il centro in periferia
di Emanuela Rossi
Se la festa non c’è, si fa un museo
Ho cominciato ad incuriosirmi al museo della festa dell’uva, dopo aver letto alcuni articoli su un quotidiano locale, il Gazzettino del Chianti, che ne raccontava l’inaugurazione, con dovizia di fotografie, in tempi di pandemia. In quel momento che vedeva proibire tutte le manifestazioni che comportavano aggregazione di persone, i momenti rituali, aggregazioni per antonomasia, hanno sofferto moltissimo, ma pure hanno lasciato diverse tracce di sé. Dal canto mio, in quel periodo (siamo nel 2019), avevo cominciato a fare etnografia del Carnevale medievale di San Casciano in Val di Pesa, una rievocazione storica di recente ideazione, che all’inizio di marzo 2019, a causa della pandemia, aveva dovuto interrompere i lavori che di lì a qualche settimana avrebbero portato per le strade del paese diverse centinaia di persone.
Se però la performance in piazza è stata sacrificata, molte manifestazioni di questo tipo hanno lasciato diverse testimonianze, prevalentemente sul web, ma non solo. Così l’edizione 2020 del Carnevale medievale, ad esempio, si è trasformata in una competizione fotografica delle contrade in cui il paese è diviso sulla pagina Facebook del Comune, mentre nel 2021 le stesse contrade si sono raccontate attraverso dei podcast su Spotify.
Anche la festa dell’uva ha fatto largo uso dei propri social (profili Facebook ed Instagram), pubblicando immagini che ritraevano edizioni passate della festa, con l’obiettivo di ricordarla in absentia. Un video postato, ad esempio, il 2 luglio 2020 dal titolo: “Quest’anno dobbiamo vivere di ricordi…” ritrae la sfilata di un rione anni prima. Anche il sito stesso della Festa dell’uva ha contribuito a pubblicare non solo aggiornamenti su un museo, che in quel periodo era in corso di allestimento, ma anche racconti di storie del passato: una rubrica a cura di Riccardo Lazzerini ha caricato post come: L’altra volta…che tutto si fermò [1], dove si ricordava l’interruzione della Festa in tempo di guerra.
La stampa locale e in particolare il Gazzettino del Chianti, come per il carnevale medievale di San Casciano, ha pubblicato vari articoli sulla mancanza della festa dell’uva. Ad esempio, l’articolo di Matteo Pucci dal titolo: Non sarà un settembre come gli altri: quanto ci mancheranno quei quattro colori di Impruneta, che nell’occhiello scrive: «Niente Festa dell’Uva, niente sfilata l’ultima domenica di settembre. Ma, soprattutto, niente di tutto quello che le “gira intorno” per settimane. Che è la sua vera essenza. Popolare. Identitaria. Unica» [2].
La festa dell’uva di Impruneta, paese noto per la produzione delle terrecotte, che dista da San Casciano una ventina di chilometri e lo stesso più o meno da Firenze, nelle interviste che stavo raccogliendo mi veniva presentata come una sorta di modello festivo locale e vincente, visto che sta per compiere cent’anni; ha dunque inaugurato, in piena pandemia, un proprio museo. Il progetto di un museo era ovviamente nell’aria già da diversi anni, ma in quel periodo c’è stata la volontà di aprirlo.
In quei mesi stavo seguendo una laureanda del corso di studi triennale in beni culturali, Annalisa Pacini, che aveva manifestato il desiderio di lavorare sulla festa dell’uva alla quale partecipava attivamente fin da bambina. La festa era saltata per i motivi detti e l’argomento di tesi si è dovuto conseguentemente ripensare: dalla festa al museo della festa che si era appena inaugurato. Dopo la (brillante) discussione della tesi, ho chiesto ad Annalisa di poter intervistare io stessa il presidente dell’Ente festa dell’uva e di poter visitare il museo (ancora chiuso al pubblico). Queste note dunque sono legate ad una lunga intervista a Riccardo Lazzerini e ad Annalisa Pacini che mi hanno accompagnata in visita al museo.
La festa dell’uva, come ho accennato, dispone di un proprio sito web [3], interessante modo dell’auto-patrimonializzazione, all’interno del quale il museo, che in questa stessa dimensione va a collocarsi, ha un proprio spazio. Qui è così raccontata l’apertura:
«Vent’anni di desideri… Due anni di progettazione e quattro mesi di lavoro di squadra… Nasce finalmente il Museo Archivio della Festa dell’uva di Impruneta. Uno sforzo colossale ma dovuto ad una Festa ed a una comunità che ama profondamente il proprio gioiello! Si può racchiudere la magia della Festa dentro delle stanze? Di certo no ma la si può raccontare e testimoniare. [...]
Il Museo Archivio nasce dalla comunità per la comunità. La Festa dell’uva è la storia del Paese, della sua gente e della loro laboriosità; raccontarla attraverso un Museo, significa anche raccontare la Storia politica e sociale del Paese e soprattutto rendere omaggio a tutte le persone che si sono avvicendate nel tempo, consolidando tra mille difficoltà un evento unico nel suo genere. Il nostro intento è quello di trasportarvi, attraverso un percorso reale e virtuale, in quelle che sono le origini storiche ed emotive che permettono ogni anno il rinnovarsi di una vera e propria magia. Vogliamo anche omaggiare tutte e tutti coloro che se ne sono andati ma che hanno fatto parte di questa incredibile comunità che ogni anno si divide nei quattro Rioni, capaci di realizzare altrettanti spettacoli inediti che si contendono “la coppa in terracotta”, anch’essa simbolo della nostra terra e delle nostre eccellenze. Da almeno due decenni, sentivamo la necessità di un luogo che potesse diventare un punto di riferimento e di raccolta dell’infinito materiale prodotto ogni anno dalla creatività dei nostri rionali, l’unione di intenti dell’Ente Festa dell’uva e del Banco Fiorentino, hanno reso possibile la realizzazione del Museo della Festa dell’uva» [4]
Riccardo Lazzerini, classe 1970, attuale presidente dell’Ente festa, ma anche scenografo di professione, così racconta nell’intervista:
«Probabilmente se non c’era questa situazione [la pandemia da Covid] sarebbe stato difficile realizzarlo. È chiaro che è un museo di periferia però è un museo che per attuarlo c’è voluto un grosso sforzo e non solo mio, da parte di un bel gruppo di persone […], è vero che è fatto dal popolo tra virgolette, però hanno partecipato persone con una certa professionalità, […] figure che vengono dai rioni ma che nella vita fanno questo. C’è ad esempio la Roberta Masucci che in città metropolitana si occupa di allestire le mostre e i musei. Per cui lei s’è messa a disposizione e l’ha fatto a titolo di volontariato» [5].
Il museo è stato inaugurato nel 2020, nello stesso mese in cui la festa abitualmente si svolge: settembre, il 20. Sul sito della festa si può vedere il video che ne racconta l’inaugurazione. Si possono scorgere i presenti (non pochi) vestiti con i colori dei rioni. Hanno scelto simbolicamente di far tagliare i quattro nastri dei colori dei rioni da quattro donne e rionali “storiche”. Sono quattro sarte che hanno preso attivamente parte alla Festa dell’uva per più di trent’anni.
La festa dell’uva
Riccardo Lazzerini ha scritto diversi testi sulla festa dell’uva. Sul sito web della festa alla voce “La nostra storia” è riportato un ampio brano tratto dal suo libro [6] del 2016. La festa di Impruneta, che si appresta a compire ben 100 anni (è fatta cominciare nel 1926), si colloca nell’ambito di quelle feste volute, o in ogni caso sostenute, dal regime fascista: dedicate a prodotti locali che fossero di «intrattenimento popolare e di stimolo ai commerci di un circondario» [7] che Stefano Cavazza ha ben analizzato.
«Forme di intrattenimento popolare e di stimolo ai commerci di un circondario quali le sagre paesane dedicate ad un prodotto (sagra dell’uva, della castagna, ecc.) erano frequenti in Italia (…). Il fascismo fornì sostegno e pubblicità a queste usanze, a volte dando loro rilievo nazionale».
Iniziative che non nascono solo per ragioni politiche e propagandistiche, volte a valorizzare (o ad inventare piuttosto) un mondo contadino rappresentato come idilliaco, ma anche per ragioni legate all’economia che voleva valorizzare le produzioni locali in anni non facili. Il periodo di crisi del settore vitivinicolo era «acuito, secondo gli agricoltori, da dazi eccessivi, imposte fondiarie e dalla stessa propaganda antialcolica»[8] che portò a una sovrapproduzione crescente, sovrapproduzione che Marescalchi pensò di arginare grazie alla “giornata dell’uva”, dove il corteo in costume diventava il veicolo per la vendita e la produzione di un prodotto, vero e proprio obiettivo dell’iniziativa.
Dal testo di Lazzerini e Venturi veniamo a sapere che quando Impruneta nel 1929 diventa un comune autonomo la competizione comincia a prendere forma coinvolgendo le fattorie locali.
«Contemporaneamente gli imprunetini iniziano ad organizzarsi, vogliono che la loro Festa possa distinguersi dalle altre che stanno nascendo nel circondario e decidono di realizzare costruzioni gigantesche sopra il pozzo che sorge nel bel mezzo della piazza principale: riproduzioni di fiaschi, tini, strettoi, aie con pergolati che destano l’ammirazione del sempre più numeroso pubblico arrivato da Firenze per partecipare alla Festa e godere della distribuzione gratuita di vino. La Festa è pronta per il primo salto di qualità: si tratta di mettere a frutto quanto gli imprunetini dimostrano di saper fare; così, nel 1932, il Comitato organizzatore disegna all’interno del paese i confini dei quattro Rioni corrispondenti ai i quattro “popoli” disposti lungo le direttrici principali che divergono dalla piazza principale» [9].
Le cronache si interrompono all’edizione del 1938. Con la Seconda Guerra Mondiale infatti la festa si ferma per poi riprendere nel 1950.
«Con il passaggio dalla ricostruzione al boom economico la Festa, comincia a cambiare i propri connotati. Si iniziano a riprodurre sui carri oggetti che non appartengono alla vita contadina o direttamente legati all’uva: un treno, un veliero, una chitarra, una conchiglia, un mulino a vento. Le comparse aumentano di numero, ciascun Rione sviluppa la propria sfilata tipicamente su tre carri. Una giuria, posizionata in cima alla piazza, valuta il lavoro dei rionali» [10].
Nel corso del tempo gli spettacoli si fanno sempre più complessi: negli ultimi anni si possono esibire gruppi di 300 comparse per rione. Lazzerini più volte nella nostra conversazione mi parla di uno stile “Bollywood”: sostanzialmente ballano tutti. Per realizzare queste sfilate è necessario un grande lavoro che mette fianco fianco centinaia di persone diverse che animano il paese il mese di settembre e che si ritrovano poi a mangiare nei ristoranti allestiti da ogni contrada, i quali rappresentano uno dei modi di autofinanziarsi. La festa dell’uva, secondo quanto mi viene raccontato, ha un costo estremamente elevato che si aggira intorno ai 400 mila euro.
Negli anni ‘80 si hanno profonde trasformazioni che ci fanno arrivare ai giorni nostri: la struttura portante dei carri passa ad essere di metallo: è più grande e resistente e poi comincia l’uso del polistirolo.
«Il 1985 ed il 1986 possono essere considerati anni di cesura, di taglio con il passato: vengono presentati progetti che anticipano le tendenze degli anni successivi. L’introduzione del polistirolo e la possibilità di utilizzarlo per modellare statue ed oggetti giganteschi di grande effetto, la sorpresa del carro coperto che si svela solo in piazza, l’importanza delle coreografie e dei movimenti scenici a terra che riempiono lo spazio antistante la Basilica, la piazza intesa come teatro ed il carro come una quinta di scena, queste alcune innovazioni di quegli anni che ancora oggi vengono utilizzate. A ciascun Rione viene accordata mezz’ora di spettacolo per sviluppare il proprio tema» [11].
Il Museo-Archivio
Il museo si sviluppa su due livelli in un edificio in pieno centro, in piazza Buondelmonti, concesso in comodato d’uso dal Banco fiorentino ed è articolato in quattro sezioni tematiche. Dall’iniziale sala Binazzi, che è dedicata a mostre temporanee, si può accedere a quella dedicata alla creazione della Festa dell’uva. Qui si è deciso di esporre le fasi iniziali e di progettazione dei lavori che impegnano tutti i rioni. Vediamo qui alcuni bozzetti che mostrano le abilità dei progettisti che, pur non essendo degli esperti del settore, sono però in grado di raggiungere livelli di tutto rispetto.
Al centro della sala troviamo i modellini veri e propri; alcuni di questi rappresentano i bozzetti appesi alle pareti. Mi è stato raccontato che i modellini vengono spesso usati nelle prime riunioni dei rioni, come ausilio alla presentazione dei progetti. I progettisti infatti utilizzano il modellino in balsa per mostrare i movimenti e le trasformazioni che il carro subirà in piazza.
Nella sala sono poi quattro manichini femminili che indossano quattro costumi diversi, uno per ogni rione. La sartoria è un reparto fondamentale nella preparazione della Festa dell’uva. Le sartorie rionali producono ogni anno centinaia di costumi di scena, che vengono spesso riutilizzati o riadattati, come succede con parte dei carri, gli anni successivi. Non è un caso che quattro sarte “storiche” abbiano simbolicamente inaugurato il museo. Sempre in questa sala si trovano quattro piccoli schermi, uno per rione, che riproducono immagini dei momenti importanti: il lavoro al cantiere, l’impalcatura del carro, le prove delle coreografie etc.
Oltrepassando la sala di ingresso e salendo al piano di sopra, troviamo la sala dedicata alla “etichetta d’autore” [12], un’iniziativa questa nata all’interno della festa nel 1986, che va a coinvolgere artisti affermati nel mondo dell’arte. Le etichette, in formato originale, sono incorniciate e appese alle pareti, al di sotto si trova un espositore cilindrico che permette la presentazione della bottiglia con l’etichetta corrispondente. Le bottiglie sono tutte di Luca Gasparri, che ha ceduto al Museo questa sua collezione.
Al centro della sala è situata una vetrina con i manufatti prevalentemente di epoca fascista (“memorabilia della storia”: così sono definiti) che ugualmente vengono dalla collezione di Luca Gasparri: uno dei protagonisti della festa, presidente del rione Pallò ed ex-presidente dell’Ente Festa.
Ciò che è esposto nel museo è parte di una ben più ampia collezione che comprende documenti, testimonianze e manufatti legati ai primi anni della festa e in alcuni casi alla sua famiglia. Tra le cose più antiche troviamo una foto di suo nonno che, nel 1929, ha ceduto il suo barroccio per costruire il carro della Festa dell’uva; una medaglietta in bronzo, un diploma ottenuto sempre da suo nonno nel 1930, per la partecipazione al concorso di addobbo dei negozi. Si trovano anche le corrispondenze tra gli uffici di propaganda e i podestà locali.
Al piano inferiore sono le altre sale del museo: quella delle coppe e quella dei rioni. Le coppe sono esposte in un piccolo spazio col soffitto a volta e con mattoni a vista, a cui si accede scendendo una ulteriore rampa di scale. L’idea, mi raccontano, è quella di esporre non solo i trofei del passato, ma anche quello della Festa dell’uva dell’anno in corso che qui troverà la sua collocazione. Si possono qui vedere alcune delle coppe in cotto, realizzate localmente.
Si accede infine ad una piccola sala dove si trovano quattro monitor dotati di cuffie. In ogni monitor, uno per rione, viene mostrata la sfilata del 2019 di ogni rione. È la sala che conserva l’aspetto più immateriale ed effimero della festa: la sfilata dei carri con la performance.
Il museo è però stato pensato fin da subito anche come archivio digitale. Chiunque può donare o prestare materiali al museo che, in caso di prestito, vengono digitalizzati e poi restituiti al proprietario (foto, documenti, articoli, ma anche oggetti). Annalisa Pacini sottolinea nella nostra conversazione che Impruneta è piena di piccoli archivi privati prevalentemente di foto, ma anche di diapositive, sia amatoriali che non. Il fotografo locale infatti ogni anno scatta foto della festa che poi gli imprunetini acquistano. L’idea di questa parte del museo mi ricorda in un certo senso il progetto di digital repatriation che riguarda gli oggetti extraeuropei nei musei etnografici per cui attraverso le immagini è restituito ad una comunità indigena se non l’oggetto, almeno la sua rappresentazione in alta risoluzione e il sapere soprattutto che questo si trovi in una certa parte nel mondo.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1] http://festadelluvaimpruneta.it/2020/11/20/laltra-volta-che-tutto-si-fermo/ consultato il 20 dicembre 2022
[2]https://www.gazzettinodelchianti.it/impruneta/non-sara-un-settembre-come-gli-altri-quanto-ci-mancheranno-quei-quattro-colori-di-impruneta/, consultato il 19 docembre 2022
[3] https://festadelluvaimpruneta.it/
[4] https://festadelluvaimpruneta.it/museo-2/, consultato il 16 dicembre 2022.
[5] Intervista del 18 gennaio 2021.
[6] Lazzerini R., Venturi F., L’Uva in Festa – I “90 Anni” della Festa dell’uva di Impruneta, Florence Art Edizioni, Firenze, 2016.
[7] Stefano Cavazza, Piccole Patrie – Feste Popolari tra Regione e Nazione Durante il Fascismo, Il Mulino, Bologna 1997:122.
[8] Ibidem.
[9] Lazzerini R., Venturi F., https://festadelluvaimpruneta.it/festa-delluva/storia/, consultato il 19 dicembre 2022
[10] Ibidem.
[11] Ibidem.
[12] L’iniziativa è legata all’artista del cotto imprunetino Tullio Del Bravo, che ha avuto l’intuizione di legare la tradizione della Festa dell’uva con il mondo dell’arte. Del Bravo stesso ogni anno sceglie un artista che realizzerà un’opera dedicata alla domenica imprunetina e che poi diventerà un’etichetta per una bottiglia di vino in edizione limitata.
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Emanuela Rossi, docente di discipline DEA all’Università di Firenze dove insegna Antropologia Culturale e dei Patrimoni. Presso la Scuola di Specializzazione in Beni DEA dell’Università di Perugia insegna Antropologia museale. Ha cominciato a lavorare su temi patrimoniali, inizialmente da una prospettiva museale, nel 2003, conducendo la ricerca di dottorato presso il Museum of Anthropology di Vancouver (Canada). Qui ha lavorato sul processo di formazione della collezione di manufatti prodotti dagli indigeni della costa nordoccidentale del Canada. Sempre in Canada fa parte della Great Lakes Research Alliance for the study of Aboriginal Arts and Cultures (GRASAC): un gruppo di lavoro internazionale che sta conducendo un progetto di digital repatriation. Attualmente sta facendo ricerca sui processi di “indigenizzazione” dei musei nazionali canadesi con una ricerca sulla National Gallery of Canada (Ottawa). In Italia, in questo momento, sta lavorando su alcune «comunità di eredità» nella prospettiva dell’antropologia dei processi di patrimonializzazione.
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