Il romanticismo e l’idealismo tedesco hanno per lungo tempo condizionato il pensiero occidentale con con- seguenze che si riflettono ancora oggi sulle società contemporanee. I recenti fenomeni dettati dal razzismo e dall’omofobia, richiamati con insistenza sulle cronache di stampa, sembrerebbero, in ultima analisi, il frutto di quell’irrazionalismo e di quella presunta superiorità di una nazione su un’altra che sono stati i fondamenti teorici delle correnti ottocentesche. Una triste eredità, che ritiene veritiera l’opposizione spirito/materia con una egemonia della prima sulla seconda, ha assecondato storicamente una concezione gerarchica della cultura e dell’umanità in generale. Già i Greci si ritenevano unici detentori del logos, definendo gli altri uomini, oi barbaroi, barbari e cioè non uomini (Bauman 1976).
L’ultima raccolta di saggi di Antonino Buttitta, che oggi, ad un mese dalla sua scomparsa, suona piuttosto come il suo testamento scientifico, è rivolta, fra gli altri aspetti, a smontare gradualmente tali presupposti. Mito, fiaba, rito è il titolo di questo volume, edito da Sellerio a giugno del 2016, che riunisce una serie di scritti del noto antropologo siciliano, rielaborati in varie occasioni del suo percorso accademico, col medesimo intento di dimostrare, da diversi punti di vista, l’attività semiotica della cultura, come unica possibile nel processo di rappresentazione del mondo. Contrariamente al pensare comune, insiste Buttitta, la realtà oggettiva come universo strutturato non esiste, diviene leggibile solo attraverso l’intervento discretizzatore dell’uomo in quanto essere sociale. La cultura è dunque una prerogativa umana, è un sistema di segni che ha il potere di trasformare il continuum spaziotemporale che ci circonda in insiemi di significazione dotati di senso. Unus homo nullus homo, secondo il filosofo greco, in quanto l’uomo per garantirsi la sopravvivenza deve entrare in contatto con altri uomini attraverso la socialità e lo scambio. L’interrelazione sociale e la comunicazione non comportano tuttavia un semplice scambio di oggetti fra gli uomini, ma di rappresentazioni di oggetti e dunque di segni.
«In principio era la parola e la parola era presso Dio, la parola era Dio. Per mezzo di essa furono fatte le cose tutte: nulla fu fatto di ciò che era stato fatto. In essa era la vita e la vita era la luce degli uomini». Cosi l’incipit di Giovanni nella Genesi, dove la parola e cioè il logos si identifica col Dio stesso e col principio della creazione. Grazie alla parola del Dio la luce sconfigge le tenebre, il giorno si alterna alla notte, il caos diviene cosmos. La parola è dunque il principio costitutivo dell’universo, facoltà attribuita ad un intervento divino, trascendentale: non è senza significato che ancora oggi in molti componimenti popolari siciliani a carattere religioso il Signore viene identificato col Verbo.
In altri termini e in tempi più recenti Karl Jaspers osserva che «la comunicazione è la condizione necessaria dell’umanità. Essa costituisce la sua completa essenza fino a tal punto che tutto ciò che è l’uomo e ciò che per lui è, si trova in un senso o nell’altro nella comunicazione». È stato Ferdinand de Saussure uno dei primi a chiarire il reale funzionamento della lingua come sistema di segni, a chiarire che nella lingua vi sono due livelli di osservazione: l’uno, concreto, visibile, individuale, mutevole, legato alla manifestazione apparente: è il livello della parole; l’altro, astratto, inconsapevole, statico, collettivamente condiviso da una comunità di parlanti e arbitrario rispetto al referente extralinguistico: è il livello della langue, il livello della struttura profonda, l’insieme di regole paradigmatiche che “in absentia” consentono la comunicazione.
Su questa dicotomia e sull’opposizione essere/apparire, sincronia/diacronia, manifestazione empirica/struttura profonda logico-formale, Buttitta fonda tutta la sua riflessione applicando il modello saussuriano, formalizzato nella quadripartizione: schema, norma, uso, parole, di Hjemslev, ad una varietà di prodotti culturali intesi come sistemi comunicativi. A conferma del fatto che al di là del divenire, dell’essere prodotto storico e transitorio condizionata da dinamiche contestuali e relative, tutta l’attività umana è sempre riconducibile ad uno schema universale.
In tale direzione il mito diviene il linguaggio simbolico per eccellenza perchè manifesta l’esigenza di trasposizione in una dimensione altra, trascendentale in uno spazio e tempo diversi dall’ordinario, qualitativamente connotati. Lo spazio sacro è il luogo della ierofania (Eliade 1976) dove la divinità si è manifestata imponendo un nuovo corso del tempo che, diversamente da quello storico, quantitativo e lineare, è un tempo circolare in cui gli opposti coincidono, anche la vita e la morte, in un eterno ritorno. Il mito è dunque il racconto di ciò che accadde in illo tempore, per la capacità di un dio di salvare l’umanità sottraendola al consumo del tempo storico: «il dio cristiano, attraverso il figlio, non diversamente dagli altri dèi, mortem moriendo destruxit, vitam resurgendo reparavit» (Buttitta, ivi).
Questo è il senso ultimo dei miti la cui funzione è dunque quella di garantire l’eternità assicurando agli uomini la continuità della vita sulla morte. I riti e le feste religiose che scandiscono ancora oggi in maniera diffusa i calendari di tutte le società, vicine e lontane nel tempo e nello spazio, manifestano il bisogno periodico di riattualizzare il mito come momento rifondativo e rigenerativo della vita. In Sicilia, ad esempio, la festa dei Defunti del 2 novembre va intesa quale rito di memoria che sconfigge la morte attraverso una serie di azioni cerimoniali dal banchetto funebre ai doni dei bambini. Così il Natale con la rievocazione della nascita miracolosa di un Dio da una Vergine madre che annuncia il suo potere salvifico sull’umanità. E infine la Pasqua che celebra il Dio che diviene uomo per morire sulla croce e poi risorgere garantendo a tutti i viventi l’immortalità. In un tempo circolare che dalla fine tende perennemente a ricongiungersi all’inizio.
Anche le fiabe, racconti mitici storicizzati, presentano un’unica struttura narrativa, funzionando come meccanismi risolutivi delle contraddizioni esistenti in un processo di sospensione del tempo e trasposizione in una dimensione metastorica: così come aveva evidenziato Propp nella sua Morfologia e, più tardi Greimas nell’analisi attanziale del racconto, attraverso un sistema di opposizioni e correlazioni del carrè semiotique. La dicotomia essere/apparire, verità/falsità, menzogna/segreto, quali categorie logico-formali dell’intelletto, si ritrova anche nei linguaggi contemporanei come quelli dei fumetti: illuminanti sono, a questo proposito, le considerazioni su Mandrake, l’eroe mago dell’America degli anni Trenta.
Anche l’arte è da considerare come un momento di sospensione del tempo storico, funzionando come sistema di segni che impone il logos sul caos in un linguaggio universale. Quando l’uomo preistorico incideva sulle grotte rupestri il sacrificio di un animale non intendeva rappresentare la scena ordinaria di una battuta di caccia, ma un gesto simbolico che avrebbe garantito attraverso il messaggio iconografico un auspicio futuro, il perpetuarsi della vita nell’eternità. Il fatto significativo è che proprio nel fare artistico è possibile cogliere la contestualità fra la tecnica e il simbolo, il fare e il rappresentare. Il sapere e la tecnica coincidono nella prassi umana, poiché l’arte, contrariamente a quanto si è ritenuto dal Rinascimento in poi, è un fatto seriale e collettivo. L’aveva intuito Hauser quando si riferiva ad una storia sociale dell’arte. Diviene così estremamente labile e inconsistente qualsiasi distinzione fra un’arte intesa come momento supremo dell’attività spirituale dello spirito che si concretizza di volta in volta nel genio individuale e le arti minori intese come mestiere per il prevalere della tecnica sulla forma. L’arte, come la lingua e come il mito, funziona come linguaggio simbolico nel momento in cui trasferisce la realtà sensibile in una dimensione diversa, fissando il tempo nella metastoria.
In conclusione se il potere dei simboli appare dettato, in ultima analisi, dalla necessità di trasferire in un altrove la propria condizione umana e i suoi limiti contingenti, per risolvere contraddizioni altrimenti irresolubili, anche il concetto di identità culturale impone a questo punto una riflessione più approfondita. L’identità come Ego, ossia come consapevolezza dell’esserci nel mondo, non è qualcosa di univocamente dato una volta per tutte, ma si definisce in un rapporto di opposizione e correlazione con gli altri. Quello che comunemente si pensa come identità individuale – sostiene Buttitta – è almeno il risultato di quattro condizioni: come si è realmente e come si appare agli altri, come si vorrebbe essere e cosa si nasconde nel volere apparire. Quindi tante identità che si incontrano e scontrano con tante altre possibili alterità nella continua dinamica essere/apparire, verità/falsità.
Proprio sui limiti di una concezione fuorviante di identità culturale, sul suo essere altresì il risultato di una pluralità culturale, prodotti storici e transitori, condizionati da determinate dinamiche contestuali dovremmo interrogarci sulla scorta delle osservazioni dell’Autore. Oggi che assistiamo inerti alle stragi in mare di milioni di migranti che fuggono dalla guerra e dalla miseria dei loro Paesi mentre l’Occidente è il bersaglio di un terrorismo dilagante, una riflessione sulla relatività dell’identità culturale potrebbe probabilmente comportare un’inversione di tendenza. Una premessa affinchè maturi la speranza di una coesistenza pacifica nel mondo. Anche di questo insegnamento dobbiamo essere grati ad Antonino Buttitta, che nella sua ultima esemplare lezione ci invita a leggere la morfologia dei miti e dei simboli, quali ordito e trama della vita e della cultura degli uomini.
Dialoghi Mediterranei, n.27, marzo 2017
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015).
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