di Mario Sarica
«Due suonatori l’uno costantemente col contrabbasso e l’altro col zufolo o col violino, non mancano mai in comune: e questi, la domenica, si piantano in una piazza, dove, non appena hanno dato l’aire a due note, veggonsi circondati da una folla di giovani villici che vogliono far prova dell’abilità e della resistenza delle proprie gambe nel far giri e capriole. Tra uno stuolo di spettatori adulti e di monelli, con due grani (oggi un soldo) di pagamento, que’ due musici da strapazzo vi danno un pezzo (u caddozzu) di fasola, o di tarantella, a vostra scelta, o di virdulidda, di ruggera, di pituta, di papariana; tutte musiche e balli popolari, un tempo accompagnati eziando al canto, i quali a’ dì nostri però vanno cedendo il luogo alla polka e alla quadriglia e ad altri balli d’arte che i campagnoli s’industriano imitare».
Così scrive il demologo Salvatore Salomone Marino sul finire del solo scorso, consegnandoci una eloquente scena di festa che coglie acutamente, all’interno di un contesto di vita tradizionale, le mutazioni musicali e coreutiche relative all’organico strumentale e alle figurazioni di danza, giocate in uno scambio dialettico culturale tra permanenza e variabilità, tra colto e popolare. Il contrabbasso, strumento dalle ascendenze nobili, o comunque accademiche, in uso occasionalmente presso i suonatori della fascia artigianale (sarti e barbieri, soprattutto, ma anche fabbri e falegnami), più a loro agio con altri cordofoni, quali mandolino, violino e chitarra, lo si ritrova, dunque, accanto allo ‘zufolo’ (verosimilmente un flauto diritto, di canna, a bocca zeppata), strumento elettivo di area pastorale.
E ciò attesta uno scambio tra saperi musicali di segno diverso, quello degli ultimi artigiani, non di rado alfabetizzato, e particolarmente votato per i balli cerimoniali o per le feste parentali (battesimi, matrimoni), che può peraltro contare anche su costruttori-suonatori, soprattutto di mandolini a fondo piatto, e quello dei contadini e, più in particolare, dei pastori, depositari di una memoria musicale e organologica più antica.
Alle figurazioni di danza tradizionale, formalizzate da un codice di gesti e movimenti radicati nell’esperienza di vita comunitaria, connotati da spiccate valenze rituali e da segni anche di corteggiamento, s’incominciano, dunque, a preferire i “balli d’arte”, espressioni di una cultura “altra” e vettori straordinari di nuova socializzazione e, soprattutto, di emancipazione, che riscatta illusoriamente, entro lo spazio atemporale della festa, dalla condizione di marginalità.
Sull’orizzonte di vita agro-pastorale e, più in generale, nei contesti socializzanti, dove cogenti sono i valori della tradizione, proprio tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, “breve”, convulso e drammaticamente epifanico, irrompono altri eventi epocali che muteranno nel profondo gli stili di vita, i modelli culturali dominanti, e quindi anche i linguaggi dei generi musicali e le figurazioni di danza popolare, fino a negarli e dissolverli nel segno della seducente ed omologante “modernità”.
Le ondate migratorie tra Ottocento e Novecento, oltre a lacerare in maniera irrimediabile il tessuto sociale delle comunità rurali siciliane e meridionali in genere, provocando una dolorosa diaspora degli affetti, impongono nuove gerarchie di valori e la dipendenza assoluta dai feticci della modernità e del consumismo, promossi e ostentati dai nascenti mass-media e dagli stessi nuovi cittadini italo-americani.
Lo scambio tra forme colte e forme popolari, fino allora sostanzialmente stabile e reciprocamente rispettoso, si fa sempre più incalzante e impari a favore delle espressioni moderne, anche nell’ambito dei generi musicali da “acquistare” e “consumare”. La straordinaria novità tecnologica della riproduzione seriale mediante dischi muta nel profondo, al di là dei nuovi repertori e mode, il rapporto con la musica e più specificamente le modalità del “farla” e del “fruirla”.
Dimenticate le valigie di cartone, gli abiti consunti, le scarpe lacere e, soprattutto, la cultura tradizionale che ha segnato profondamente la loro esistenza, gli emigranti che hanno fatto fortuna nelle Americhe, spesso tornano ai loro paesi d’origine mostrando orgogliosi i “trofei del nuovo mondo”, attestando così il loro nuovo status sociale. E tra le altre novità d’oltreoceano gli emigranti esibiscono quelle strane macchine sonore, i grammofoni, che, dopo l’effimera stagione delle pianole meccaniche ottocentesche e la sperimentazione dei rulli a cera di Edison, si diffondono rapidamente conquistando i favori di tutte le fasce sociali. E così ai suonatori di tradizione, per evitare di uscire dalla scena festiva, non resta che aggiornare i loro repertori e convertirsi ai nuovi e richiestissimi valzer, polke, mazurche, che mettono sempre più in ombra u sonu e i balletti antichi.
Non di rado le musiche da ballo che si ascoltano dai dischi giunti dalle Americhe sono incise da suonatori-emigranti, involontari e inaspettati protagonisti della nascente (e presto fiorente) industria discografica americana che, con grande sensibilità e fiuto commerciale, scopre la domanda di musica da ballo da parte delle diverse comunità straniere, diversificando la produzione e, dunque, i generi proposti – come nel caso della Columbia – nel rispetto quasi sempre delle diverse preferenze e, ovviamente, della risposta di mercato.
Una rapida ricognizione dei cataloghi discografici del tempo consente, fra l’altro, di “osservare sul campo” le mutazioni musicali in ordine ai balli, al nuovo genere di canzoni o “scene comiche” – che vedono spesso come primo attore il buffo Nofriu – e anche rispetto agli organici strumentali, spesso inediti che, tuttavia, fanno sostanzialmente riferimento alla tipica orchestrina da ballo tradizionale (violino, mandolino, chitarra). Le sale d’incisione si configurano, dunque, come nuovi spazi d’incontro tra musicisti e suonatori dalle esperienze di cultura musicale tradizionale a volte profondamente diverse, ma uniti dal comune interesse per i repertori da ballo.
Se u sonu arcaico del flauto di canna, dalle inequivocabili ascendenze pastorali, talvolta, nel ruolo di solista, viene sostituito dal clarinetto, in altri casi primeggia con la sua straordinaria vocazione virtuosistica accanto al violino e al mandolino, acquistando così una “dignità” insospettata quanto meritata, unendo due territori musicali contigui, quello agro-pastorale e quello degli artigiani, da sempre distanti fra loro.
Le variabili che interferiscono nei contesti di cultura musicale popolare, fino a modificarne i rapporti interni, le dinamiche di prestiti e scambi, sono dunque molteplici, e tuttavia essenzialmente orientate, nel caso della musica da ballo, all’affermazione incontrastata della triade del liscio (valzer, polka, mazurca) affidata a organici strumentali fedeli sostanzialmente alla tradizione, a parte l’adozione, a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso, della fisarmonica. I valzer, le polke e le mazurche, gli scòtis e i tanghi diffusi dalla radio, sempre più invasiva e omologante, assieme allo sconfinato repertorio di canzoni popolari, metteranno totalmente in ombra i balli tradizionali, sopravvissuti in alcuni casi in maniera residuale e decontestualizzata, sui quali, a parte dagli anni Trenta del Novecento, si sovrappongono le figurazioni di danza dei gruppi folkloristici reinventate, quasi sempre, per esigenze di spettacolo.
In stretto rapporto dialettico tra conservazione e innovazione, il catalogo siciliano di musica da ballo “moderna”, che non rinuncia del tutto alla tarantella, alla quadriglia e alla contraddanza, mantiene, nonostante l’assedio concentrico e insopportabile della dilagante musica di consumo, una sostanziale vitalità almeno fino agli anni Cinquanta del XX secolo. Oltre tale decennio, il fatale disgregarsi dei contesti di cultura tradizionale e l’onda montante dei generi musicali di consumo popolare, riduce sempre più gli spazi di espressione per i suonatori di tradizione. E a loro non resta che conservare gelosamente, per quanto possibile, il repertorio di musica tradizionale che ripropongono come esercizio di rimemorizzazione di una cultura musicale che non rinnegano ma che non possono, paradossalmente, trasmettere o comunicare alle nuove generazioni, o che eseguono, eccezionalmente, in occasione di feste parentali o di piazza, alla ricerca effimera di una identità collettiva irrimediabilmente perduta.
Il cospicuo catalogo dei materiali di ricerca, che si sono sommati negli anni, già ad un primo sguardo di insieme, offre l’opportunità di leggere in maniera diacronica i repertori di musica da ballo, ordinati secondo i generi, evidenziando alcuni tratti distintivi stabili e altri caratteri cangianti lungo questo percorso di cultura musicale tradizionale.
Più in particolare è possibile osservare la varietà degli organici strumentali, che attestano il mutare delle gerarchie interne, in ordine, ad esempio, al ruolo del solista, riconosciuto, di volta in volta, al flauto di canna (friscalettu) – sostituito singolarmente, nel caso di S. Marco d’Alunzio (prov. di Messina), da quello di ottone (tinwhistle) –, al clarinetto, al violino, che resta tra i protagonisti strumentali incontrastati, al mandolino e, ancora, a partire dagli anni Quaranta circa del secolo scorso, alla fisarmonica. È poi possibile osservare la permanenza, in contesti tradizionali distanti tra loro nel tempo e nello spazio, di temi da ballo fortemente radicati nella memoria musicale collettiva o la singolare reinterpretazione di temi cantabili in figure da ballo. Per non parlare del virtuosismo strumentale, esibito con generosità ed orgoglio, e delle modalità esecutive e stilistiche che emergono talvolta come tratti performativi stabili, e che spesso rivelano sorprendenti affinità con i modelli esecutivi proposti dai dischi a 78 rpm d’inizio XX secolo.
«Con l’avvento periodico di nuove mode coreutiche – come scrive Giuseppe Michele Gala – la loro assimilazione nella pratica festiva era segno di promozione sociale ed economica. La classe contadina, pastorale e marinara è stata sempre prevalentemente stanziata in grandi centri urbani, pronta anch’essa a lasciarsi influenzare dalle nuove mode musicali dal contatto quotidiano col ceto artigianale. Solo così si spiegherebbe il successo che nel ‘700 ha ottenuto in Sicilia la contraddanza centro-nordeuropea, più che in altre regioni del Regno delle Due Sicilie. In seguito mai altra regione ha fatto rifiorire ed ha arricchito la pratica della quadriglia come la Sicilia; stessa sorte benevola hanno vissuto gli scottish e i balli legati da sala (valzer, polka, mazurca). Grande importanza ha avuto la scuola musicale liutaia che aveva come fruitori soprattutto barbieri, sarti, falegnami, artigiani in genere e commercianti. Altro fattore erodente è stata l’emigrazione, che ha lacerato a più riprese interi tessuti sociali, privando spesso le comunità dei migliori suonatori e dei ballerini tradizionali; inoltre la forte tendenza nell’ultimo secolo a spettacolarizzare il fenomeno coreutico ha creato una fitta schiera di gruppi folkloristici che esibiscono spesso sui palchi un folklore di parata e dei balli del tutto reinventati e falsamente presentati come autenticamente tradizionali».
La tarantella o balletto era una danza generalmente ballata in coppia: potevano eseguirla sia un uomo e una donna, sia due uomini o due donne, il ballo era costituito da una parte sul posto con passi o “mosse” di una certa perizia e da giri in tondo o sottobraccio. Erano frequenti lo scambio di ballerini, gli incitamenti e le provocazioni del pubblico. In alcune zone la tarantella è stata contaminata dal ballo legato, così che viene detta tarantella, una specie di polka “figurata”. La contraddanza era una famiglia di balli basata sulla disposizione a schiere contrapposte dei ballerini: si ballava in numero minimo di quattro fino a otto (talvolta dodici) persone, tutte disposte per coppie miste. Erano previste alcune figure ricorrenti come l’incontro, la catena, il ponte, il passeggio e i giri sottobraccio, La cuntradanza è una sorta di nucleo essenziale di quadriglia, infatti anch’essa veniva spesso comandata da u mastru di ballu. Scarse e insufficienti notizie abbiamo raccolto su un altro ballo attestato sinora solo in Sicilia: la fasola. Rilevante spazio invece ha avuto dalla metà dell’Ottocento sino al dopoguerra u scotis, ballo legato in coppia mista con strutturazione rigida di passi codificati.
Altrove abbiamo trovato anche una particolare forma coreutica, detta anch’essa scotis o scotese, eseguita da tre ballerini (un uomo al centro e due donne ai lati) che si tengono con un fazzoletto: la struttura prevede due parti, i passi in avanti e dietro e i giri con ponti di braccia e passaggi alternati sotto. Altri interessanti balli tradizionali di rappresentazione si sono conservati in Sicilia, grazie alla loro natura spettacolare, legati entrambi al carnevale e ai riti primaverili: il ballo della cordella e il taratatà. Il primo si esegue ancora oggi a Petralia Sottana (PA) in agosto con annesso corteo nuziale; è un ballo con intreccio di nastri colorati che dodici coppie legano in vario modo attorno ad un palo centrale e che poi, con un percorso identico in direzione opposta, sciolgono. Il secondo viene rappresentato a maggio a Casteltermini (AG) e consiste nell’unico esempio oggi noto di danza armata in Sicilia, appartenente alla diffusa famiglia coreutica delle moresche, con figure di combattimento eseguite da un gruppo di uomini armati di sciabola ricurva o scimitarra.
Il nostro viaggio nella musica da ballo siciliana, che vuole solo osservare alcuni dei temi caratterizzanti, prosegue ora con l’analisi di una delle prime incisioni discografiche giunte fino a noi. Ci riferiamo, più in particolare, alla Quadriglia “alla siciliana”, che costituisce la prima di una registrazione riprodotta su disco 78 rpm Columbia effettuata a New York nel 1919. Per quanto riguarda l’esatta notazione di questo e degli altri brani d’epoca, bisogna ribadire la quasi impossibilità di riprodurre oggi correttamente un disco 78 giri pur con attrezzature adeguate, perché la velocità di registrazione fu standardizzata solo dopo gli anni Trenta del Novecento a 78,26 giri al minuto.
«Il termine quadriglia in Sicilia – annota Giuliana Fugazzotto – è ambiguo, può essere anche utilizzato come sinonimo di contraddanza. E infatti, musicalmente, difficilmente possono essere evidenziate caratteristiche univocamente appartenenti all’uno o all’altro ballo. La forma è abbastanza semplice: all’introduzione dello strumento solista, seguono tre periodi, A, B e C, tutti ritornellati, con frasi di otto battute. Solo il periodo A è formato da due frasi, la prima culminante sull’accordo di dominante, la seconda che riafferma l’accordo di tonica. La Quadriglia ‘alla siciliana’ è comandata da un maestro di ballo. Troviamo la stessa ambiguità terminologica fra il ballettu e la tarantella. Ciò potrebbe indicare la sovrapposizione di modalità di danza o di figurazione coreutiche a modelli musicali preesistenti o, viceversa, l’appropriazione di modelli musicali etnici da parte di danze di provenienza continentale o europea. Completamente diversa è invece la sopravvivenza di danze importate come lo scòtis (scottisch), il valzer, la polka, la mazurca e il tango, che hanno conservato generalmente le modalità formali e musicali d’origine. Lo scòtis, quasi in tempo di marcia, è costantemente in 2/4 ed è caratterizzato dalla figurazione ritmica. La polka, come nella tradizione più generalmente italiana, è in tempo binario o quaternario con andamento piuttosto vivace. Il valzer e la mazurca invece, sempre in tempo 3/4, sono riconoscibili per la diversa suddivisione delle pulsazioni ritmiche che, nel valzer, sono sempre scandite nell’unità di tempo (un, due, tre) e nella mazurka invece si presentano con diminuzioni (un, du-e, tre-e)».
Un articolato codice di comportamenti tradizionali contrassegnava i passaggi che portavano alla celebrazione del più importante atto della vita umana associata: il matrimonio. In Sicilia, come presso tutte le culture agrarie, tali comportamenti si plasmavano sul medesimo orizzonte simbolico e rituale che caratterizzava i cicli del lavoro contadino. Suoni, canti e danze rivestivano un ruolo centrale sia nelle fasi propedeutiche all’unione matrimoniale (pronostici, corteggiamento, fidanzamento) sia nei momenti culminanti della cerimonia e della festa nuziale.
L’amore – si sa – è motivo dominante della poesia popolare lirico-monostrofica. Il repertorio siciliano, ampiamente attestato nelle opere dei demologi, presenta una ricca tipologia tematica che va dai canti che lodano le bellezze della donna (con frequente ricorso a pregiate metafore spesso a sfondo erotico) a quelli che manifestano il sentimento della gelosia (gilusìa), il dolore della separazione (spartenza), il disdegno per l’amore non corrisposto (sdegnu), così come non mancano canzuni che contengono riferimenti ad arcaici riti nuziali o esplicite invocazioni destinate a “incantare” l’amato.
Sono viceversa quasi assenti i canti di nozze propriamente intesi, come già osservava Pitrè nel XIX secolo: «… per quanto ricco di canti d’amore, di cruccio, di dolore, il canzoniere siciliano è poverissimo di canti veramente nuziali, che celebrino le cerimonie dei vari momenti dello sposalizio. Solo nel territorio di Naso (centro rurale dei Nebrodi in provincia di Messina) G. Crimi – Lo Giudice, … raccoglieva non è guari un bel manipolo di codesti canti quali ebbe a udirli, assistendo a certe nozze contadinesche in casa della sposa e in casa dello sposo, dalla bocca delle madri degli sposi, degli sposi stessi e d’altri delle due famiglie». Sotto il profilo metrico la canzuna è in prevalenza composta da otto endecasillabi a rima alternata (“ottava siciliana”), ma si trovano anche strofe di sei o dieci versi e, più raramente, di quattro o dodici versi.
I canti d’amore si eseguivano nelle più disparate occasioni della vita sociale e lavorativa, in forma solista o in gruppo, con o senza accompagnamento di strumenti musicali. L’espressione del sentimento amoroso era quindi una funzione latente del canto, mentre le modalità di corteggiamento ammesse dalla comunità erano, e sono ancora se pure sporadicamente, rappresentate dalle “serenate”. Altrettanto codificata era d’altronde l’inversione della serenata per manifestare la rottura di una relazione, con ricorso al vasto repertorio dei canti “di sdegno”, o per segnalare le unioni matrimoniali non condivise dalla comunità attraverso canzoni e mimiche oscene accompagnate da gran frastuono di grida, fischi e percussioni.
La serenata si qualifica come categoria funzionale capace di inglobare forme poetiche e musicali variegate. Il repertorio è caratterizzato dalla compresenza di codici stilistico-esecutivi di provenienza popolare e culta: dalle canzuni a voce solista o con accompagnamento si scacciapensieri a componimenti (arie e romanze) e brani strumentali (soprattutto valzer) eseguiti da cantori e suonatori. Il concetto di ‘serenata’ è reso in siciliano dalla perifrasi purtari u sonu a zzita (lett. ‘portare il suolo alla fidanzata’), anche se, specie in contesti urbani, non è raro riscontrare l’uso del termine sirinata.
Struttura e stile del componimento mostrano evidenti commistioni con le romanze di tradizione scritta. Alla modificazione della forma poetica corrisponde il mutamento dell’esecuzione musicale. Le tipiche cadenze della canzuna contadina sono infatti sostituite da una melodia tonale di stilizzazione semiculta: periodo melodico bipartito (cadenze II – I) che suddivide in distici il testo verbale, canto tendenzialmente sillabico con presenza di allacciature e portamenti/glissati che procede per gradi congiunti e intervalli di terza; ritmo regolare in 6/8. L’accompagnamento della chitarra – del tipo a corde metalliche suonata con il plettro dallo stesso cantore – si basa sugli accordi di tonica e dominante (LA/MI).
Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
Riferimenti bibliografici
Sergio Bonanzinga (a cura di), Etnografia musicale in Sicilia, CIMS – Palermo 1995
Giuliana Fugazzotto, in Strumenti musicali popolari in Sicilia, Provincia Regionale, Messina 2004
Michele Giuseppe Gala, in Strumenti musicali popolari in Sicilia, Provincia Regionale, Messina 2004
Giuseppe Pitrè, Canti popolari siciliani, Pedone Lauriel, Palermo, 1870
Giuseppe Pitrè, Sonatori, balli e canti nuziali del popolo siciliano, Tip. Giornale di Siciia, Palermo 1885
Salvatore Salomone Marino, Schizzi di costumi contadineschi “da Archivio per lo studio delle tradizioni popolari” (Palermo), 1882;
Mario Sarica, Strumenti musicali popolari in Sicilia, Provincia Regionale, Messina 2004
Mario Sarica e Giuliana Fugazzotto (a cura di), Musica da ballo in Sicilia, Ethnica 16 – Firenze, 1996
Mario Sarica e Giuliana Fugazzotto (a cura di), I Miricani, l’avventura discografica dei siciliani in America, Phonè – Messina, 1999.
Mario Sarica e Giuliana Fugazzotto (a cura di), Ballabili a 78 giri, Phonè – Messina, 2001
_____________________________________________________________
Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
_______________________________________________________________