allora strano, anzi è del tutto naturale, che nella Sicilia di Gorgia, nella Sicilia che incarna e rappresenta per eccellenza il distacco della forma dall’essere, dell’essenza dall’esistenza, ed è aperta per questo da sempre alla logica dell’evento, della totalità cosmica, dell’ἄπειρον periέcon, dell’indeterminato di Anassimandro, che non ha limiti e non ha confini, ed è perciò periferia che abbraccia tutto il tempo e tutto lo spazio ed è refrattaria a ogni definizione che tenti di specificarla, sia nata con Empedocle, un greco di Agrigento, la prima teoria del colore come parte della spiegazione dell’esperienza. «Dopo aver dato una soluzione al dilemma tra la mutabilità e l’essere postulando che tutte le cose del mondo siano composte da quattro elementi fondamentali e immutabili: acqua, terra, aria e fuoco, i quali, unendosi e separandosi, formano la realtà complessa e mutevole che osserviamo egli, nel frammento 71, afferma che, oltre che dalla forma, le cose sono caratterizzate anche dal colore, e che due dei quattro elementi fondamentali sono colorati. Il colore del fuoco è il bianco, il colore dell’acqua è il nero. Il sole, per esempio, è fuoco e produce la luce che è chiara. La pioggia invece è acqua ed è presentata come scura. Gli altri due elementi, l’aria e l’acqua, rimangono senza colore, e sono l’accostamento di bianco e nero e le diverse proporzioni in cui essi si presentano a generare tutti gli altri colori: Dalla mescolanza di acqua, terra, etere [aria] e sole [fuoco], nacquero tante forme e colori di esseri mortali, quali adesso ne esistono, per opera di Afrodite»[25].
Questa sottile e profonda ricostruzione di Diano dell’origine e del significato della teoria dei colori di Empedocle spiega l’interesse manifestato per essa da Goethe, che non solo la conosceva, ma le tributò un esplicito riconoscimento nella sua Farbenlehre. E ci fa capire altresì per quale motivo, nel suo Viaggio in Italia, egli consideri la Sicilia “la chiave di tutto”, al punto tale da scrivere che «l’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima» [26].
Questo suo giudizio così drastico e impegnativo si spiega proprio con il suo interesse per l’apparire e il divenire della forma e per la funzione che in questo processo ha non tanto l’inganno, quanto l’illusione. A suo parere sbaglia infatti Gorgia ad associare all’arte la menzogna e l’inganno e a farne l’espressione della concezione della realtà stessa come inganno. L’arte è invece, a suo giudizio, illusione come fattore sostanziale della percezione, indistinguibile da essa.
Lo dimostra un esempio calzante da lui stesso raccontato in Poesia e Verità e ripreso da Hegel nella sua Estetica: «Quando (dopo una visita alla galleria di Dresda) ritornai dal mio calzolaio – presso cui egli per capriccio aveva preso alloggio – per far colazione, facevo fatica a credere ai miei occhi: infatti mi pareva di aver davanti un quadro di Ostade, così perfetto che il suo posto giusto sarebbe stato solo nella galleria. La disposizione degli oggetti, la luce, le ombre, la tinta brunastra del tutto, tutto quel che si ammira in quei quadri, lo vedevo lì nella realtà. Era la prima volta che in così alto grado notavo il dono, che dopo ho usato con maggiore consapevolezza, di vedere la natura con gli occhi di questo o di quell’artista, alle cui opere avevo poc’anzi prestato particolare attenzione. Questa capacità mi ha riserbato molto godimento, ma anche ne è stato accresciuto il desiderio mio di dedicarmi con zelo di tanto in tanto allo sviluppo di un talento che la natura sembrava avermi negato»[27]
Da questo aspetto scaturisce, dunque, un rapporto molto stretto tra attività fantastica e percezione visiva propriamente detta, attraverso il quale la prima colma le restrizioni della seconda dando luogo a un processo complesso, refrattario a sottomettersi a regole e a leggi. Ciò che chiamiamo “visione” di un oggetto qualsiasi, nel caso dell’esempio riportato da Hegel di un luogo, è in realtà il risultato di una convergenza di immaginazione, sensibilità, intelletto e memoria, di una sintesi tra processi fisici, processi fisiologici e processi cognitivi e creativi, mediante la quale si stabiliscono nessi tra livelli distinti che danno corpo a una specifica totalità. Come lo stesso Goethe scrive in La teoria dei colori: «Quando l’occhio percepisce il colore viene subito posto in attività, ed è conforme alla sua natura la produzione, tanto inconsapevole quanto necessaria, di un altro colore che con quello dato racchiude la totalità del cerchio dei colori. Ogni colore singolo stimola nell’occhio, mediante una sensazione specifica, l’aspirazione all’universalità. Per cogliere questa totalità, per appagare sé stesso, l’occhio cerca, accanto a ogni spazio colorato, uno spazio incolore sul quale produrre il colore che viene richiamato [...] Se quindi la totalità dei colori è offerta all’occhio esterno in qualità di oggetto, essa gli giunge ben accetta in quanto la somma della sua propria attività gli viene incontro come realtà» [28].
Questa totalità non è una banale composizione di parti: come osserva lo stesso Goethe nel brano di Poesia e verità che Hegel riporta si tratta di un qualcosa che emerge nello spirito solo sulla base di un lungo apprendistato e di una faticosa esperienza e che è in qualche modo l’esito del passaggio dalla sfera naturale (la natura così come ci appare) nella sfera estetica (la stessa natura vista filtrata attraverso l’occhio dell’arte). Si tratta dunque di una totalità che si colloca al confine tra il mondo naturale e quello culturale, tra la realtà oggettiva e l’uomo, e che pertanto costituisce la linea di demarcazione e di congiunzione a un tempo tra due ambiti di fenomeni differenti. Una totalità che, proprio per questi suoi caratteri e questa sua specifica funzione, ha una natura eminentemente simbolica.
Anche a Palermo, nel corso del suo viaggio in Sicilia, Goethe prova una sensazione simile a quella da lui descritta in Poesia e verità durante una visita al giardino pubblico, vicino alla marina. Come scrive infatti il 7 aprile 1787: «ciò che dava all’insieme un fascino eccezionale era un’intensa vaporosità che si stendeva uniforme su ogni cosa, producendo un effetto così sensibile che gli oggetti, anche se distanti fra loro di pochi passi, risultavano uno dietro l’altro in nette tonalità azzurrine, tanto da perdere i loro colori reali, o quanto meno da apparire all’occhio intensamente inazzurrati. Quale fantastico aspetto conferisca tale nebulosità agli oggetti lontani, alle navi, ai promontorii, è cosa che colpisce un occhio pittorico, perché permette non solo di distinguere bene le distanze, ma anche di misurarle; perciò godei sommamente una passeggiata verso l’alto. Ciò che si vedeva non era più la natura, ma una serie di quadri che un provetto pittore avesse ottenuti graduandone a una a una le velature» [29].
Ci troviamo così di fronte a una stretta e inscindibile relazione non solo tra particolare e generale, fissata nel concetto di totalità, ma anche, come detto, tra percezione e illusione, per cui è profondamente erroneo identificare quest’ultima con l’inganno e farla rientrare nel concetto di falsità.
Lo dimostra l’analisi del senso della proposizione “Illudersi che P”. Essa è un’espressione ponte, come “Sapere che P”, in quanto ci pone di fronte a un’articolazione nella quale, al livello inferiore, vi è uno stato di coscienza e, a quello superiore, la descrizione di una situazione oggettiva. Mentre però nel caso del sapere questo riferimento è del tipo “P”, cioè un’affermazione, l’illusione opera un riferimento che è del tipo “non P”, cioè una negazione. Per il senso comune, infatti, illudersi implica “credere falsamente”: se, facendo il consuntivo di una giornata appena trascorsa, dico: “M’illudevo che fosse migliore” è evidente che sto parlando di uno stato di fatto effettivo che ha contraddetto le mie attese, e che è dunque falso rispetto a esse. Questa non è tuttavia una buona ragione per equiparare “illudersi” e “credere falsamente”, e quindi l’illusione all’inganno e alla menzogna. Per comprendere perché è sufficiente riferirsi al seguente esempio: “Otello credeva falsamente che sua moglie lo tradisse”, che è un enunciato vero, non può essere ritenuto equivalente a “Otello s’illudeva che sua moglie lo tradisse”. “Illudersi che P” non significa semplicemente “credere falsamente che P”, ma “credere falsamente che P” coniugato in modo indissolubile a “desiderare che P”. Lo si desume facilmente dagli esempi che abbiamo appena proposto: “M’illudevo che fosse migliore” presuppone il mio desiderio di un diverso andamento della giornata e così Otello, tralasciando complesse interpretazioni psicoanalitiche sulle sue motivazioni inconsce, sulle quali non è il caso di soffermarsi qui, non desiderava certamente il tradimento di Desdemona ma c’è al contrario da supporre che sperasse nella sua fedeltà. Questo ci dice una cosa importante, da rimarcare subito: che anche dal punto di vista strettamente logico l’illusione non può essere identificata e confusa con l’inganno e con l’errore: essa appartiene a un livello categoriale differente, che va esplorato nella sua specificità.
Agli occhi di Goethe la Sicilia, con il gioco di colori del suo paesaggio tanto forte e suggestivo da imprimersi nell’animo, con «le onde nerastre a nord dell’orizzonte, il loro accavallarsi nelle sinuosità del golfo, perfino l’odore caratteristico dell’evaporazione marina»[30], offre allo sguardo di chi è sufficientemente nutrito da una solida conoscenza un dono unico e prezioso: quello di rendere vivo e attuale il passato del mondo classico: «Ora che ho presente al mio spirito tutto questo: coste e promontori, golfi e insenature, isole e penisole, rocce e arene, colline boscose, dolci pascoli, fertili campi, fioriti giardini, questi alberi ben curati e i tralci pendenti e i monti che toccano le nuvole e questo ridente susseguirsi di pianure, di scogli, di dune, e il mare che tutto abbraccia con tanta mutevolezza e molteplicità di volti, ora l’Odissea è davvero per me una parola viva» [31].
E una parola viva, grazie alla sapiente ricostruzione della saggezza e delle poetiche degli antichi, e in particolare del mondo greco, che Diano riesce a offrirci in virtù della sua straordinaria padronanza degli strumenti più affilati della filologia, della filosofia, dell’estetica, della letteratura, dell’arte e della musica e alla profonda e coerente applicazione dei principi metodologici ed ermeneutici che ne scaturiscono, diviene per chi legge i suoi scritti non solo l’Odissea, ma l’intero patrimonio della cultura classica: ed è per questo che la Sicilia con il suo paesaggio costituisce una chiave interpretativa imprescindibile per renderci conto che il passato non è affatto passato ma incide profondamente sul presente e costituisce un riferimento di cui non possiamo fare a meno per capire chi siamo.
Il motivo conduttore del ciclo di Montalbano
I diversi livelli in cui si articola l’ambiente sono magistralmente descritti da Camilleri nel rapporto tra Montalbano e la sua terra in tutte le sue articolazioni ed espressioni, che alimentano e arricchiscono il suo pensiero a partire dalla respirazione per arrivare al clima, agli effetti dell’atmosfera, all’intera gamma delle bellezze naturali, al ricchissimo patrimonio archeologico, architettonico e culturale, alla lingua e al cibo. Il suo mondo, il Mediterraneo e la sua Sicilia, entrano in lui attraverso tutte le finestre dei suoi sensi e i pori della pelle, e, una volta così introiettati, vengono incorporati e assimilati. Il Mediterraneo penetra in lui non solo come uno spazio geografico che condivide il mare, un certo clima, una vegetazione particolare ed alcuni paesaggi, ma anche e soprattutto come concezione storica nell’ambito della quale esso si definisce come patrimonio comune e luogo di profonde influenze reciproche. Quanto alla Sicilia, oltre che per i suoi colori, i suoni e i profumi del suo variegato territorio, per Salvo essa costituisce il luogo caratterizzato dalla spiccata propensione della gente a farsi comprendere, più che dai dialoghi espliciti, dal loro comportamento, ma anche e soprattutto dall’implicito, dal non detto, che emergono dal contesto, e da una tradizione sommersa trasmessa da una generazione all’altra. Giustamente e molto argutamente Luigi Tassoni parla di effetto cripta nella narrazione camilleriana affermando: «Il fatto è che ciascuno nasconde più addentro che può, nella memoria come nella coscienza, delle verità tragiche e dolorose, ma è proprio l’azione di questo incriptamento la più abile delle costanti lungo tutto l’arco dell’opera di Andrea Camilleri: il nascondiglio protegge e custodisce ciò che rimane attivo, anche se non espresso, nell’agire, anche se non evidente»[32].
Ecco il riproporsi dello stretto rapporto tra visibile e invisibile che costituisce il trait d’union dell’intera cultura del Mediterraneo ed ecco riaffacciarsi, in stretta e inscindibile connessione con esso, il tema del nesso tra realtà e apparenza, tra percezione e illusione che, come si è visto, caratterizza fin dalle più lontane origini lo stile di pensiero di chi vive in Sicilia. Proprio in virtù di questa duplice eredità profondamente assimilata dietro lo strato dell’empirico della quotidianità e del vissuto del commissario di polizia di Vigàta ci sono sempre altre superfici, altri strati che non sono riducibili uno all’altro, ma sono legati tra loro da corrispondenze, da affinità, che nel loro insieme generano un motivo conduttore specifico, che Camilleri costruisce, orchestra e fa risuonare in modo magistrale.
Per questo la Sicilia è il luogo per eccellenza nel quale la ricerca della verità, che è la missione e l’obiettivo fondamentale di un buon investigatore, assume caratteristiche particolari, in un gioco di luci e ombre descritto in modo esemplare da Massimo Cacciari: “la nostra luce è ‘chiara’ come può esserlo il claro del bosque (Maria Zambrano). Noi possiamo far- chiaro, clarare, soltanto aprendo radure (clairière, clearing) nel bosco. Luce e lucus si apparentano; potando e disboiscando (collucare, inter-lucare, sub-lucare) ci facciamo luce, grazie a cui c’è dato vedere e vivere, ma nel bosco sempre. […] Il lucus è perciò sì un luogo aperto (aperto dall’uomo e consacrato successivamente al dio), ma aperto nel bosco. Il bosco romane il soggetto fondamentale: bosco fitto e impenetrabile, e che proprio per questo fornisce asylum. È il chiuso del bosco che garantisce e protegge l’aperto del lucus. Qui, nel claro, la luce è perciò sempre opaca. L’accento non cade sulla claritas, sulla piena luminosità, ma sulla debolezza della luce. La luce non giunge mai a illuminare perfettamente il lucus. Il claro è il luogo dell’ombra; la luce del locus è quella propria dell’ombra. «Nulli certa domus; lucis habitamus opacis» (Virgilio, Eneide, VI, 673). Non abitiamo spazi aperti, ma il lucus che si apre nel profondo dell’ombra. Il lucus è il cuore luminoso-opaco del bosco, che appartiene al bosco, indisgiungibile dalle sue stesse tenebre [33].
Il “contributo siceliota” di cui parla Diano si manifesta così anche con il riferimento al codice di comunicazione tipico del popolo siciliano, che consente a Camilleri di tracciare modelli ed espressioni narrative dove la trama, i personaggi, il dialogo, il silenzio e il non detto si miscelano in modo sapiente e coinvolgente, come la luce e l’ombra, appunto.
La memoria di una regione che risente profondamente della coesistenza di antico e contemporaneo, è colta con straordinaria capacità di condensazione dalla parola di Camilleri, la quale intrisa, nel suo composito impasto, di innumerevoli riverberi e screziature, indugia su tale limbica sospensione, entro cui gli strappi e strattoni della modernità paiono tacitati e assorbiti, o a malapena increspano l’impassibile disegno che gli antichi avrebbero chiamato Fato, ne ricava una storia che è la storia: quella più ampia, quella autentica, di cui l’intreccio giallo è, volta per volta, momentanea e parziale declinazione.
Quell’impasto inestricabile di luce e ombra, così ben descritto nel passo di Cacciari appena citato, caratterizza l’atmosfera de La forma dell’acqua, romanzo che apre il ciclo di Montalbano, che «fa entrare il lettore nella vicenda (e nella Sicilia che imparerà presto a conoscere) non solo con passo cauto e silente, ma altresì negandogli il conforto della luce: al silenzio del mondo ancora immerso nel torpore corrisponde l’oscurità di un cielo sigillato da una sorta di cortina… quasi un sipario tirato»[34]:
“Lume d’alba non filtrava nel cortiglio della Splendor, la società che aveva in appalto la nettezza urbana di Vigàta, una nuvolaglia bassa e densa cummigliava completamente il cielo come se fosse stato tirato un telone grigio da cornicione a cornicione, foglia non si cataminava, il vento di scirocco tardava ad arrisbigliarsi dal suo sonno piombigno, già si faticava a scangiare parole”[35].
Questi sono i caratteri e gli aspetti della Sicilia così ben interpretati e descritti dagli scrittori che ne hanno saputo cogliere la peculiarità, come Camilleri e prima di lui Luigi Pirandello, con l’imprescindibile riferimento al cuore luminoso-opaco del bosco che condiziona ogni ricerca della verità su cui è magistralmente costruita la sua opera teatrale Così è se vi pare, tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, rappresentata per la prima volta il 18 giugno 1917 e presentata in una nuova edizione arricchita e completamente modificata nel 1925, incentrata su un tema molto caro all’autore: l’inconoscibilità del reale, di cui possono essere date versioni e interpretazioni differenti a seconda del punto di vista adottato.
In questo caso i due punti di vista in gioco sono quelli del signor Ponza, per il quale il personaggio attorno al quale ruota tutta la vicenda è la sua seconda moglie, sposata dopo la morte della prima, figlia della signora Frola; e quello di quest’ultima, la quale invece sostiene che la figlia è ancora viva ed è l’unica moglie del signor Ponza.
Questa controversia e l’interesse che si scatena attorno a essa suscita l’ilarità di Lamberto Laudisi, convinto dell’impossibilità di conoscere gli altri e la loro vera storia, che in un dialogo con la propria immagine riflessa nello specchio così commenta l’intera vicenda: «Eh caro! chi è il pazzo di noi due? Eh lo so: io dico TU! e tu col dito indichi me. Va là che, a tu per tu, ci conosciamo bene noi due. Il guaio è che, come ti vedo io, gli altri non ti vedono… Tu per gli altri diventi un fantasma! Eppure, vedi questi pazzi? senza badare al fantasma che portano con sé, in sé stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! e credono che sia una cosa diversa».
Alla fine la moglie del signor Ponza, condotta in scena con il viso coperto da un velo nero, per risolvere una volta per tutte le questione della sua identità, afferma di essere al contempo sia la figlia della signora Frola che la seconda moglie del signor Ponza, mentre di sé stessa sostiene di non essere nessuna: “io sono colei che mi si crede“.
Interviene così ancora una volta Laudisi il quale, dopo una risata, dice, con uno sguardo di sfida derisoria: “Ed ecco, o signori, come parla la verità! Siete contenti?“
Questa conclusione sintetizza al meglio la problematicità del rapporto tra il linguaggio e la realtà alla quale esso si riferisce. Qualsiasi affermazione parte dalle parole che usiamo (il significante), per esprimere un concetto (il significato) che è interno al linguaggio, in quanto è parte costitutiva del segno, che altro non è se non la relazione tra il significante e il significato, appunto. La realtà può essere espressa e conosciuta soltanto attraverso il linguaggio, non c’è un accesso diretto a essa che prescinda da quest’ultimo. Il referente, ciò che costituisce l’oggetto del nostro discorso e al quale esso si riferisce, è però qualcosa di esterno al linguaggio medesimo, non può essere incorporato all’interno della sua trama. C’è dunque un distacco incolmabile tra il referente e il significato, attraverso il quale esso viene introdotto nel linguaggio e incorporato in esso.
La moglie del signor Ponza, in quanto oggetto del discorso del marito e della signora Frola, assume inevitabilmente il significato che ha all’interno dei loro rispettivi discorsi e, in sé stessa, come referente del discorso dell’uno e dell’altra, non può dare alcuna risposta, è muta, e, se interrogata, può rispondere soltanto: “io sono colei che mi si crede”, proprio perché il referente può parlare soltanto se viene introdotto all’interno di un linguaggio, ma in tal caso perde i suoi connotati di realtà esterna e diventa inevitabilmente oggetto di un discorso, significato, appunto.
Viene così posta, in modo arguto, la questione, cruciale dal punto di vista filosofico, del rapporto tra verità assoluta e verità relativa, tra oggetto reale e oggetto della conoscenza. Il paradosso evidenziato da Pirandello consiste nel fatto che questi oggetti non coincidono, ma non possono neppure essere considerati estranei e indifferenti l’uno rispetto all’altro. La genialità di Camilleri nell’ideare il tipo di attività investigativa di cui Salvo Montalbano, commissario di Vigàta, è espressione, sta nel sapiente impasto che riesce a costruire tra la ricerca della verità e la consapevolezza del suo carattere problematico, dovuta al fatto che, come ci insegna appunto Pirandello, «non abitiamo spazi aperti, ma il lucus che si apre nel profondo dell’ombra».
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] A. Lastella, Il commissario Salvo indaga in tv, “la Repubblica”, 13 dicembre 1997.
[2] M. Assalto, Camilleri-Zingaretti «Montalbano siamo», “La Stampa”, 1 settembre 2005.
[3] A. Camilleri, “Il mio debito con Simenon”, in G. Capecchi (a cura di), Racconti quotidiani, Milano, Mondadori, 2007: 62.
[4] A. Camilleri, “Perché faccio scomparire il commissario Montalbano”, da La primavera di MicroMega, 3 (2006), ora in Tutto Camilleri 1999-2018, «MicroMega», 2019: 153.
[5] S. Lodato, A. Camilleri, La linea della palma, Milano, Rizzoli, 2002: 379
[6] La prima citazione è tratta dal programma di D. Iannacone, L. Cambi, Lontano dagli occhi. Storie di migranti, andato in onda sulla RAI nel settembre del 2016. Si veda a tale proposito C. Farci, “A proposito di ‘isolitudine’. Capisaldi e mutamenti nell’isola”, in M. Deriu, G. Marci (a cura di), Quaderni camilleriani/8. Fantastiche e metamorfiche isolitudini, Cagliari, Grafiche Ghiani, 2019: 86-95, <https://www.camillerindex.it/quaderni-camilleriani/quaderni-camilleriani-8. La seconda citazione è tratta dalla quarta di copertina di G. Caprara, S. Demontis (a cura di), Quaderni camilleriani/10. Mediterraneo: incroci di rotte e di narrazioni, Cagliari, Grafiche Ghiani, 2020, <https://www.camillerindex.it/quaderni- camilleriani/quaderni-camilleriani-10>)
[7] C. Canu Fautré. Il giallo mediterraneo, in Veronka Szőke (a cura di) Quaderni camilleriani/5. Indagini poliziesche e lessicografiche, Cagliari, Grafiche Ghiani, 2018, https://www.camillerindex.it/quaderni- camilleriani/quaderni-camilleriani-5: 13-22.
[8] Ivi:13.
[9] Ivi,: 15.
[10] Ibidem.
[11] F. Braudel, Les Mémoires de la Méditerranée, Paris, Éditions de Fallois, 1998: 14.
[12] C. Canu Fautré. Il giallo mediterraneo, cit.: 20.
[13] Ivi: 21.
[14] A. Martini, Le ciliege della memoria: quado Montalbano si misura con la storia, in Camillo Faverzani e Dario Lanfranca (a cura di), Quaderni camilleriani/2. La storia, le storie. Camilleri, la mafia e la questione siciliana, Cagliari, Grafiche Ghiani, 2016, https://www.camillerindex.it/quaderni- camilleriani/quaderni-camilleriani-2,: 47.
[15] A. Carnevali, “Conversazione su Tiresia: il monologo di Andrea Camilleri”, «Altritaliani.net», 19 settembre 2020, <https://altritaliani.net/conversazione-su-tiresia-il-monologo-di-andrea-camilleri>.
[16] S. Ferlita L’isola carnevalesca. Andrea Camilleri fra tradizione e innovazione, «Fata Morgana web», 22 luglio 2019, <https://www.fatamorganaweb.it/ricordo-andrea-camilleri-tradizione-innovazione- lisola-carnevalesca>).
[17] F. Favaro, Anticamente tragica: la Sicilia nei primi romanzi camilleriani del ciclo di Montalbano , in D. Caocci (a cura di), Quaderni camilleriani/18. Dalla Sicilia alle Americhe, Cagliari, Grafiche Ghiani, 2022, 18: 73-74.
[18] C. Tundo «Nel suo territorio, col suo linguaggio». La Sicilia di Andrea Camilleri come artificio barocco, «Sinestesieonline», 29 (2020).
[19] Ivi
[20] N. Borsellino, Camilleri gran tragediatore, Introduzione ad A. Camilleri, Storie di Montalbano 1994-2002, Milano, Mondadori, 2002: XXII.
[21] F. Favaro, Anticamente tragica, cit.: 74-75.
[22] C. Diano, Il contributo siceliota alla storia del pensiero greco, in Id., Saggezza e poetiche degli antichi, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1968: 289.
[23] Ivi: 301.
[24] C. Diano, La poetica dei Feaci, in ID., Saggezza e poetiche degli antichi, cit.: 211-212.
[25] Empedocle, Dell’origine, Frammento 71 DK.
[26] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, tr. it. Di E. Castellani. Commento di H. von Einem adattato da E. Castellani. Prefazione di R. Fertonani, Milano, Mondadori, 2013: 280.
[27] G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi, 1972: 947-
[28] J. W. Goethe, Zur Farbenlehre, Tübingen , J.G. Cotta’schen Buchhandlung, 1810, tr. it., La teoria dei colori, Milano, Il Saggiatore, 1979: 192-193
[29] J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit.:267.
[30] ibidem
[31] Ivi: 358-359.
[32] L. Tassoni, La cripta delle verità. A proposito di “La rete di protezione” in M. Curcio (a cura di), I fantasmi di Camilleri, Budapest, L’Harmattan, 2017: 19.
[33] M. Cacciari, Metafisica concreta, Milano, Adelphi, 2023: 25-26.
[34] Ivi: 75.
[35] Si cita da A. Camilleri, Storie di Montalbano 1994-2002, a cura e con un saggio di M. Novelli, introduzione di N. Borsellino, cronologia di A. Franchini, Milano, Mondadori, 2002: 5..
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Silvano Tagliagambe, professore emerito di Filosofia della scienza dell’Università di Sassari, si è laureato in filosofia con Ludovico Geymonat e si è perfezionato in fisica all’università Lomonosov di Mosca. È stato professore di Filosofia della Scienza presso le Università di Cagliari, Pisa, Roma “La Sapienza” e Sassari. È direttore della collana “Eredità di Pavel Florenskij. Opere e studi” dell’editore Mimesis. Il 6 febbraio 2021 gli è stata conferita, di iniziativa del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.
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